Rivista Anarchica Online






Vinili
un invito all'ascolto perduto

Qualcuno lo diceva ironicamente, qualcuno paradossalmente afferma: si torna al vinile. E non è proprio vero, ma nemmeno del tutto una battuta. Sicura in compenso è la crisi del CD giunta alla fase più drammatica: quanti ne comprate ancora in un anno? E dove? E se pur li comprate li ascoltate sempre dal loro supporto di alluminio? Possedete uno di quegli apparecchi hi-fi che, collocato nell'angolo buono del salotto, faceva l'orgoglio dei melomani di venticinque anni fa? O avete ormai eletto la sola autoradio della vettura, e i lunghi noiosi percorsi d'autostrada, a momento dedicato all'ascolto attento della musica? Non ci si può prendere in giro: il CD è un morto che cammina ormai da dieci anni, sempre più confuso, sempre meno collocabile.
Invece un piccolo e facinoroso drappello è restato fedele al vecchio disco inciso, frattanto che qualche nuova leva si aggregava anno per anno. Non numeri così significativi da poter parlare di vera e propria tendenza, intendiamoci, si tratta di culto, di nicchia che sostiene piccole produzioni quasi artigianali. Fatto sta però che accanto ai mercatini delle pulci o alle “gioiellerie“ dei pezzi rari con prezzi da antiquario e alle nuove produzioni di artisti che si pagano il lusso e la soddisfazione di vedersi stampati sul lussureggiante formato dell'LP (ci sono cascato anch'io), c'è un'accanita corsa alla ristampa dei classici, che persegue strane linee non solo mainstream: accanto ovviamente ai Beatles e a de André si ristampano i più oscuri epigoni del Prog Rock italiano, perché l'estetica seventies ben sposa quel mondo al vinile.
Questo però gli è un parlare di Mercato, cosa che questa rubrica si è sempre guardata dal fare, per mancanza di interesse e soprattutto competenze specifiche, familiarità con le fluttuazioni, le cronologie e i grafici. Volevo solo dirvi questa cosa del ritorno al vinile - pur coi suoi numeri piccoli, ma non irrisori - esiste in cielo e in terra, e dunque dovrà trovar posto anche fra le nostre filosofie.
Il passaggio alle nuove tecnologie ha violentato un mito che, in meno di cent'anni e circa cinquanta di effettiva produzione industriale, aveva costruito un tipo di musicofilo: l'ascoltatore di dischi. I Compact-disc prima, poi i file immateriali archiviati nei nostri computer e infine in una sorta di grande biblioteca sonora globale perennemente raggiungibile online (Youtube e Spotify), non serbano l'essenza mitica del vinile. Intendiamoci, ci sono degli enormi vantaggi: i file immateriali garantiscono una permanenza e una raggiungibilità del patrimonio inciso impensabile già solo negli anni ‘90, quando spedivo gli amici che facevano un viaggio in Francia, in Portogallo, in Russia a recarsi nel miglior negozio di dischi del luogo per approvvigionarmi di materiale non distribuito fuori dai confini dell'area linguistica di provenienza.

Cosa si è perso

C'è però una significativa perdita: il Long-playing - il formato più avanzato dei vecchi dischi - aveva condizionato l'atteggiamento di musicisti e ascoltatori a misurarsi con una durata aurea (45 minuti circa, 22 per lato), con una relazione fra brano e brano all'interno del disco e della facciata stessa, con una gerarchia di informazioni che fuori dall'LP è stata allegramente devastata, senza trovare alternativa e riducendosi al minimo denominatore del singolo brano (se pure lo si ascolta per intero!). Quel tanto che faceva somigliare un album a una raccolta di poesie o di racconti, a un romanzo, a un recital, a un'opera lirica, senza essere precisamente nessuna di queste cose, e fondando addirittura uno stilema praticatissimo nel decennio ‘70-'80 il “Concept Album“ si è frantumato, lasciando solo il ricordo di un'epoca dell'oro.
Il mercato non si è più ripreso - e morde tenendosi, coi suoi denti malati, aggrappato ai diritti editoriali di bizantine e grottesche pantomime burocratico-sbirresche, di leggi che non riescono ad adeguarsi alla tecnologia - ma questo in fondo è affar suo, qui ci occupiamo di cose più sottili e più profonde.
Ciò che mi preoccupa è la perdita di attenzione, la diseducazione ormai completa alla fruizione di un'opera registrata, la distrazione che poi si ripercuote anche sull'esibizione dal vivo, riducendo ogni ascolto musicale a mero sottofondo.
La canzone d'autore (non solo lei a dire il vero) vive di ascolto attento, come un “non-genere“ che ha fra le sue principali caratteristiche di tenere a un livello sorvegliato sia le parole che le musiche e di legarle con un'interpretazione più connessa all'individualità del cantante che alla sua interpretazione: più espressività che solfeggio, più convinzione che intonazione. Essa non si rassegna a stare in sottofondo, difende assieme la dignità di chi ha scelto di cantare e quella di chi vuole ascoltare.
Per questo - anche per questo - la canzone d'autore è un genere lodato ma sempre meno ascoltato: si stimano i cantautori del passato, ma non si vuol credere alla vitalità di quelli attuali. Da quel poco che ci resta, da quello scrigno di tesori, da quel pugno di LP originali sarebbe bene trarre non la coazione a ripetere delle “cover“ sempre uguali, ma un riabituarsi a un ascolto consapevole, curioso, attento, quello appunto del tempo del vinile. A questa intenzione - storica e didattica al contempo - io dedico alcuni spettacoli che hanno trovato un certo favore di pubblico.


Guido Baldoni e Alessio Lega

Un nuovo spettacolo

Qualche anno fa io e Guido Baldoni ci siamo lanciati in un'impresa che pareva folle, tentare una Storia d'Italia attraverso la canzone d'autore. Una grande antologia di più di cento brani (centocinquanta nella prima edizione in dieci puntate, centodieci nelle successive in cinque) interpretati integralmente dal vivo e inseriti in un flusso che raccontava l'evoluzione del gusto non come un susseguirsi di nomi eccellenti, ma lo svilupparsi di una cultura musicale, poetica, esistenziale, politica. Questo spettacolo ha avuto decine di repliche in molte città, registrando quasi sempre il tutto esaurito. L'ultimo ciclo si è svolto fra novembre 2015 e marzo 2016 al prestigioso Folk Club di Torino.
Non ci eravamo ancora ripresi dalla fatica di questo vero e proprio tour de force, che già progettavamo un nuovo e più faticoso spettacolo. “Vinili“ si chiama e vuole richiamare un decennio nel quale i più grandi successi coincidevano spesso con uno straordinario livello musicale. Negli anni che vanno dal 1970 al 1980 è impressionante considerare la frequenza quasi mensile di dischi che già appena usciti diventavano classici. Il nostro spettacolo “Vinili“ si basa sull'esecuzione di questi dischi, adeguandone ovviamente gli arrangiamenti all'essenzialità del nostro duo: chitarra, fisarmonica (alternata al pianoforte) e voce.
Nel ripresentare al pubblico i vinili come un prodotto della cultura più che dell'industria, vogliamo fare i conti con la nostra Storia rileggendo le scelte e i moduli con i quali i più celebri musicisti italiani si consegnavano alla memoria popolare e all'inconscio collettivo. I dischi erano il patrimonio emotivo di una generazione, oggetto di culto, di scambio, di riconoscimento reciproco, di ribellione al peso di una cultura accademica e vuota.
La scelta è stata dura, il rigore era parte essenziale del progetto: le scalette dei vinili che abbiamo scelto saranno eseguiti nella loro più assoluta integralità, due per appuntamento. Altresì è stato durissimo escludere canzoni essenziali di un autore solo perché abbiamo scelto di rappresentarlo attraverso un disco piuttosto che un altro. Ma le regole del gioco che vogliamo giocare con i nostri spettatori mirano appunto a riascoltare integralmente eseguiti dal vivo gli LP, non un'antologia di canzoni, e va pur detto che nei migliori dischi sono presenti molte delle più belle canzoni.
Questa la sequenza dei dieci dischi, usciti fra il 1970 e il 1980, ripartiti sui cinque appuntamenti.
Primo: la rassegna si apre con due dei classici più celebrati dei due massimi autori della canzone italiana. “La buona novella“ 1970 di Fabrizio de André è una versione rivoluzionaria del mito fondativo cristiano, una narrazione scarna degli eventi che portano alla nascita di Gesù, cui è dedicato il lato A, e poi con un salto di 33 anni, della Passione di Cristo cui è dedicato il lato B. La musica essenziale e l'interpretazione concentrata ne fanno uno dei dischi più coesi e radicali, la poesia di Tre madri e la rilettura dei dieci comandamenti del Testamento di Tito sono vertici ineguagliabili. “Radici“ 1972 è il disco che ha dato a Francesco Guccini lo status di cantautore italiano più rappresentativo del decennio: ripiegato e colloquiale (Incontro, Piccola città), narratore di favole storiche e apologhi futuribili di impegno politico ed ecologico (La locomotiva, Il vecchio e il bambino), magniloquente compilatore di almanacchi con tanto di citazioni in bella vista (Canzone dei dodici mesi).
Secondo: “Ci vuole un fiore“ 1974 di Sergio Endrigo ci dimostra che il cantautore istriano, già considerato un vecchio arnese con un decennio di ballate romantiche alle spalle, era in realtà all'avanguardia producendo le più belle e famose canzoni per bambini di sempre sui testi di Gianni Rodari. “Quelli che“ 1975: anche Jannacci è un outsider attivo fin dagli anni ‘50, diventato famoso suo malgrado con una canzone comica. Negli anni settanta si avvicina all'etichetta indipendente “Ultima spiaggia“ (diretta dal padre dei cantautori Nanni Ricordi) e incide questo album schizofrenico che all'esilarante title track accosta la straziante Vincenzina e la fabbrica.
Terzo: “Com'è profondo il mare“ 1976 fu il primo album interamente scritto da Lucio Dalla, già reduce dal successo sanremese e dagli album sperimentali col poeta Roversi. Capolavoro di equilibrio fra melodia, sonorità anglosassone, dimensione popolare e testi visionari. “Disoccupate le strade dai sogni“ 1977 di un altro grande bolognese, Claudio Lolli, è meno celebrato del precedente suo “Ho visto anche degli zingari felici“, ma ne raccoglie e rilancia la sperimentazione formale di tensione sociale e contaminazioni jazz d'avanguardia. È il disco forse più rappresentativo del Movimento del ‘77.
Quarto: “Nunteraggaepiù“ 1978 di Rino Gaetano è un disco giocoso, nella canzone Gianna, portata con successo a Sanremo, si fa gioiosa questione di sesso e inflazione e Capofortuna, contestando da sinistra il Partito Comunista, richiama il mondo extraparlamentare. Dello stesso anno è il disco “De Gregori“ (la prima canzone è “Generale“) concepito dopo la violenta contestazione subita dal cantautore al Palalido di Milano. Un disco fra i più rabbiosamente politici (L'impiccato, La campana) che anticipava il tour “Banana republic“ che sancì il momento di massimo successo dei cantautori.
Quinto: “Agnese dolce Agnese“ 1979 di Ivan Graziani tenta la commistione fra canzone e rock, sonorità dure e articolate legate all'aspro territorio abruzzese (Taglia la testa al gallo, Fuoco sulla collina) e tenere e sognanti ballate. “Sono solo canzonette“ 1980 di Edoardo Bennato è la riscrittura della favola di Peter Pan, un apologo trasparente di una generazione alla ricerca della propria identità fra l'integrazione dei genitori, la lotta armata (“Il Rock di Capitano Uncino“) la tossicodipendenza (“Spugna“).

Alessio Lega