Rivista Anarchica Online






Folk Festival di Torino (1965-1966): una riscoperta
Una chiacchierata con Jacopo Tomatis sul volume “La musica Folk”

“La prima forma che prese la ricerca sistematica sul mondo popolare fu sui canti sociali, ma io presto mi resi conto che lo stesso principio di realtà c'era anche in una ninna nanna, in una ballata, che non era possibile separare questo repertorio in cui era esplicita la protesta o la rivendicazione sociale da tutto il resto, perché la stessa carica di realtà sociale della vita degli uomini li dichiara un canto sociale come una canzone d'amore. [...] A un certo punto l'aspetto della canzone politica ha preso nettamente il sopravvento. Il mio interesse invece era verso le forme e i modi della comunicazione popolare in tutta la sua estensione, e non l'estrazione del solo elemento protestatario in modo sempre più virulento.” (Da una video intervista a Roberto Leydi).
Questo – sinteticamente espresso da Leydi in una sua intervista/testamento – è uno dei temi principali che agitano e animano un libro recentemente uscito per l'editore Il Saggiatore, “La musica folk”. Diciamo subito che è un volume ponderoso di circa 1.300 pagine e con l'impegnativo prezzo di 49 euro. Diciamo pure che vale tutto lo sforzo di comprarlo e di leggerlo: il curatore è una sicurezza assoluta, Goffredo Plastino, già autore di un importante lavoro su Alan Lomax e l'Italia, che ha saputo circondarsi di collaboratori di grande spessore (fra i quali facciamo il nome insigne di Franco Fabbri e – indegnamente – quello mio).
Libri così, proprio perché se ne fanno pochi, sono necessari: questo libro è più che un libro, è una summa, un'enciclopedia. Per larga parte è un racconto e assieme una riflessione su un fenomeno culturale essenziale, per altra parte è anche un'antologia di testi, articoli, piccoli saggi dispersi e introvabili, nei quali i protagonisti stessi di quel movimento dicono la propria. Insomma, questo libro è un'opera di riferimento.
Dal momento che era impossibile parlare di questo libro tutto assieme, la mia scelta è stata quella di fare un'intervista a Jacopo Tomatis, un giovane (classe 1984) ed erudito talento della critica musicale che ha approfondito, in un capitolo imprescindibile, uno degli snodi meno conosciuti del Revival italiano: il Folk Festival. Jacopo Tomatis: la prima cosa che mi ha colpito è proprio che io non sapessi nulla del Folk Festival di Torino – che è la città dove ho studiato e dove vivo – pur avendo letto un sacco di libri sulla storia del Nuovo Canzoniere Italiano: quel Folk Festival era tutt'al più una nota a pie' di pagina. Io l'ho scoperto per caso, leggendo un vecchio numero di “Discoteca”, che era tutto tranne che una rivista di musica “politica”. Mi sono incuriosito, anche per la sua collocazione temporale: stava precisamente in mezzo a due pietre miliari quali “Bella Ciao” e “Ci ragiono e canto”, il momento di massima pubblicità – anche se a seguito di uno scandalo e di un processo – e quello poco successivo della rottura, non più sanata, fra i due organizzatori principali Bosio e Leydi. La mia domanda era appunto perché questa cosa non è stata canonizzata fra i momenti fondativi? Un Folk Festival nel 1965 i cui nomi in cartellone corrispondono – per larga parte – al cast del “Bella ciao” e del “Ci ragiono e canto” mi sembrava notevolissimo.

La copertina del volume La musica folk (a cura di Goffredo
Plastino, Il Saggiatore, Milano, 2016, pp. 1282, € 49,00)

Alessio: L'idea, per noi molto naturale, del festival musicale all'epoca non era molto presa in considerazione, lo diventerà poi nell'ambiente extraparlamentare per una generazione che vive il mito rock di Woodstock.
Jacopo: A suo modo anche a Torino il modello principale fu quello nordamericano, Leydi dovendosi inventare una situazione diversa dagli spettacoli teatrali, più fluida e collettiva, pensava al Festival di Newport, tant'è vero che nel lessico dei comunicati viene usato un termine che non attecchirà: “Hotnanny” invece di “Jam-Session”.

Il fatto che quest'esperimento – in anticipo sui tempi – avvenga proprio a Torino è dovuto a tuo avviso al fatto che è una capitale operaia?
Sì e no: qualcosa nell'aria della cultura operaista degli anni a venire forse c'è... ma nel modo di porre la questione nei comunicati non è che venga mai accennato il tema operaio, tutto volge intorno al mito della “civiltà contadina”.
Tornando sulla città di Torino però non è una scelta del Nuovo Canzoniere, gli organizzatori non sono militanti politici né intellettuali di carriera, sono due studenti che mettono in piedi il Festival a partire dai comitati studenteschi. L'idea che uno studente nel ‘63-'64 potesse appassionarsi a quel tipo di musica era un'idea piuttosto bizzarra e non ancora presa in considerazione da Bosio e Leydi, che se spostavano la loro proposta dalle Case della cultura e dalla Camera del lavoro era per andare a Spoleto, ovvero non in un ambiente studentesco e giovanile, ma in un contesto di musica colta. Grazie al boom e alle polemiche attorno al “Bella Ciao” però la voce si sparge, il disco circola e si fa portavoce del progetto. Così è attraverso la diffusione degli LP 33 giri che tanti giovani studenti si appassionano alle canzoni popolari e di protesta, a quelle di de André, o a tutto ciò con cui trovano affinità.

Torino, Folk Festival, prima edizione - Nella foto, da sinistra, si riconoscono:
Bruno Pianta, Hana Roth, Giovanna Daffini con la chitarra, Caterina Bueno

Rispetto agli spettacoli di cui s'è detto, questo Festival presenta una certa varietà e disomogeneità.
Dicevamo che il Folk Festival è organizzato da studenti con l'appoggio del Teatro Stabile e con il patrocinio di una serie di istituzioni cittadine delle più eterogenee, cosa anomala nella storia del Nuovo Canzoniere. I “pezzi forti” della prima edizione del 1965 li porta Leydi dal suo ambiente teatrale milanese (Milly), oppure – anticipando il concetto del “Sentite buona gente” – porta Teresa Viarengo e Palma Facchetti come “monumenti viventi” della cultura popolare da esporre. Nella corrispondenza rimastaci si assiste a un dibattito effettivamente vivace sulle modalità di rappresentazione: trovare un modo giusto e rispettoso, cercando di rompere la cerchia dei soli appassionati. Il Folk Festival è interessante anche perché non essendo Bosio e Leydi i diretti organizzatori, non hanno il controllo totale della cosa, ed esiste un'oggettiva esigenza di pubblico per fare “cassetta”. Il vero segno di novità è nella presenza dei cantautori.

Cantautori? Chi ci andò?
Andarono Enzo Jannacci e Maria Monti, che però erano già più inseriti negli ambienti alternativi, il vero “alieno” lì dentro fu Sergio Endrigo, anche perchè in quel momento era la vera “star”, quello che andava anche a Sanremo. Ci sono però altri nomi che vengono annunciati sugli “strillini” della stampa giorno per giorno: Gino Paoli, Giorgio Gaber, forse Lauzi. La cosa difficile da capire è quanto questi nomi avessero poi “bidonato” all'ultimo momento e quanto fossero stati annunciati in modo temerario, magari dopo un vago contatto, di certo nel programma di sala era stampato qualche loro testo, quindi si trattava di qualcosa più che una bella intenzione. C'è poi un affascinante “caso de Andrè”: non è mai dichiarato da nessuno fra i vari partecipanti all'iniziativa, però c'è una testimonianza di Gualtiero Bertelli che dice che de André stesso gli avesse detto di essere stato invitato, ma che non aveva intenzione di andarci perché era “pieno di comunisti” mentre lui era anarchico.
La cosa interessante – al di là del fatto che ci siano o non ci siano andati – è che gli organizzatori sentissero il bisogno di inserirli, senz'altro per attirare pubblico, ma anche perché percepivano una qualche affinità con quegli artisti.
Il Folk Festival è forse il primo tentativo di costruire un circuito alternativo per la musica in Italia, basato sul Folk Revival, ma aperto al confronto con i cantautori meno compromessi con la commercialità.

Venaria Reale (To), Folk Festival, seconda edizione - Un palco all'aperto

Fu anche un primo tentativo di portare il Folk italiano a contatto con le esperienze americane ed europee.
Questo soprattutto la seconda edizione del 1965, ma la possiamo considerare un'esperienza in parte fallita perchè non ha avuto seguito, e non l'ha avuto perché non ha avuto i finanziamenti necessari e chi lo organizzava non è mai venuto in contatto con il potere amministrativo, nemmeno il Partito Comunista, tranne una piccola quota dovuta all'interessamento personale di Diego Novelli.

Il Folk Festval ospitava esclusivamente canzoni o ebbe qualche concessione alla musica strumentale o da ballo di tradizione popolare?
La prima edizione portò in scena esclusivamente canzoni: popolari, divise fra informatori/portatori e interpreti, o d'autore, divise fra nuova canzone e cantautori, il secondo invece aprì ad altre forme musicali. Vi furono workshop teatrali, mini-spettacoli che rompevano la forma canzone: Giovanna Marini – che al primo non c'era perché impegnata negli Stati Uniti – nel secondo partecipò appunto con la sua lunga cantata “Vi parlo dell'America”, che inaugura il genere delle cantate che sarà praticatissimo da lei e dagli autori della Nuova Canzone (in parallelo con gli Album-concept nel “mainstream”) e che quindi testimonia della vena laboratoriale di quell'esperienza.
La prima generazione del Folk Revival non sarà certo ricordata per la ricerca strumentale – sarà proprio la premessa da cui muoveranno Riccardo Tesi e gli interpreti della seconda generazione – ma in questo secondo Folk Festival c'è almeno un'eccezione: viene invitato un ghirondista, e la ghironda viene presentata come un'assoluta novità, uno strumento perduto e riscoperto quasi mitologico, ed è così tanto una novità che sui giornali viene spesso scritta come “gironda” o addirittura “gioconda”. Proprio questo strumento è poi diventato fondamentale del revival dell'area piemontese, chissà se propio in seguito all'impressione che fece al Folk Festival, ma di questo non abbiamo le prove e resta una divertente ipotesi.

Alessio Lega