Rivista Anarchica Online






Storie di beat, punk e mazurche lente

Punk anarchia rumore

“...Pogo, anarchia e corpi senza più stronzate
sull'amore. Questo è stato il punk. E niente può
rinchiuderlo in un cazzo di disco o di libro.”

Il libro tende a nascondersi, a confondersi, a perdersi negli scaffali: è scuro d'aspetto e magro cento pagine soltanto, e resta un po' nell'ombra nel settore musica della libreria in mezzo ai volumoni dedicati a questo o a quell'altro eroe del rock. La copertina purtroppo aiuta un po' poco nell'orientamento: un soldato col mitra, collage di teschi e serpenti a fumetti. Perderselo, però, sarebbe un vero peccato: sì, perché Carmine Mangone nel mettere insieme i pezzi che formano “Punk anarchia rumore” (ed. Crac, 2016, € 13,00) è riuscito a scovare proprio il “pezzo mancante” di trent'anni di discussioni e sbattimenti. Ma questo non è una guida per comprare o non comprare dischi, e neanche un trattatello di filosofia sulla cultura punk, e nemmeno un pamphlet di propaganda.
Da come la vedo io all'inizio non dev'esserci stata una vera e propria intenzione di “scrivere un libro”: questi appaiono come appunti personali scritti in occasioni diverse e tempi distanti, ragionamenti e riflessioni che Carmine ha pensato di appoggiare temporaneamente sopra a un pezzo di carta o trasferire in un hard disk, e che poi è riuscito a intrecciare ed organizzare insieme. Ci sono vari discorsi ciascuno con uno o più punti di partenza, e forse nessun arrivo: l'amore per certa letteratura e certa poesia, il nervosismo e la frustrazione di chi ha vent'anni e da qualche parte dentro in testa continua ad averne sempre e solo venti, la curiosità per le musiche ed i suoni inattesi, quel sentirsi differenti e arrabbiati e felici - quel sentirsi anarchici, in una parola - così difficile e scomodo da raccontare perché sarebbe come raccontare il calore del sangue che ti scorre dentro e il respiro che ti tiene vivo.
Nonostante il disordine, incredibilmente, nel libro regna una calma strana: Carmine racconta e spiega con chiarezza, a bassa velocità e deviando volentieri, dipanando il filo del discorso per chilometri e decenni, attraverso un posto che è sempre lo stesso anche se per abitudine o per convenienza lo si chiama Inghilterra, oppure America, oppure Italia. E invece che snocciolare nomi più titoli di dischi più cronache di concerti più aneddoti e gossip e seghe varie, Carmine ha scelto di raccontare la vita.
Contatti: l'editore su www.edizionicrac.blogspot.com, l'autore su carminemangone.com.

La copertina del libro di Carmine Mangone
Punk anarchia rumore

Otto baffi

Nel segnalare il cd di debutto di Filippo Gambetta (“A” 268, dicembre 2000 - gennaio 2001) tra le altre cose mi chiedevo: “chissà come saranno capaci di suonare lui e i suoi compagni tra cinque, dieci, vent'anni... Speriamo non emigrino come fanno i medici e i ricercatori, e che continuino a bazzicare, oltre che le sale dei conservatori e i posti seri, anche le nostre piazze, i palchi improvvisati dei piccoli centri sociali e i giri marginali dove si ascolta musica con altrettanta attenzione e fame”.
La risposta me la ritrovo tutta qui, dentro a questo “Otto baffi” (autoprodotto, 2015) preso un paio di mesi fa a un concerto di Filippo con la pianista/violinista canadese Emilyn Stam a pochi chilometri da casa mia. È il suo quarto cd, il primo realizzato in autonomia dove i tre precedenti erano stati tutti pubblicati da Felmay. Per sua e soprattutto nostra fortuna, in tutti questi anni lui ha effettivamente continuato a suonare e a ricercare e a bazzicare, nonché a sfamare volentieri gli affamati di buona musica: ha pubblicato pochi dischi sì, ma ha tenuto tanti e ancora tanti concerti. Di molto bello, secondo me, c'è che è stato capace di mantenere quel suo approccio sorridente e curioso allo strumento, quella sua semplicità di base nel mostrarsi alla gente ed una certa predisposizione a divertirsi col suono, che aggiungono un piacevole spessore alla già ottima qualità dell'ascolto. Filippo Gambetta, a vederlo suonare, pare non essersi abituato al mestiere. Nonostante abbia girato il mondo ed accumulato chilometri e incontri, gli si legge ancora in faccia un certo meravigliato stupore che le sue dita si muovano così e riescano a tirare fuori, invece che banalità melodiche, arabeschi e nuvole e ricami e preziosità da quel piccolo organetto diatonico che porta allacciato sulle spalle. “Otto baffi” è un gioco di parole che si riferisce all'organetto a due file e otto bassi, uno strumento che suona solo in due tonalità maggiori, sol e do, ed è spesso utilizzato dai principianti.
Nel disco c'è bella musica suonata da tanti musicisti, più che “ospiti” mi sembrano condividere del cibo ed accompagnare Filippo lungo un tratto di strada: un misto gustoso e particolare di semplicità e funambolismo, utilizzabile per danzare (credo sia il suo lavoro più pop/ular e, volendo, il più fruibile: ricco di mazurche lente, scottish, valzer musette, bourrée a tre tempi ed altro, tutta roba nuova e non tradizionale/rispolverata). I non ballerini culo-di-pietra come me, per certo più a proprio agio con la ginnastica delle orecchie che non con quella delle gambe, possono passare un'ora a sorprendersi continuamente di tutte le belle e fantastiche cose che qui dentro accadono, e che appaiono inaspettatamente diverse ad ogni nuovo ascolto.
Contatti: www.filippogambetta.com.

La copertina del cd di Filippo Gambetta Otto baffi
Beat!

Nei mesi scorsi, nelle pagine appena accanto a questa rubrica, è comparso un trafiletto pubblicitario di stella*nera con un riferimento a “Beat!”, un libretto e cd che ho curato e pubblicato piuttosto sottovoce. La cosa pare avere incuriosito, tante sono state le richieste di informazioni che ho ricevuto e continuo a ricevere. Trascrivo di seguito una presentazione di questo lavoro, che avevo scritto qualche tempo addietro saccheggiando delle cose scritte in precedenza - ma inedita in questa forma su “A” - e che è ancora buona / valida. Come tutte le altre cose pubblicate da stella*nera, non trovate “Beat!” in vendita nei negozi: scrivetemi a stella_nera@tin.it, che vi spiego come fare.
“Mi rivedo a scuola, 1972. infagottato in un eskimo verde - uniforme obbligatoria a quei tempi. Uno dei tanti supplenti di italiano, in prima superiore, un giorno mi ha cacciato in mano un ciclostilato di “Howl” di Allen Ginsberg e guardandomi fisso negli occhi mi ha detto di leggerlo con attenzione: ci avrei trovato dentro delle meraviglie, diceva, e aveva ragione ma non me ne sono accorto subito.
Avevo quindici anni, ero solo un ragazzo spaesato che aveva appena messo il naso fuori dal quartiere e che si ritrovava in testa un grande disordine. Ma c'era Fernanda Pivano che, traducendo l'America per me, ha aperto la porta. La Nanda è stata la porta, anzi, dico meglio: la Porta. Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, le bibbie degli spostati. Un magma incomprensibile, ossessionante, magnetico, rimbombante. I miei libri sacri.
Eccomi a Roma, passo lì a studiare tutta l'estate del 1980. A fine luglio l'associazione Beat 72 e l'assessore illuminato Renato Nicolini mettono in piedi il secondo Festival Internazionale dei Poeti (il primo si era tenuto l'anno precedente a Castelporziano). In cartellone praticamente la Beat generation: da Anne Waldman a John Giorno, da Gregory Corso a William Burroughs. Io mollo tutto e ci vado, porto con me un paio di cassette ed un piccolo registratore, e lo uso.
Di quella sera mi rimangono in testa, da qualche parte, la voce che Lucia Scalzone cede in prestito al suo compagno, e quella di Fernanda Pivano impastata di risate e sorrisi ed imbarazzo mentre traduce quelle poesie/canzoni di Allen Ginsberg e Peter Orlowsky così ricche di sesso e luce e felicità. Ricordo una contestazione volgare a Michael McClure, inadatto ad essere consumato dalla folla. Ginsberg quella sera sono riuscito a sfiorarlo con una mano, per me è stato un po' come toccare il buddha. E poi luglio finisce, e poi anche agosto, anche settembre. E succede che lasci tutto là, torni a casa, lasci quelle strade e ne prendi di nuove.
Ti vengono ad abitare in testa altre parole, altri suoni, ti chiamano altre voci, segui altre facce, altri odori. I poeti rimangono, le loro voci immutabili dentro ai libri, pietre miliari al bordo della strada maestra che, inevitabilmente, ti ritrovi a percorrere e assieme pietre d'angolo della casa che, inevitabilmente, ti ritrovi a costruire mattone dopo mattone, giorno dopo giorno, respiro dopo respiro.
2015.
Un giorno la scorsa estate saltano fuori da una scatola, sopravvissuta ai traslochi, due vecchie cassette. Le riconosco subito e improvvisamente torno indietro di trentacinque anni: Roma, i poeti, villa Borghese. Una vita fa. In mezzo anni di piombo, di amianto, di televisione. Non ci sono più in giro Allen, William, Gregory, nemmeno Fernanda. Niente più nuove poesie, nuovi canti, nuove traduzioni. Ma altre poesie, altri canti, altre traduzioni.
Ho fatto trascrivere in formato digitale quelle registrazioni da un caro amico e compagno: gli ho chiesto di non modificare la qualità del suono, non volevo trasformare artificialmente quella che era, è e rimane una registrazione “amatoriale”. Sono convinto sia impossibile renderla “migliore”. Pace e amore.“

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

William Burroughs (5 febbraio 1914 - 2 agosto 1997)
poeta della Beat generation