Rivista Anarchica Online


ambiente

I rifiuti
rifiutati

testi di Zelinda Carloni, Roberto Gimmi, Adriano Paolella, Michele Salsi
intervista della redazione a Giorgio Nebbia
foto AFA - Archivi Fotografici Autogestiti
ricerca iconografica a cura di Roberto Gimmi


Quantità enormi. Impatto ambientale devastante.
Gestione sociale a dir poco problematica. Eppure i rifiuti potrebbero
anche essere considerati una risorsa. A patto che...

Caserta - Rifiuti non raccolti per le strade della città


La sfida dei rifiuti
di Roberto Gimmi

Con una produzione in costante aumento, la gestione dei rifiuti sarà una delle sfide globali del futuro.

Nei prossimi 15 anni, nel mondo si arriverà a produrre oltre 6 miliardi di tonnellate di rifiuti all'anno, con danni all'ambiente e spese di gestione che raggiungeranno i 400 miliardi di dollari. La metà di questi rifiuti è di origine urbana (quelli prodotti dagli individui), mentre l'altra metà riguarda i rifiuti cosiddetti speciali, provenienti cioè da attività industriali e produttive.
Circa la metà della popolazione mondiale non ha accesso ai più elementari servizi di gestione dei rifiuti, ragione per cui ogni anno montagne di rifiuti vengono prodotte e abbandonate, con danni ambientali e sanitari spesso irreparabili.
La gestione dei rifiuti è una delle voci di costo più pesanti nei bilanci delle amministrazioni pubbliche e continua a crescere con l'aumentare della popolazione; l'incremento maggiore si è avuto in Cina, dove la produzione di rifiuti ha superato gli Stati Uniti già dal 2004.
L'aumento della produzione globale dei rifiuti fa sì che i costi di smaltimento diventino più alti in quelle nazioni in cui lo sviluppo di impianti e tecnologie è in ritardo. E i paesi definiti “in via di sviluppo'' diventano inevitabilmente la destinazione ultima dei rifiuti, soprattutto speciali e pericolosi, per il loro uso massiccio delle discariche, che sono la soluzione più economica anche se molto impattante per l'ambiente.
La via dello smaltimento illegale gestito dalla criminalità organizzata, soprattutto per quanto riguarda i rifiuti industriali, continua a essere una delle più battute, in tutto il mondo. Una triste realtà.
La crescita delle nostra società deve poter contare sempre di più su un cosciente e responsabile stile di vita. “Ci sono sempre due scelte nella vita: accettare le condizioni in cui viviamo o assumersi la responsabilità di cambiarle''. “Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all'improvviso vi sorprenderete a fare l'impossibile''.

Roberto Gimmi



Chiudere il ciclo,
per quanto possibile

intervista della redazione a Giorgio Nebbia

Non si tratta solo di pratiche individuali. Per affrontare la questione dei rifiuti serve uno sguardo ampio, che comprenda l'intero sistema capitalistico.

Giorgio Nebbia (Bologna, 1926), professore di merceologia all'Università di Bari dal 1959 al 1995, si occupa da decenni di ecologia, rifiuti, ecc. Gli abbiamo posto due domande.

Quando si afferma la necessità di ridurre la produzione di rifiuti, raramente si affronta la questione in modo più generale, guardando a quel modello economico e a quei sistemi di produzione che li generano.
Quanto la questione dei rifiuti può essere risolta tramite comportamenti personali “virtuosi“ e quanto invece deve essere fatto nell'ambito di un generale ripensamento dei sistemi di produzione e del modello economico attuale?
Il prof. Joseph Spengler inaugurando nel 1965 il congresso della American Economic Association, disse che la nostra dovrebbe essere chiamata non società opulenta, ma società dei rifiuti. Nell'originale c'è un gioco di parole fra “affluent society“ (il titolo di un, allora, celebre libro di Galbraith, tradotto in italiano come “la società dei consumi“) e “effluent society“, appunto la società che fa uscire dal proprio corpo un profluvio di scorie.
Ogni essere umano ha dei bisogni: quello di nutrirsi, di difendere il corpo dal freddo, di muoversi, di comunicare con altri, e questi bisogni possono essere soddisfatti soltanto con beni fisici - pane, tessuti, mezzi di trasporto, mattoni, eccetera - tratti dalla natura.
Ci chiamano consumatori, ma noi non consumiamo niente e soltanto trasformiamo, dopo l'uso, gli oggetti in altri oggetti, “merci negative“, che finiscono nell'aria, nelle acque, nel suolo in quantità tanto maggiore quanto più una società è “avanzata“. La quantità dei rifiuti - solo i rifiuti solidi sono in Italia 150 milioni di tonnellate all'anno, circa 35 quelli “domestici e urbani“ - e la loro qualità dipendono quindi dal tipo di società in cui si vive.
Fra le società umane quella capitalistica produce denaro attraverso il commercio di questi oggetti e, per ottenere più denaro, impone agli esseri umani di soddisfare i bisogni possedendo e usando più merci; anzi il fabbricante e il venditore per avere il massimo profitto, progettano merci che durano poco, che devono essere continuamente rinnovate e buttate via, e “rifiutate“, generando così crescenti quantità di rifiuti, quei corpi estranei nocivi per la salute e per l'ambiente naturale.
A tal fine la società capitalistica usa il raffinato strumento della pubblicità per asservire i suoi sudditi alle merci, anzi li costringe fin dalla più tenera età a diventare generatori di rifiuti.
L'aveva ben capito oltre un secolo e mezzo fa Carlo Marx quando scrisse, nei “Manoscritti economico-filosofici del 1844“ che nella società borghese: “ogni uomo s'ingegna di procurare all'altro uomo un nuovo bisogno per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza,

Da un punto di vista concreto, quali sono i progetti che è urgente realizzare per risolvere la questione della gestione dei rifiuti, urbani e speciali?
La stessa società capitalistica che si ingegna di fare soldi vendendo crescenti quantità di merci, si ingegna di fare soldi anche proponendo lo smaltimento dei rifiuti, con la sepoltura di quelli solidi in discariche, oppure con la combustione in inceneritori; quella anzi degli inceneritori (scusate: “termovalorizzatori“) è la soluzione più brillante perché permette ai gestori di ottenere “valore“, cioè soldi, grazie alle sovvenzioni pubbliche ottenute come premio per la vendita di elettricità contrabbandata come derivata da fonti “rinnovabili“.
Una qualche soluzione per diminuire la massa di rifiuti da seppellire o bruciare è offerta dai processi che consentono di ottenere nuove merci riciclando alcuni dei materiali presenti nei rifiuti, a condizione che siano raccolti separatamente, per categorie merceologiche simili. Senza dimenticare che non esistono “zero rifiuti“, che i processi di riciclo generano anche loro altri, sia pure in quantità inferiore, rifiuti.
Per fare qualche passo verso la “liberazione“, almeno parziale, dai rifiuti bisognerebbe cominciare a chiedersi: che cosa sto comprando - che sia conserva di pomodoro o un divano, gasolio o il sacchetto di plastica per la spesa - come è fatto? dove è stato fatto? con quali materie? dove finirà quando non servirà più? è strettamente necessario? ci sono alternative?
Non si tratta di auspicare una società povera, ma austera si, ispirata al valore politico della solidarietà di classe e internazionale. Le merci consumate sono fabbricate portando via dalla natura acqua, minerali, prodotti forestali, impoverendo la fertilità dei suoli, beni sottratti ad altri; molte merci e risorse che soddisfano la nostra insaziabile fame di “consumi“ sempre più mutevoli e superflui sono “rubate“ ad altri - che alla fine si arrabbiano.
Ma si arrabbia anche la natura perché i crescenti consumi e rifiuti alterano i suoi lenti, duraturi cicli naturali; quella natura in cui non esistono rifiuti perché è capace di rigenerare nuova vita dalle scorie della vita. La vera ricetta sta quindi nell'usare le conoscenze tecnico-scientifiche per conoscere meglio i cicli della natura e per richiudere, almeno in parte quelli più brutalmente rotti dall'avidità dei soldi.
A questo proposito si possono utilmente leggere i libri scritti negli anni sessanta del Novecento da Barry Commoner, “Closing circle“ (in italiano “Il cerchio da chiudere“) e da Murray Bookchin, “Our synthetic environment“ (non tradotto in italiano ma disponibile in Internet: http://dwardmac.pitzer.edu/Anarchist_Archives/bookchin/syntheticenviron/osetoc.html).






Caserta - Operazioni di racolta straordinaria di rifiuti ad opera dell'esercito

Sepolti dalla plastica
di Adriano Paolella

La plastica svolge un ruolo fondamentale nell'attuale modello di sviluppo. Incrementa la cultura dello spreco e del consumo frenetico.

La plastica è un materiale economico e duttile, risponde ai requisiti di resistenza, igiene, leggerezza, economicità richiesti da tutti i settori produttivi, può essere quasi tutto, assumere qualunque forma e caratteristica (trasparente e opaca, elastica e anelastica, dura e morbida) ha processi produttivi industrializzati, economici, rapidi e quantitativamente illimitati.
Senza di essa molti oggetti e funzioni oggi indispensabili non sarebbero realizzabili e attuabili, molte attività risulterebbero più faticose e complesse. La plastica sembrerebbe un materiale meraviglioso, e in parte lo è, disposta a fare di tutto per piacerci, ma sotto la sua affascinante immagine si celano aspetti che meriterebbero una maggiore attenzione.
Il problema non è nella sua natura (un materiale di sintesi che si degrada con tempi lunghi lasciando indelebili tracce della sua presenza), né nelle negatività ambientali generate dai processi produttivi e di recupero, riciclo, smaltimento, non nell'essere derivata dal petrolio (per il controllo del quale non poche guerre si stanno combattendo) e nemmeno nei possibili effetti sulla salute degli organismi viventi. Tutti impatti, i menzionati, che con una attenta gestione della risorsa potrebbero essere evitati o comunque fortemente ridotti.

Enormi
quantità

Il problema è che la plastica svolge un ruolo fondamentale nel contemporaneo modello di sviluppo proprio supportando quegli sprechi di energia e di risorse non sostenibili né ecologicamente né, tantomeno, eticamente ma che sono propri della società dei consumi.
Essa è prodotta e consumata in enormi quantità perché agevola i consumi inopinati divenendo il principale strumento per l'uso temporaneo, per la frenetica mobilità e la non completa utilizzazione delle merci. I prodotti in plastica appaiono meno impegnativi di altri, più accessibili, economici e quindi più facilmente dismettibili.
In sintesi la plastica sostiene e concretizza lo spreco.
I caratteri della plastica rendono possibile una produzione quantitativamente elevata con costi fortemente limitati, aumentando così la redditività del prodotto, e permettendo una penetrazione capillare negli ambiti propri di altri materiali, sostituendoli e sostanziando una simbiosi tra funzione, forma e uso, tra contenuto e contenitore. Se le bottiglie di acqua minerale fossero di vetro, forse, non ve ne sarebbe un così elevato ed evitabile consumo; le bottiglie di vetro, più pesanti, renderebbero meno conveniente il trasporto dell'acqua e si ridurrebbero le distanze tra sorgenti e consumatori o, come è avvenuto per decenni, le modalità di consumo sarebbero diverse: le bottiglie sarebbero usate più volte, lavate e riutilizzate, l'attenzione al contenitore sarebbe maggiore e tutto ciò renderebbe più complesso l'abbandono delle stesse. Se non ci fosse la plastica, forse, non ci sarebbe l'enorme e sconsiderato uso di acqua minerale. Se non ci fosse la plastica, forse, non ci sarebbe una disciplina comunitaria così pedissequa e poco lungimirante sulla gestione delle confezioni alimentari che, utilizzando strumentalmente le motivazioni igieniche e la garanzia di immutabilità del prodotto, ha fatto impennare il consumo del packaging, riempendo al contempo i paesi comunitari di rifiuti. Se non ci fosse la plastica, forse, avremmo anche un altro tipo di alimentazione non sorretta da produzioni energeticamente voraci e qualitativamente discutibili rese possibili dalle serre.
Ma dove la plastica ha fatto la differenza è nei prodotti monouso. Essa è l'unico materiale che avrebbe potuto permettere l'esponenziale incremento di ogni tipo di oggetti, dalle stoviglie ai rasoi, con un ciclo di uso che può essere anche solo di pochi minuti, consentendo così che divenissero rifiuti dei prodotti che per gran parte conservano dopo l'uso le medesime caratteristiche possedute prima.

Il valore
del materiale

Così la plastica è una parte significativa di quella enorme quantità di materiali debolmente utilizzata la cui permanenza dopo l'uso è significativamente superiore al tempo di utilizzazione ed è il materiale più presente tra i rifiuti e il rifiuto abbandonato più visibile nel mare, sulle spiagge, lungo gli argini di fiumi, nei terreni agricoli e nelle aree urbane.
Certo la responsabilità di tale situazione non è addebitabile al materiale ma ai comportamenti; ma se questi sono determinati dal modello di uso così strettamente connesso al materiale stesso (monouso), si può ipotizzare che limitando l'uso della plastica a casi specifici di dimostrata insostituibilità si ridurrebbero gli inquinamenti, si limiterebbero i rifiuti, si stimolerebbe una attenzione verso un corretto consumo delle merci e un ripensamento del modello di produzione e della mobilità delle merci.
Per usare correttamente la plastica si deve partire dalla considerazione del valore del materiale, di quanto sia importante non sprecarlo, di quanto abbia una specifica identità che lo rende utile per la risoluzione di problemi particolari, di quanto non debba essere lo strumento per incrementare la quantità di merci ma possa contribuire, quando utilizzato nelle maniere e nelle quantità ambientalmente e socialmente motivate, a rispondere a effettive esigenze.
Per fare questo è necessario attivare una profonda riflessione e spezzare la sudditanza nei confronti di un materiale che penetrando tutti i settori produttivi e tutti gli aspetti della quotidianità, sta configurando una società monomateriale con tutti i rischi connessi all'impoverimento tecnico e culturale della stessa.

Adriano Paolella

Il testo integrale si può scaricare gratuitamente dal sito www.freebook.edizioniambiente.it


Terzigno (Na), 24 ottobre 2010 - Una manifestazione contro la crisi dei rifiuti


Napoli, 26 aprile 2011 - Proteste per l'emergenza rifiuti




La condizione dell'isola
di Adriano Paolella

Il mondo è un sistema chiuso, con risorse limitate. La pratica del riuso può scongiurarne l'esaurimento.

La forchetta
e la città di Victor

Alla fine negli ultimi decenni dell'ottocento Victor Horta, architetto belga, ipotizzò che le forme dei manufatti dovessero essere coordinate e che ciò si potesse ottenere attraverso il lavoro di un architetto che disegnasse intorno all'utilizzatore tutto quanto ad esso servisse.
Con lui, negli anni seguenti molti altri applicarono la creatività dal progetto di piccoli oggetti fino alle abitazioni e agli insediamenti, “dalla forchetta alla città“, come se fosse possibile ottenere un piacevole risultato da un onnipresente “coordinato“.
Il punto di partenza dell'azione di “Victor et al“ è l'intuizione che la società stesse cambiando più velocemente degli oggetti da essa utilizzati e che quindi fosse necessario progettare questi ultimi con criteri e forme nuovi.

L'inganno
della strega cattiva

Oggi non è una questione formale come fu per Victor e per molti di coloro che lo hanno seguito nel tempo.
Le merci proposte sono belle, spesso bellissime e non si può dire che non rispondano alle nostre necessità, anzi sono così astute, le merci, che sono esse a definire le modalità della nostra esistenza piuttosto che servirla.
Il problema è che nonostante siano belle e coerenti con i nostri bisogni, spesso indotti, sono profondamente nocive per il nostro ambiente e per noi che ne siamo parte.

La bellezza
del rifiuto

Il punto di partenza della riflessione potrebbe essere la constatazione che, proprio per l'enorme quantità di merci e manufatti esistenti non ne siano necessari altri, o, in una visione più morbida, che le nuovi merci dovrebbero considerare quante altre già siano presenti nel pianeta.
Le case sono tanto piene di oggetti che non è materialmente possibile farne di tutti un uso continuativo. Anche gli strumenti più utili ed usati sono in eccesso: quanti coltelli abbiamo in cucina e quanti di essi utilizziamo raramente e tra questi quanti non abbiamo mai utilizzato? Quante apparecchiature elettriche ed elettroniche sono state sottoutilizzate e poi dismesse: il televisore catodico cambiato anche se ottimo e funzionante a favore di uno schermo piatto e quanti cellulari sostituiti da smartphone? E quanti oggetti sono stati acquisiti e poi molto raramente utilizzati? Dalle attrezzature per sport, ai portachiave, ai capi di abbigliamento e ai mobili in un continuo entusiasmante un po' allucinato acquisire sono passati dalle nostre mani come lampi e poi rapidamente allontanati.
Oggetti splendidi di cui non riusciamo a capirne esattamente il valore: una scatoletta in lamiera per contenere 30 caramelline: perfetta, meravigliosa al tatto, colorata, resistente che dopo poche ore viene buttata. Così le bellissime penne non ricaricabili, capolavori di tecnologia, che nel giro di qualche settimana sono consumate o peggio perse, dimenticate, abbandonate.
E così per tutto.
Nessun piacere dal conservare gli oggetti, anzi essi perdono valore con il trascorrere del tempo, anche se sono efficienti, anche se ancora potrebbero servire.
Così facendo la società dei consumi, sorretta da norme e regolamenti che obbligando i più restii li accomunano a coloro i quali sono già, affascinati, in balia dalle merci, non consuma e non permette di consumare ma butta oggetti e materiali nuovi, servibili, utili, non consumati; meraviglie, cose utili, manufatti di valore inestimabile.

Buttotutto

L'abuso di merci conduce allo spreco delle stesse.
L'organizzazione produttiva e distributiva non si pone il problema del recupero dei surplus preferendo che divengano rifiuti piuttosto che accollarsi gli oneri del loro recupero e trasformazione. E quando qualcuno tende a usare l'eccedenza (facendola permanere nell'ambito delle merci utilizzabili) deve, tra le tante difficoltà, individuare ambiti distribuitivi non concorrenziali con il mercato. Una cospicua normativa sostiene il monouso, gli imballaggi scriteriati, le scadenze, i prodotti difficili da riparare o riusare (si vedano i piccoli elettrodomestici) e di fatto si oppone al riuso.
Questo non è il mondo dei ricchi (che possono sbarazzarsi dei loro soldi con modalità simili applicate però ad oggetti di lusso) questo è il mondo degli impiegati, degli artigiani, degli operai, degli insegnanti, degli agricoltori, dei professionisti che ciascuno nella misura consentita dal proprio reddito è “strizzato“ dall'abuso di merci in maniera eccedente a quanto gli sarebbe consentito dalle proprie risorse economiche.
Gli unici che sono fuori da questo meccanismo sono i poveri che non avendo alcuna possibilità economica non sono un “target“ del mercato. Sono loro che recuperano i materiali d'avanzo sono loro a cui vengono destinati parte dei rifiuti. Poveri, lontani dai mercati forti o marginali nelle società opulente.

Polli
e frigoriferi

Queste modalità applicate in passato solo in alcuni paesi per specifici prodotti (si pensi al pollo a basso prezzo negli Stati Uniti post “grande crisi“) ora riguarda tutti i settori produttivi e la quasi interezza del Pianeta.
Così i criteri dell'usa e getta, della “obsolescenza programmata“ che prima attenevano un numero di merci ridotte e di limitate dimensioni oggi sono in uso per un ampio spettro di manufatti, con effetti, come facilmente immaginabile, disastrosi.
Una lavatrice comprata negli anni cinquanta o sessanta poteva durare venticinque trenta anni, oggi a parte qualche azienda di nicchia, la vita media è programmata per un numero di anni molto più ridotto; si pensi alle auto ed a come con i successivi livelli di miglioramento delle emissioni (euro 1, 2, 3, 4, 5, 6, etc.) i produttori sono riusciti a fare cambiare intere generazioni di auto praticamente nuove.
Le logiche che le sostengono sono la sicurezza (da quella alimentare a quella strutturale) il continuo aumento dell'efficienza energetica (deming cycle e successive elaborazioni), il miglioramento prestazionale (in realtà spesso l'accumulo prestazionale), la connessione con altri sistemi (in un orgia di relazioni spesso insignificanti).
Tutte le merci sono oggetto di questi criteri e la nuova frontiera sono gli edifici.

Nuovo nuovissimo,
riusato

A ben guardare il progetto del “mondo nuovo“ desiderato, perseguito, progettato dai moderni e dai contemporanei potrebbe proprio essere il riuso del “mondo esistente“.
La cultura del nuovo e della novità è promossa da una economia malamente industrializzata che per stare in forma ha necessità di produrre sempre di più a costi sempre minori. La prima condizione è quella che ci sommerge di merci (perché dobbiamo acquisire per mantenere il modello produttivo), la seconda quella che mantiene le povertà (perché i prezzi delle risorse e della manodopera per garantire un costo di produzione basso debbono essere fortemente contenuti) e tutte e due sono condizioni nocive per il pianeta (perché si preleva e si emette molto più di quanto serva e in modo molto peggiore di quanto si potrebbe).
La terribile condizione di spreco imposta da regole settoriali (quale quelle del mercato), discutibili (il modello adottato non sembra abbia portato un benessere diffuso agli abitanti del pianeta né, tantomeno, al loro ambiente), miopi (non riescono a modificarsi nonostante gli evidenti limiti) è anche quella che genera i cambiamenti climatici.
È infatti l'ambito dello spreco è, tra quelli dove si generano le emissioni, quello che più facilmente potrebbe essere evitato.
Se infatti è lodabile l'attenzione posta alla produzione di energie da fonti rinnovabili essa potrebbe essere molto più efficace se l'energia, seppure rinnovabile, non fosse utilizzata per costruire merci e manufatti che già in partenza è noto saranno sprecati.
Lo spreco è parte integrante e funzionale del modello economico dei consumi nonostante ciò è anche molto chiaro come la prima azione da compiere sia quella di eliminare gli sprechi.

L'eticità di
reduce, reuse, recycle

I termini reduce, reuse, recycle hanno origine fuori dal contesto industriale, non ne rispettano completamente le logiche, hanno il fine di ridurre gli effetti negativi connessi agli sprechi e ai consumi indotti proprio della produzione quantitativa.
Le tre azioni, che afferendo al medesimo comportamento risultano quasi inscindibili, sono collegate da una consequenzialità temporale (riduzione delle quantità, uso e riuso, e riciclo di quanto non è stato possibile non produrre ed è stato usato e riusato fin quanto possibile) e necessitano, come intuibile, di un diverso impegno energetico.
Praticare queste azioni è una dimostrazione di consapevolezza da parte del progettista che applica la sua creatività, al di là dell'atto autoreferenziato, alla riduzione del “peso“ della trasformazione (se fosse solo un atto creativo saremmo nel campo della produzione artistica ad esempio “ready made“); è un atto etico in quanto finalizzato alla riduzione degli sprechi e dei consumi contribuendo così al benessere comune; facilita il mantenimento della memoria fisica quanto la distruzione né è irrimediabile perdita; conferisce ai manufatti esistenti (adattandoli e trasformandoli) ulteriore valore funzionale, compositivo, sociale, ambientale; riduce la differenza tra vecchio e nuovo in una continuità che pone l'attenzione principalmente sul presente, i suoi limiti, le sue necessità, i suoi desideri.
Recupero, riuso, riciclo sono alternative al modello economico vigente in quanto producono meno profitto individuale ma più vantaggi economici energetici e sociali diffusi. Essi hanno la capacità culturale di affrancarci da un opprimente sistema; il potere dell'economia dei consumi si allenta e gli interessi e i beni comuni prendono il sopravvento.
Nel film “Cast away“ l'attore Tom Hank interpreta un personaggio che si trova su di un'isola deserta dopo essere miracolosamente sopravvissuto ad un incidente aereo; solo, senza nessuno strumento, con scarse capacità tecniche.
Nei primi giorni di permanenza il mare restituisce alcune scatole trasportate dall'aereo. Aprendole trova oggetti che nulla hanno a che vedere con le sue condizioni e necessità: un paio di pattini da ghiaccio, cassette vhs, un vestito femminile.
Dopo un primo momento guarda questi oggetti, apparentemente inutili, con un altro occhio e da essi ricava cinghie, lame, asce, corde tutti strumenti che serviranno molto alla sua esistenza; e impara ad usarli.
Questa è la condizione del sistema a risorse limitate dove si opera sull'esistente, sul disponibile. È la condizione dell'isola.
Scoprire il valore degli oggetti, valutarli non solo per la funzione determinata dalla produzione, meravigliarsi della loro esistenza, sorprendersi per le loro potenzialità. Un pezzo di plastica, una bottiglia di vetro, una scatola di cartone hanno un valore assoluto al di là della loro utilizzazione; solo assaporando tale valore, solo recuperando lo spazio mentale, creativo, consapevole, si potranno diradare le nebbie dell'obnubilamento prodotte dal mercato.
Con uno sguardo più attento si può riparare, riusare, riciclare attraverso una tecnica diffusa che concretizzi la creatività; ed è tutta una tecnica da definire e sperimentare. In un mondo in cui i rifiuti superano di gran lunga le merci, e le abitazioni, gli uffici, i luoghi di produzione sono riempiti di prodotti sotto e inutilizzati e il territorio è pieno di edifici abbandonati, l'attenzione di tutti non può esimersi dal riusare quanto esiste.

Adriano Paolella








La bellezza dello scarto
di Zelinda Carloni e Adriano Paolella

A differenza dei beni standardizzati, gli oggetti prodotti con materiali scartati possono essere più approssimativi e meno precisi, ma acquisiscono nuova bellezza.

Il San Girolamo di Leonardo da Vinci molti anni dopo essere stato utilizzato come anta di un armadietto, fu ritrovato a fare da piano ad uno sgabello di un ciabattino.
In quel momento il valore del dipinto era nullo mentre aveva un valore l'uso della tavola di legno per una funzione precisa.
Del dipinto era restata l'effige della cultura che l'aveva prodotto, mentre quella stessa cultura si era dissolta.
Così nel momento in cui i monumenti della Roma imperiale non avevano più una funzione riconosciuta essi venivano usati per parti (la statua di Pasquino porta ancora i segni di quando costituiva pavimentazione stradale) o ridotti a calcina (le fornaci erano spesso predisposte all'interno degli edifici in smantellamento, vedi Colosseo, vere e proprie cave di materiale).
Ma anche quando se ne conserva l'unitarietà della forma se ne trasforma integralmente la struttura, mantenendone le parti quando esse hanno una funzione ancora utilizzabile.
Il riuso quindi nel tempo veniva attuato in un ambito di necessità dove la disponibilità dei materiali superava il valore del progetto di cui erano parte, dove non si riconosceva valore storico-culturale ai manufatti, e quindi non se ne conservava l'identità, ma li si osservava con lo sguardo attento per capire cosa se ne poteva cavare.
Oggi si può operare con uno sguardo diverso che riconosca il valore culturale del manufatto e quindi, quando opportuno, intervenga per la conservazione della sua identità garantendone al contempo il riuso.

Né codificato
né codificabile

Il risultato formale del riuso non è codificato né codificabile. Scaturisce da una attività eclettica fortemente condizionata dal caso, dal capriccio, dalla necessità. L'esito si sottrae ad ogni forma di maniera, non ha un linguaggio definito, è troppo dipendente da condizioni casuali e imprevedibili.
È difficile in questo caso parlare di una estetica specifica, cosa che necessariamente porterebbe ad una forma di codificazione, mentre si riscontra in queste trasformazioni un valore soggettivo più che oggettivo: quello che serve viene riutilizzato per quell'uso così come al ciabattino serviva uno sgabello e non un quadro. L'assenza di considerazione del valore “culturale e storico“ degli oggetti è determinata, in questi casi, dallo stato di necessità in cui avviene la trasformazione: necessità di un riparo, scarsezza di risorse, povertà materiale.
Ma se il riuso passa da una situazione di necessità ad una di opportunità, se il riuso è sottratto alla necessità e quindi al capriccio che lo caratterizza, se esso stesso si appropria di una dimensione culturale e abbandona l'estemporaneità dell'ignoranza, la centralità del hic et nunc ma diviene percorso progettuale, allora vi può essere una estetica del riuso.
Una estetica che caratterizzerebbe l'azione conservativa e trasformativa degli individui e delle comunità e che sarebbe molto diversa da quella vigente così profondamente fondata sulla scarsa attenzione alle risorse, su un manierismo di genere, auto accreditato, del quale si nutre la contemporanea qualità delle trasformazioni.
La preminenza di un gusto definisce una monocrazia, imponendo una unica percezione estetica e strutturando una sorta di “manierismo“ di fatto.
Ma la maniera, che si basa su di un giudizio uniformato, non possiede le caratteristiche per definire il bello; può comprenderlo ma non esaurirlo, in quanto il bello, per sua natura, si sottrae all'uniformità.
Il bello quindi non può essere affidato ad una maniera né come giudizio né come prodotto.

Il giudizio estetico
è dinamico

I materiali, le tecniche, il metodo progettuale uniformati producono edifici di maniera.
Per ottenere edifici belli è necessario modificare i criteri che ne guidano l'attuale produzione: il recupero, il riuso, il riciclo di oggetti e materiali riduce gli sprechi e i consumi di energia e di risorse, costringe ad una maggiore attenzione nei confronti dei manufatti.
È un atto lento, riflessivo, etico.
Il giudizio estetico è dinamico, cambia nel tempo, tende a modificarsi in quanto giudizio profondamente culturale, e dunque soggetto agli slittamenti della percezione del gusto.
La variabile etica stabilizza il giudizio estetico e gli impedisce di divenire anch'esso soggetto ai criteri del consumo.
Un oggetto prodotto da un materiale scartato è più bello in quanto in esso vi è una maggiore qualità degli elementi che determinano l'atto creativo e una più elevata espressione della capacità tecnica.
È un atto che si misura con il limite, condizione questa inalienabile dell'attività creativa. Si pensi al David di Michelangelo, tratto da un marmo già sbozzato e da anni abbandonato perché di difficile utilizzazione; è l'atto creativo dello scultore che risolve il problema facendo emergere dalla pietra una forma possibile contenuta nelle dimensioni date. Una grande creatività applicata ad un materiale “scartato“.
Il riuso infatti, ponendo limiti, avendo obiettivi ambientali e sociali impone un processo creativo e progettuale applicato e non è più volto alla realizzazione di un idea auto referenziata. Colloca la creatività nella società, la pone fuori dalla gratuità, le conferisce motivazione e valore di esistenza.
I manufatti potranno essere più approssimativi, meno perfetti, più disordinati, meno precisi ma fuori dall'uniformità e dalla maniera si potrà ottenere una nuova bellezza, quella del giusto.

Zelinda Carloni e Adriano Paolella





Dacca (Bangladesh) - In città vengono prodotte ogni giorno 3500 tonnellate di rifiuti



Storie dal mondo
(dei rifiuti)

di Michele Salsi

Da New York al vulcano Tacanà, passando per le coste della Corsica fino a Mumbai. Alcune storie (a lieto fine) di rifiuti.

L'impresa di ridurre drasticamente la produzione di rifiuti è possibile grazie a forza di volontà e a una serie di accorgimenti, da portare avanti nella pratica quotidiana. Buona parte dell'opera si può fare già al supermercato (o evitando il supermercato) scegliendo di non comprare tutti i prodotti che presentano imballagi.
Ma non basta stare attenti a ciò che si compra per riuscire ad emulare gli straordinari risultati di quella che, fino ad ora, è stata probabilmente la più brava: Lauren Singer, ragazza di New york, negli ultimi due anni ha prodotto una quantità di rifiuti pari al volume di un barattolo di marmellata.
Anche io per un periodo ho vissuto senza quasi produrre rifiuti. In Patagonia, dai miei amici Laura e Dario, un indigeno mapuche, il processo di riciclaggio e smaltimento veniva autogestito in totale autonomia. La differenziata iniziava in cucina: organico, inorganico e carta. Tutto quanto era organico finiva nell'orto, nella cassa del compostaggio. La carta tornava utile per accendere il fuoco, eccessi di carta sporca venivano invece gettati sul fuoco e “inceneriti“. L'inorganico veniva intanto separato: latta e bottiglie di plastica venivano accumulati in un contenitore apposito e venivano riutilizzati con riciclo creativo o per la costruzione. Tutto quanto non era riciclabile e non poteva essere utilizzato finiva negli eco-mattoni, ovvero bottiglie di plastica piene di rifiuti pressati a mano con l'aiuto di un bastoncino.
Il lavoro di “produrre“ eco-mattoni era da fare circa una volta alla settimana. Tante volte ho dovuto farlo, molte volte controvoglia. Una volta devo averlo fatto capire a Dario, che mi ha risposto dicendo: “Se non lo facciamo, quella plastica viene bruciata in discarica e genera diossina che fa ammalare i bambini“. Da quel momento non ho più protestato, in fondo non era un lavoro faticoso.

Zaini pieni di spazzatura

Non lascio mai rifiuti in posti dove nessuno li raccoglie. Anzi, varie volte e in diversi posti ho raccolto ciò che altri hanno lasciato. Credo che l'unico rifiuto che io abbia mai lasciato in un ambiente naturale sia un cellulare perso durante un'escursione solitaria sui monti. Fortunatamente era uno dei vecchi e indistruttibili Nokia: c'è la speranza concreta che un giorno qualcuno lo troverà e potrà riutilizzarlo.
Fino ad ora, la montagna più alta su cui sono salito è il vulcano Tacanà (4100 metri s.l.m. circa), sul confine tra Messico e Guatemala. Per gli ultimi mille metri di ascesa non c'erano cartelli nè altre indicazioni per il sentiero e per un momento io e il mio amico francese Remi che mi accompagnava ci siamo trovati un pò in difficolta. Ma “per fortuna“ ogni qualche metro c'era un rifiuto gettato per terra ad indicarci la retta via. Scendendo abbiamo deciso di riempire gli zaini di spazzatura e l'abbiamo accumulata nei pressi di un rifugio sperando che qualcun altro si incaricasse di portarla via di lì.
Ci sono persone che studiano l'impronta degli animali selvaggi; anche io so riconoscerne diverse, ma la più facile è sicuramente quella dell'uomo: se trovi per terra un rifiuto non ci sono dubbi, di lì è passato il più ingrato e superbo tra gli animali.

Un sacco al giorno

Sulle spiagge della Corsica fin da bambino, insieme ad altri amici, e senza che nessun adulto ce lo dicesse, raccoglievo i vari rifiuti lasciati sulla spiaggia o arrivati dal mare (e che comunque nessun adulto raccoglieva). Protesto fermamente contro le proibizioni di fumare in spiaggia, ma più di una volta ho rimproverato compagni che lasciavano mozziconi in spiaggia e ne ho sempre portati via più di quanti possa averne mai lasciati. Da anni in Corsica nei supermercati non ci sono più sacchetti di plastica, ma borsoni in plastica dura con una scritta che recita “Difendi la natura, difendi la Corsica“.
Un ragazzo olandese, Tommy Kleyn, ogni giorno mentre si recava a lavoro in bici passava accanto a un fiume i cui argini erano cosparsi di rifiuti di ogni tipo. Un bel giorno Tommy, tornando da lavoro, ha pensato di fare ciò che nessuno faceva. Si è fermato, è sceso dalla bici e ha riempito di rifiuti un grosso sacco di plastica. Per riempire un sacco ci voleva mezz'ora e poteva raccogliere solo una piccola parte di tutti i rifiuti. Allora decise di riempire un sacco ogni giorno e grazie ai social network ha trovato - insieme ai consensi - anche offerte di aiuto da parte dei suoi concittadini. In poco tempo l'argine è stato quasi totalmente ripulito e Tommy ha avuto la soddisfazione di vedere un cigno nidificare dove prima non c'era altro che un cumulo di rifiuti.

Piccoli gesti per un mondo migliore

Anche da noi in Italia, e anche nelle città, fino a meno di un secolo fa era naturale fare il bagno nei fiumi. Prima ancora era normale berne l'acqua. Oggi quegli stessi fiumi sono guardati generalmente con un po' di pietà e una dose di schifo: nessuno ci metterebbe dentro i piedi. Eppure l'acqua, quasi miracolosamente, continua a sgorgare limpida dalle sorgenti. Se non arriva limpida alle foci la colpa è di noi appartenenti alla specie più evoluta che abita il pianeta Terra...
Comunque, soprattutto in tempo di crisi, ce lo ripetono in continuazione: in fondo siamo fortunati. Cos'è un fiume inquinato? A pagamento possiamo nuotare in bellissime piscine! E poi in altri luoghi del mondo le cose vanno decisamente peggio. Per esempio in India, in un quartiere di Mumbai è separato dal resto della città da un fiume di spazzatura e fango. Ogni giorno tutti gli abitanti dovevano attraversarlo a piedi e le acque nauseabonde trasmettavano malattie e pezzi di vetro e altri materiali tagliavano i piedi di adulti e bambini. Fino a che nel 2013, Eshan Balbale – un ragazzo del quartiere di 17 anni – ha deciso di costruire un ponte, con materiali a basso costo e coinvolgendo altri volontari, senza aspettare un'iniziativa del governo. Un piccolo gesto, che non è la soluzione a tutti i problemi, ma da cui possono scaturire tanti altri piccoli gesti, per costruire oggi un mondo migliore.

Quei rifiuti nel cielo

Il 4 ottobre 1957, con la missione spaziale Sputnik, l'Unione Sovietica inaugurava l'avventura dell'uomo sullo spazio, ma inaugurava anche un nuovo capitolo della storia umana: la spazzatura spaziale; ai tempi c'erano altri problemi più scottanti a cui pensare, ma ormai è giunto il tempo di pensarci. Una parte fluttua nel vuoto dello spazio infinito e una gran parte orbita intorno alla terra, ma una parte è arrivata anche su Venere e su Marte. E sulla nostra bella Luna ci sono venti tonnellate di rifiuti spaziali.
Tra gli oggetti lasciati dall'uomo nello spazio, le cui dimensioni variano da quelle di un tir a quelle di una piccola scaglia, ce ne sono anche di curiosi. Devono ancora essere da qualche parte lassù in alto il guanto perso da un astronauta del Gemini 4, durante la prima passeggiata spaziale, e la macchina fotografica persa dell'astronauta Michael Collins durante la missione Gemini 10. Oggi c'è maggior coscienza ecologica e anche la NASA si deve allineare: può continuare a cercare altri pianeti da distruggere oltre al nostro, ma deve cercare anche di inquinare un po' meno.
Gli enti specializzati stanno studiando il modo di ridurre l'enorme quantità di rifiuti che gravita intorno al nostro pianeta. Chissà forse un giorno qualcuno concepirà un piano per trasformare Marte o Venere nella discarica della Terra. Sarebbe davvero bello se con grande maestria l'essere umano riuscisse, grazie alla sua sconfinata intelligenza, a raccogliere tutta l'immondizia che ha lasciato lassù e quindi chiudere subito dopo e per sempre la sua avventura nello spazio. Kubrick ha già fatto “2001: Odissea nello spazio“, Bowie ha gia composto “Life on Mars“ e Carl Sagan ha già scritto “The pale blue dot“. Forse è l'ora di ritenersi soddisfatti, concentrarsi sulla missione di rendere più felice la grande famiglia degli esseri terrestri e buttare definitivamente tutti i progetti di nuove, grandi missioni spaziali nella spazzatura.

Il guerriero della spazzatura

Micheal Reynolds è l'architetto protagonista del film “Garbage Warrior“, il guerriero della spazzatura. Si è meritato questo appellativo per essere stato tra i primi a costruire case utilizzando rifiuti. In particolar modo: copertoni di automobili usati, lattine, bottiglie di plastica, bottiglie di vetro. Le case sono costruite direttamente dall'architetto e dal suo team di manovali, sono belle e super ecologiche, riscaldate dal sole per irradiazione diretta. Nel documentario vengono raccontate anche le vicessitudini giuridiche di Micheal, radiato dall'ordine degli architetti per le sue “eresie“ anti-commerciali, verrà poi re-integrato. Ormai in tante parti del mondo bottiglie di plastica, di vetro, copertoni, sono riconosciuti come buoni materiali da costruzione.

“Il cibo non va buttato“

Tanti poveri dei paesi ricchi si alimentano ogni giorno frugando nell'immondizia, ma ci sono anche sempre più persone che, per necessità o per vocazione anti-consumista, si organizzano per ottenere gratis, da supermercati o negozi alimentari, cibo che altrimenti finirebbe nella spazzatura.
Un ragazzo francese, Baptiste Dubanchet, ha percorso 3mila chilometri in bicicletta, da Parigi a Varsavia, alimentandosi esclusivamente con ciò che trovava nei cestini della spazzatura. Scopo dell'impresa voleva essere portare l'attenzione su quanto cibo viene gettato nei rifiuti ogni giorni. La molla che lo ha spinto a compiere quest'avventura è stato vedere durante suoi viaggi in Colombia e nel Sud-Est Asiatico tante persone che non hanno scelto di essere povere e non hanno di che mangiare.
In Argentina, nella città di Tecuman, è stato inaugurato un frigorifero sociale. Con una scritta che recita “Il cibo non va buttato“, il frigorifero è posto sulla via pubblica e chiunque può aprirlo per prendere o per lasciare avanzi di cibo. L'iniziativa si sta propagando in altre città argentine.

Milioni di automobili

Il problema dei rifiuti è inevitabilmente connesso all'età industriale dell'umanità. Agli albori dell'industria nessuno pensava probabilmente alla quantità di rifiuti che si sarebbero generati nell'anno 2000. Al contrario è risaputo che l'avvento dell'automobile, cavallo di battaglia dell'industrialesimo, veniva visto come la cosa più ecologica del mondo: finalmente sarebbe stato spazzato via dalle città il problema degli escrementi dei cavalli, motori animali delle carozze.
La logica del consumo, dell'usa e getta, sta alla base dello sviluppo industriale e del capitalismo. E questo ormai lo sanno tutti. Non tutti sono consapevoli che le merci hanno un'obsolescenza programmata all'origine e molti meno sanno che l'ultima tendenza è – in un certo senso – lavorare per produrre dei rifiuti. Sono lontani i tempi in cui le famiglie potevano comprare ogni anno una nuova automobile, e oggi tutte le grandi compagnie automobilistiche possiedono, cosparsi per il mondo, enormi parcheggi dove vengono lasciate tutte le automobili non vendute. Si tratta di milioni di automobili che, anziché diventare la nuova felicità temporanea di un automobilista, resteranno là parcheggiate fino a un giorno in cui verranno distrutte per riciclarne alcune parti.
Non si possono certamente regalare! Dopo le tante persone sacrificatesi vendendo per anni la propria manodopera per poter pagare le rate dell'automobile con cui vanno a lavorare. E produrne di meno? Vorrebbe dire abbassare la produzione, scomparire dal mercato, licenziare migliaia di operai: sarebbe una vera tragedia.
In Inghilterra, la Nissan (adattandosi ai tempi) ha convertito un suo autodromo per test su strada in parcheggio di auto non vendute e vicino a San Pietroburgo una pista di atterraggio dell'aeroporto è stata riempita di automobili importate dal resto d'Europa e mai vendute. Ma sono molti di più i parcheggi di auto a chilometri zero e sono tutti comodamente visitabili con Google Maps.
Quello delle automobili non è certo un caso isolato: basta pensare da quanti anni ogni giorno giornali e riviste vengono mandati al macero senza esser state lette da nessuno.

L'inceneritore di Vercelli

Quindi come si risolve il problema dei rifiuti? Il sistema ha la risposta pronta: gli inceneritori, anzi i “termovalorizzatori“, sono la soluzione. Distruggere i rifiuti bruciandoli e trasformandoli in particelle talmente piccole che non si possono vedere (e se possibile neanche monitorare).
Se non fosse per interesse personale e per “militanza ambientalista“ penso che non sarei mai venuto a conoscenza, al pari di milioni di italiani, del rapporto dell'Arpa di Vercelli sull'inceneritore locale. Lo studio epidemiologico, incaricato dalla procura, è stato svolto stranamente bene (nel senso che di solito non è così), e da scienziati che non sono affatto contrari agli inceneritori (semmai contrari a inceneritori un po' antiquati, come era quello di Vercelli). Poche settimane dopo i maggiori responsabili dell'Arpa di Vercelli, Cadum e Cuttica, sono stati gentilmente sollevati dai loro incarichi, e i dati dello studio sull'inceneritore non hanno certo avuto la risonanza che meritavano. Lo studio andrà rifatto, e rifatto meglio (il che lascia intendere: risultati differenti). D'altra parte c'è lo “Sblocca Italia“ che prevede come “strategia nazionale“ la costruzione di 12 nuovi impianti di incenerimento: non ci si può permettere di sbagliare su queste cose.
Cosa emergeva da quel rapporto? “I risultati della mortalità mostrano rischi significativamente più elevati nella popolazione esposta [...]. Anche per tutti i tumori maligni si evidenziano rischi più alti tra gli esposti rispetto ai non esposti (+60%), in particolare per il tumore del colon-retto (+400%) e del polmone (+180%). Altre cause di mortalità in eccesso riscontrate riguardano la depressione (rischio aumentato dell'80% e più), l'ipertensione (+190%), le malattie ischemiche del cuore (+90%) e le bronco pneumopatie cronico-ostruttive negli uomini (+ 50%)“.

“Lavorare per morire“

Guy Debord nel suo saggio ‘'Il pianeta malato'' suggerisce qualcosa che non era affatto troppo scontato ovvero il legame tra il lavoro-merce e la produzione di inquinamento. “Nella sua forma statale e regolamentata, la “lotta contro l'inquinamento“ è tenuta, in un primo momento a supporre non più di nuove specializzazioni, ministeri, posti di lavoro per i ragazzi e promozioni all'interno della burocrazia. L'efficacia della lotta sarà perfettamente in sintonia con tale approccio. Mai esso porterà ad una reale volontà di cambiamento, fino a che l'attuale sistema di produzione non sarà del tutto trasformato“. La vera ultima funzione, essenziale e riconosciuta, del sistema è di produrre posti di lavoro (lavoro salariato) fino ad arrivare al punto in cui “stupidamente, sono messe a rischio le fondamenta stesse della vita delle specie“.
In Italia, con quello che è stato il caso dei lavoratori dell'Ilva di Taranto, sembra che si sia arrivati a questo punto. Politici, sindacalisti già lo sapevano, ma ora anche i lavoratori se ne sono convinti: il lavoro prima di tutto. Poco importa se si inquina il mondo. E (questa è stata la “grande“ novità) poco importa anche se, in cambio di un salario, si produce inquinamento per il territorio, si produce la propria morte e quella dei propri concittadini. Meglio morire, meglio distruggere che restare senza lavoro. Meglio morire tra un po' che suicidarsi subito.
L'antichissimo “Arbeit match frei“, dopo esser stato iscritto sulla vita di tutti gli abitanti del pianeta, è stato rimpiazzato con la filastrocca per liberi consumatori “lavorare per vivere / vivere per consumare“. Ora questa frase sembra essere diventata fin troppo cortese e umana: è giunto il momento di correggerla con un più realistico “lavorare per morire“.

Michele Salsi




La sfida dei rifiuti in Europa

Quella dei rifiuti si sta delineando come una delle sfide globali del prossimo futuro; i dati relativi ai rifiuti urbani e speciali in Europa (e nel mondo) indicano un aumento costante della loro produzione che non accenna ad arrestarsi e il problema della loro gestione si fa sempre più stringente.

Un po' di numeri
Gli ultimi dati Eurostat disponibili indicano che la produzione totale dei rifiuti nell'Unione Europea si attesta intorno ai 2515 milioni di tonnellate. Il dato è in crescita se paragonato al 2008 e al 2010, anni in cui era stata riscontrata una leggera diminuzione collegata alla crisi economica, e quindi ad una minor produzione generale. La quantità di rifiuti domestici generata dalle famiglie è rimasta invariata tra il 2004 e il 2012, mentre sono diminuiti i rifiuti generati dal settore manifatturiero (-26%), legati appunto alla produzione industriale. Dal 2010 la produzione generale di rifiuti è tornata a crescere; rispetto al 2010, nel 2012 sono stati prodotti 2,2% di rifiuti non pericolosi in più e si è registrato anche un aumento dei rifiuti pericolosi (+3,3%).
Siamo di fronte ad un trend in crescita, che sembra non risentire troppo del perdurare della crisi economica e nemmeno delle politiche europee in ambito ambientale, le quali si prefiggono di ridurre i quantitativi di rifiuti prodotti, promuovere una nuova visione dei rifiuti come risorsa, conseguire alti livelli di riciclaggio e smaltire in modo sicuro i rifiuti che non vengono riutilizzati (come materie prime o per la produzione di energia).

Cosa succede ai rifiuti prodotti nell'UE?
Ogni abitante dell'Unione Europea produce all'anno in media quasi 5 tonnellate di rifiuti. Ad influire maggiormente su questo dato è il settore del packaging (imballaggio per la conservazione e il trasporto delle merci; i materiali utilizzati maggiormente sono plastica e carta). Si stima che, in media, solo nell'anno 2012 siano stati prodotti da ogni singolo abitante dell'Unione Europea 156,8 kg di rifiuti relativi all'imballaggio dei beni consumati.
Il 48,3% dei rifiuti prodotti nei 28 paesi dell'UE viene sottoposto ad operazioni di smaltimento quali collocamento in discarica, trattamento in ambiente terrestre e scarico in ambiente idrico. Il 45,7% è destinato ad operazioni di recupero (riciclo e colmatazione – ossia utilizzo dei rifiuti per finalità collegate al risanamento di scarpate, messa in sicurezza o per interventi paesaggistici). Il 6% è destinato all'incenerimento (il 4,4% con recupero energetico, l'1,6% senza).

Cambiare il modello produttivo
Il problema relativo alla produzione e alla gestione dei rifiuti è strettamente legato al tipo di modello produttivo adottato fino ad ora e definito lineare. Si tratta di un modello energivoro che fa un uso massiccio delle risorse naturali, produce beni con un ciclo di vita breve e con un unico destino possibile: quello di diventare presto rifiuti da smaltire. Questo modello ha da sempre incentivato un approccio usa-e-getta al consumo e alla produzione; la sua insostenibilità è data sia dalla continua immissione di nuove risorse, sia dalla grande produzione finale di rifiuti.
La proposta di modificare il modello produttivo, rendendolo circolare, prevede il ricorso al riuso e all'utilizzo dei rifiuti come materia prima da reimmettere nel ciclo produttivo delle merci, oltre alla produzione di beni duraturi (e non usa-e-getta) e completamente riciclabili.