Rivista Anarchica Online


società

Se si abolisse il diritto penale

di Enrico Torriano


Non è sempre esistito.
Non è un sistema connaturato nell'esistenza dello Stato.
E se solo pensassimo di poterne fare a meno?
Un'ipotesi “provocatoria” sulla quale riflettere.


Siamo abituati a pensare al diritto penale come ad un sistema connaturato nell'esistenza dello Stato. Ma in realtà il diritto penale non è sempre esistito. Era puro strumento di repressione dei nemici interni ed esterni in epoca precristiana, aveva una funzione del tutto marginale nei sistemi giuridici, pure per altri versi molto sviluppati, dei Greci e dei Romani, non ebbe significativo sviluppo nel primo Medio Evo. C'è chi sostiene che sarebbe possibile farne a meno ai nostri tempi. Ma senza si starebbe meglio o peggio?

Origini e ascesa del diritto penale

Secondo Georg Rusche e Otto Kirchheimer, autori del fondamentale volume Pena e struttura sociale, scritto negli anni Trenta, censurato dal regime nazista (i due dovettero riparare negli Stati Uniti) ed infine rivalutato negli anni Sessanta, nel primo Medio Evo il diritto penale non esisteva. Come strumento di difesa della gerarchia sociale, costituivano una sufficiente garanzia la tradizione, un equilibrato sistema di dipendenza sociale e la celebrazione religiosa dell'ordine stabilito, mentre nei rapporti tra soggetti uguali per status sociale e per censo vigevano la faida e la c.d. penance. Quest'ultimo era lo strumento più interessante: se qualcuno commetteva un reato contro la decenza, la moralità o la religione, oppure uccideva o feriva un'altra persona (le violazioni del diritto di proprietà non avevano molto peso in una società agricola), si teneva un raduno solenne di uomini liberi in cui si pronunciava il giudizio e si costringeva il colpevole a pagare una somma che lo esentava dal timore della vendetta da parte della persona offesa. Preservare la pace sociale era in sostanza l'obiettivo primario da perseguire1. Si trattava dunque di una specie di arbitrato privato, all'interno del quale le distinzioni di classe si riflettevano sulla misura della penance. A lungo andare, le frequenti difficoltà economiche del reo comportarono l'affiancamento alla pena pecuniaria di una pena corporale, che poteva anche consistere nella segregazione con privazione o forte limitazione di cibo fino a quando non interveniva il perdono o un'intercessione vescovile, come per esempio prevedeva un editto della città di Sion del 13382.
Secondo i citati autori, il carattere privato di questo rudimentale diritto penale fu gradatamente trasformato in strumento di dominio a seguito del rafforzamento delle autorità centrali che soppiantarono le signorie locali, anche perché gli introiti rappresentati dalle multe e dalle confische si dimostrarono una ricca sorgente di reddito per le casse dei nuovi soggetti di potere.
Le prime necessità che si presentarono a questo nuovo potere centralizzato furono quelle di meglio statuire i comportamenti punibili e di passare da una concezione di pena intesa come retribuzione alla collettività o alla persona danneggiata dal reato a quella di equivalente ad un'offesa a Dio, di cui il potere terreno era legittimo rappresentante. Questo equivalente del danno prodotto dal reato si realizzava nella privazione di quei beni socialmente avvertiti come valori: la vita, l'integrità fisica, il denaro, lo status sociale3.

Il diritto penale e l'offesa al potere

La sussunzione del comportamento trasgressivo ad un'offesa al potere comporta una conseguenza basilare: ora il delitto, oltre la vittima immediata, attacca direttamente il sovrano. L'intervento del sovrano non è più, dunque, un arbitrato fra due avversari, né solo un'azione finalizzata a far rispettare i diritti di ciascuno: è una replica diretta a colui che lo ha offeso. Pertanto, il castigo non può identificarsi e neppure commisurarsi alla riparazione del danno; nella punizione deve sempre aversi almeno una parte che è del principe, e, anche quando si combina con l'aspetto riparatorio, questa parte costituisce l'elemento più importante della liquidazione penale del delitto4. Il diritto penale va trasformandosi da “tecnica della composizione” a “tecnica della coazione”5.
È l'epoca dei grandi supplizi. Il monarca ristabilisce simbolicamente la sua supremazia mediante lo scempio del corpo del trasgressore. Ma arriva anche l'epoca della società mercantile. Se l'illegalismo nella società basata sulla proprietà fondiaria era mal sopportato, nei riguardi della proprietà commerciale e industriale diventa intollerabile: lo sviluppo dei porti e l'apparizione dei grandi depositi dove si accumulano merci, materie prime, utensili e manufatti, difficili da sorvegliare ed esposti ai furti, necessitano di una repressione rigorosa6. La composizione privata di violazioni, ancora applicabile ai tipici illegalismi della borghesia mercantile, che risolveva con transazioni e accomodamenti le frodi, le evasioni fiscali e le operazioni commerciali irregolari, non viene più permessa per i reati come il furto tipici delle classi subalterne; la gran parte dei fatti criminosi consiste in reati contro la proprietà, commessi da non - proprietari, nei cui confronti la pena pecuniaria è insufficiente. Per contro, l'abbondante disponibilità di forza lavoro conferisce alla vita umana uno scarso valore. L'insieme di questi fattori spiega come nel giro di poco tempo i grandi supplizi divennero la pena principale. Praticamente ogni reato era punibile con la morte e la questione essenziale era il modo, più o meno atroce e doloroso, in cui questa avrebbe dovuto essere inflitta7.

Il diritto penale nella società capitalistica

Quando si cominciò a considerare seriamente la possibilità di sfruttare il lavoro dei condannati, i metodi punitivi cominciarono a subire un graduale ma profondo mutamento: dalla fine del XVI secolo nacquero i lavori forzati, la servitù sulle galere, la deportazione nelle colonie, la casa di correzione. Fino a quando queste pene costituirono un vantaggio economico, vennero applicate diffusamente, poi decaddero: al loro fianco, era nata la fabbrica, nella quale però i rapporti tra il capitalista e i proletari erano codificati rigidamente in rapporti giuridici svincolati dall'essere questi ultimi etichettati come criminali: con il consolidarsi della società capitalistica, il diritto penale passava la mano alla coazione insita nel rapporto di lavoro8. Secondo la nota teoria del giurista sovietico Evgenij B. Pasukanis, è in questo momento e con questa chiave di lettura che nasce la pena detentiva tout court: nella società feudale, in cui non si era ancora storicizzata l'idea del lavoro salariato, la pena retributiva non era in grado di trovare nella privazione del tempo l'equivalente del reato; “perchè potesse affiorare l'idea della possibilità di espiare un delitto con un quantum di libertà astrattamente predeterminato, era necessario che tutte le forme della ricchezza venissero ridotte alla forma più semplice ed astratta del lavoro umano misurato nel tempo”9.
Così il carcere diventa il luogo in cui “si sta peggio che fuori”, secondo il principio della c.d. “less eligibility”: il livello di esistenza garantito all'interno del carcere dev'essere sempre inferiore a quello minimo del lavoratore occupato esterno, in modo che il lavoro peggio pagato sia comunque preferibile (eligible) alla condizione carceraria, e ciò al duplice scopo di costringere al lavoro e di salvaguardare la deterrenza della pena. Questo spiega come mai in momenti di elevata disoccupazione il regime penitenziario venga inasprito: altrimenti il carcere rischierebbe di perdere il suo potere deterrente10. All'interno del penitenziario operano quelle forze che Foucault sintetizza sotto il termine di “disciplina”: il loro scopo è educare le masse di ex contadini e artigiani attraverso l'apprendimento coattivo delle regole del salario e trasformarli in classe operaia. Ma quando, nella seconda metà del XIX secolo, nei paesi a capitalismo più avanzato questa funzione viene a cessare, quando il controllo sociale e l'egemonia del capitale sul lavoro si esercitano con strumenti diversi dall'internamento, il carcere perde il suo ruolo iniziale di macchina di disciplina e diventa l'erede di ciò che aveva negato: diventa mero strumento di annientamento e di distruzione11. Ma diventa anche, e qui sembra risorgere in un nuovo ruolo, fabbrica essa stessa di crimine e di criminali: la prigione fallisce nel ridurre i crimini, ma riesce assai bene a produrre la delinquenza e il delinquente come soggetto patologizzato, confinato in un ambiente apparentemente marginalizzato ma controllato dal centro12. La “prigionizzazione” del recluso, che è l'opposto stesso della sua riabilitazione, diventa così l'ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento13. Il carcere, attraverso un meccanismo di selezione, recluta la popolazione criminale, che suo tramite viene punita e nei cui confronti viene così ribadito il valore della norma violata e il potere di irrogare la sanzione14.
Dalla metà del XX secolo emergono poi nuove istanze: la parità tra i sessi, la questione giovanile, i rapporti tra gli abitanti della metropoli. Il diritto penale è impotente rispetto a queste tematiche e non riesce a dare risposte. La sua crisi è ormai completa e definitiva, il controllo sociale è ormai “altrove”, eppure proprio in questa sua nudità, in questo suo sopravvivere senza più alcun fondamento trova la forza per essere sempre più richiesto, sempre più riproposto come soluzione per i conflitti sociali.

Le voci critiche

Di fronte agli elevati costi umani, sociali ed economici del diritto penale sono sorte, a partire dagli anni Settanta, voci critiche che propugnavano di ridurre il ricorso ad esso fino alla sua totale abolizione. Storicamente non è una posizione nuova: fin dalla seconda metà dell'Ottocento i pensatori anarchici si erano espressi in questa direzione. Basti pensare a Kropotkin e alla sua conferenza tenuta a Parigi nel 1887 e denominata On ne peut pas améliorer les prisons: “Un'unica risposta è possibile alla domanda: che cosa possiamo fare per perfezionare il sistema penale? Niente. È impossibile perfezionare una prigione. Con l'eccezione di pochi trascurabili cambiamenti, non vi è altro assolutamente da fare che distruggerla”15. Ma gli anarchici, mettendo in discussione l'esistenza stessa dello Stato, ne contestavano la legittimità di punire come coerente corollario, tanto che i due discorsi, il politico e il giuridico, finiscono con l'essere indissolubilmente intrecciati anche, per esempio, in Proudhon e in Malatesta16. La novità è che la posizione abolizionista viene ora assunta da giuristi, criminologi e filosofi che, pur muovendo da concezioni libertarie o comunque antistatualistiche, non ne fanno necessariamente un discorso politico.
I pilastri del pensiero abolizionista, che ha visto tra i suoi precursori gli olandesi Louk Hulsman e Herman Bianchi e i norvegesi Thomas Mathiesen e Nils Christie, sono sostanzialmente quattro:

  1. la pena, specialmente nelle sue manifestazioni più drastiche, è violenza istituzionale;
  2. gli organi che agiscono ai diversi livelli della giustizia penale non rappresentano e tutelano interessi comuni, ma prevalentemente interessi di gruppi minoritari socialmente avvantaggiati;
  3. la giustizia penale è diretta prevalentemente contro i gruppi sociali più deboli, come risulta dalla composizione della popolazione carceraria, nonostante i comportamenti socialmente negativi siano diffusi fra tutti gli strati sociali, compresi quelli dominanti, dai quali spesso provengono violazioni molto gravi (si pensi agli inquinamenti devastanti per l'ambiente);
  4. il sistema punitivo produce più problemi di quanti pretende di risolvere e, reprimendo i conflitti anziché trovarne una soluzione, fa sì che questi si ripresentino o che altri ne sorgano.
Il punto di partenza degli abolizionisti è la critica alla struttura penale così com'è: un apparato burocratico, gestito da organi neutri rispetto alla vittima e al reo, che danno risposte incomprensibili rimanendo sempre estranei al fatto. In particolare, in Hulsman è forte l'accento sull'elevata astrattezza della giustizia penale, poiché essa crea tra varie situazioni diverse sotto il profilo umano un legame del tutto artificioso, costituito dalla competenza formale del sistema di giustizia criminale17, e sulla sua natura essenzialmente burocratica, incapace di interpretare il fatto in senso evolutivo e di instaurare un rapporto umano tra i suoi protagonisti e imbevuta di formalismi astratti ed impersonali: in un certo senso - scrive Hulsman - il sistema penale affronta problemi che non esistono18. Nello stesso senso si muove il discorso di Christie: il crimine viene ad esistere solo in quanto l'atto in questione passa attraverso le procedure, altamente formalizzate, dei giudici, della polizia e delle prigioni, mentre scompare l'interpretazione proposta dai suoi autori19.
L'abolizionismo si presenta dunque come critica negativa e scettica nei confronti del suo sistema di riferimento (il diritto penale), ma di fatto non intenzionata a costruire oggi alternative per il domani20. Mira invece a mettere il risalto il fallimento del diritto penale, tanto netto da non permettere di trovarne una giustificazione materiale (e non ideologica, perché questa è tutta un'altra faccenda). Più che sul suo spessore scientifico, a volta discutibile, è opportuno valutarlo sulla base della forza morale e politica che l'ispira; più che una teoria scientifica, è da considerarsi come un approccio a un problema21.

Il diritto penale e i suoi destinatari

Il diritto penale viene solitamente giustificato dalla necessità delle società organizzate di reprimere e combattere ogni forma di violenza. Ma - nota Alain Brossat - è improprio definire il diritto come ciò che sospende e rifiuta la violenza: ogni sovranità ha alle sue spalle una violenza fondatrice che la stabilisce e stabilisce, di conseguenza, un diritto che conserva il ricordo di questo momento fondatore22. Di fatto, è impossibile isolare la violenza punitiva, intesa come violenza istituzionale, dalla violenza strutturale e dell'ingiustizia dei rapporti di potere e di proprietà senza perdere di vista il contesto in cui queste si muovono23.
Pur con nuovi idoli, il diritto penale, concepito in un clima di teologia scolastica, conserva una certa rappresentazione religiosa del mondo, con un'idea di castigo comportante l'esistenza di un punto assoluto24. La conseguenza è che il suo scopo non è quello di aiutare o curare la gente, ma di farla soffrire; e il dolore è inflitto ad edificazione di persone diverse da quelle condannate, in omaggio a ciò che viene chiamato “prevenzione generale”25.
Il reo è dunque un soggetto esclusivamente da colpire, ad onta dei propositi rieducazionali. Ma anche le vittime dei reati non se la passano meglio. Hulsman nota che la vittima, una volta che l'azione pubblica si è messa in moto, non può più accettare proposte conciliative, proporre incontri con il reo, partecipare alle sanzioni che saranno adottate; ignorerà le conseguenze reali di esse sulla vita di quest'uomo e dei suoi familiari. “Eppure è stata la sua faccenda ad innescare il procedimento penale; e forse non aveva desiderato tutto quel male”26. La vittima è doppiamente perdente: di fronte all'aggressore e di fronte allo Stato, che la esclude da ogni possibilità di partecipare al conflitto di cui è protagonista, gestito invece da professionisti opportunamente designati27. Non trae nessun vantaggio dall'incarcerazione del reo, non ricava risarcimenti né simbolici né materiali se non in casi bagatellari e trascurabili28. Di fatto, la vittima è trascurata dall'attuale sistema penale, che anzi nella realtà processuale la vede più come un impiccio che un protagonista della vicenda.
In questa insensibilità del diritto penale sta il vero bersaglio degli abolizionisti: in questo suo definire comportamenti e situazioni da un punto di vista esterno e burocratico, senza ascoltare gli interessati, senza conoscere quello che si giudica, in questo suo funzionare lontano dalla realtà della gente: in ciò è da considerarsi un sistema totalitario29.

Un linguaggio di specialisti e le sue alternative

La presa in carico del conflitto da parte di specialisti fondamentalmente estranei ad esso (polizia, magistrati, servizi sociali) porta alla cristallizzazione di un linguaggio artificioso e fortemente ideologizzato che incide pesantemente sui rapporti sociali. Eliminare il concetto stesso di reato - sostiene Hulsman - costringerebbe invece a rinnovare il discorso su ciò che viene considerato fenomeno criminale e sulla reazione sociale che esso suscita30. Herman Bianchi suggerisce di definire il reato in termini di torto e di parlare di diritto riparatorio anziché di diritto penale, in modo da definire il reo non come un individuo aprioristicamente malvagio, ma come un debitore il cui dovere è di assumersi l'onere della riparazione31. Ciò potrebbe condurre al passaggio da un diritto etico, totalizzante e monoculturale a un diritto dei beni e delle relazioni32.
Evidentemente, però, non basta cambiare linguaggio. Gli abolizionisti puntano il dito anche sulla pretesa che il diritto penale ha di risolvere i conflitti. Si dà per acquisito che esso protegga dai reati, quando chiunque può constatare che non è affatto così. Ricorrere agli strumenti del diritto civile aiuterebbe invece la vittima, la responsabilizzerebbe senza lasciarla sola: d'altro canto, raramente la vittima vede una differenza tra diritto penale e diritto civile, che per Hulsman è spesso artificiosa: “quando un ipermercato è vittima di un taccheggio, la causa è penale. Ma quando un salariato è vittima di una risoluzione arbitraria del contratto di lavoro, questa sarà sempre una causa civile. Eppure, l'atto dalla conseguenze più gravi non è forse il secondo?”33.
Ciò apre una serie ulteriore di problemi. Se tra il reo e la vittima esiste una grande disparità economica ed organizzativa, si rischia che gli interessi del più debole, se non opportunamente affiancato da un contesto collettivo, soccombano, mentre la riparazione del torto, per essere tale, non dovrebbe tradursi nella prevaricazione di una parte sull'altra. È stato fatto notare che ci sono comunità in cui il potere maschile è preponderante e le donne maltrattate potrebbero non essere adeguatamente tutelate34. Ma non è detto che l'intervento del diritto penale faccia meglio, se la supremazia maschile è riprodotta all'interno delle istituzioni. Del resto, è davvero possibile trovare un punto di incontro e conciliazione tra una ragazzina violentata e il suo stupratore? C'è chi ritiene di sì35. A volte, gruppi devianti creano problemi ad un'intera comunità: è concepibile un diritto ad essere risarcita anche in capo ad essa?36.
Per gli abolizionisti, la stessa idea del dover necessariamente risolvere il conflitto è sbagliata. È più opportuno “gestire” il conflitto, convivere con esso, arrivare ad un coinvolgimento della collettività, che dovrebbe essere partecipe e non mera spettatrice; il conflitto non è necessariamente un fenomeno negativo, può essere qualcosa di utile per progredire37.
Gli abolizionisti ritengono peraltro necessarie riforme sociali profonde affinché il diritto penale possa scomparire: la legalizzazione del gioco d'azzardo, della droga e della prostituzione toglierebbe risorse economiche alla criminalità organizzata, la semplificazione e la trasparenza della pubblica amministrazione eliminerebbero i crimini dei colletti bianchi, un'industrializzazione veramente rispettosa dell'ambiente eviterebbe gli inquinamenti, investimenti sulla sanità e sull'istruzione potrebbero ridurre le differenze sociali, solitamente cause della devianza. Christie dimostra, dati alla mano, come vi sia una netta differenza tra gli incarcerati del Canada (dove c'è un welfare che funziona) e degli Stati Uniti38.
Il discorso sociale si riflette sul tema della risocializzazione del reo. Tanto meno l'autorità è accettata e la società percepita come giusta, tanto meno si potrà definire giusta la pena: punire un giovane che una volta scarcerato tornerà senza prospettive di lavoro in un quartiere povero, emarginato e dominato dagli spacciatori è solo un trattamento stigmatizzante: il successo del trattamento non dipende dalla sanzione, ma in larga misura dal modello di società, ovvero da fattori di tipo extrapenitenziario39.
L'aspetto più criticato del diritto penale è naturalmente la pena detentiva. Le stesse misure alternative al carcere non sono viste molto favorevolmente, in quanto comunque pensate in funzione di esso e potenzialmente in grado di attirare soggetti che altrimenti resterebbero fuori dal sistema criminale40. In pratica, esprimono non meno punizione, ma più fantasia nell'arte di punire diversamente41.
La sostituzione del carcere con un risarcimento di natura civilistica, perfino se necessario concepito come lavoro riparatorio, è indicata come più utile dagli abolizionisti e di riflesso accusata di inefficace deterrenza dai loro detrattori. Una posizione radicale viene invece assunta da Brossat: “La domanda “cosa mettereste al posto della prigione” tende a far adottare al cittadino lo sguardo dell'autorità (...), implica l'abbandono di ogni prospettiva critica (...) ed esorta a un ricondizionamento dello sguardo e dell'intelligenza, il cui effetto è di rendere l'uomo ordinario incapace di gettare un altro sguardo (che non sia quello della polizia o dello Stato) su chi infrange l'ordine, sui reati e sui crimini”42. Da qui la forte critica sociale: “L'ordine delle cose che produce la divisione tra ladri e derubati, “asociali” e poliziotti (...) non lo abbiamo votato. Dunque è un abuso intimarci di prendere posizione su ciò che è funzionale a mantenere quest'ordine e sui mezzi per punire coloro che quest'ordine infrangono”43.

Cosa rimane

La legislazione europea degli ultimi anni è andata in direzione opposta a quanto invocato dagli abolizionisti: il ricorso ad un diritto penale svuotato di scopi ma fortemente ideologizzato ha caratterizzato l'intervento dei singoli stati anche in materie di evidente matrice sociale, come l'immigrazione e la tossicodipendenza. Si può dire in questo senso che gli auspici di questi teorici controcorrente sono caduti nel vuoto.
D'altronde, le teorie abolizionistiche si sono gradatamente concentrate quasi esclusivamente sulla soppressione della pena detentiva e sulla riduzione del numero dei reati. Christie e Mathiesen hanno in particolare segnalato il pericolo che ad una contrazione totale del sistema penale subentri il ricorso a misure punitive introdotte con una nuova etichetta, dirette a svolgere la stessa funzione ma senza le garanzie e le misure di controllo che la legislazione penalistica novecentesca ha apportato44. Usciti dal diritto penale, gli spazi per comprimere le libertà individuali potrebbero ampliarsi anziché ridursi: si pensi al ricorso alla psichiatrizzazione dei dissidenti nell'Unione Sovietica o alle attuali realtà dei CIE per i migranti.
Perché qui sta il paradosso del diritto penale. In esso si esprime compiutamente la violenza punitiva dello Stato, ma, nel contempo, solo al suo interno si sono sviluppati meccanismi di tutela individuale estranei ad altri settori giuridici. Gli stessi elementi di burocratizzazione tipici del diritto penale sono spesso la risultanza dell'introduzione di garanzie come la riserva di legge, la tassatività, il divieto di retroattività, l'obbligo di assistenza legale, o alla rilevanza di istituti ancorati ad un principio di colpevolezza adattato alla personalità del reo (circostanze attenuanti, caratteristiche dell'elemento soggettivo del reato): le eredità storicamente più preziose del diritto penale borghese, che, nel suo riprodurre le disuguaglianze tipiche della società capitalistica, ha comunque fornito gli strumenti per formalizzare il conflitto45.
Chiedersi se l'abolizione del diritto penale debba precedere o seguire la creazione di una società più giusta è domandarsi se è nato, o dovrà nascere, prima l'uovo o la gallina; o se è meglio l'uovo oggi o la gallina domani. Forse tra i due, paiono suggerire le recenti posizioni dell'abolizionismo, ormai privo di alcuni dei suoi padri passati a miglior vita, è meglio scegliere il pulcino: sgonfiare l'insostenibile elefantiasi del diritto penale e combattere la cause sociali della devianza sono due strategie che, procedendo di pari passo, potrebbero condurre a far sì che le persone possano prendere coscienza dei problemi sociali e li gestiscano, all'interno di un contesto collettivo, in nome della propria libertà individuale.

Enrico Torriano

Note

  1. G. Rusche - O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, Il Mulino, Bologna, 1978, pag. 50.
  2. G. Rusche - O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, cit., pag. 51.
  3. D. Melossi - M. Pavarini, Carcere e fabbrica, Il Mulino, Bologna, 1977, pag. 23.
  4. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993, pag. 52.
  5. I. Mereu, La morte come pena, Editori Europei Associati, Milano, 1982, pag. 16.
  6. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pag. 93.
  7. G. Rusche - O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, cit., pag. 67.
  8. E. Gallo - E. Ruggiero, Il carcere immateriale, Sonda, Torino, 1989, pag. 119.
  9. E. B. Pasukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, De Donato, Bari, 1975, pag. 177.
  10. D. Melossi - M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., pag. 81.
  11. M. Pavarini, Appendice a Pena e Struttura sociale, cit., pag. 363.
  12. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pag. 305.
  13. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 2001, pag. 121.
  14. M. Pavarini, La crisi della prevenzione speciale tra istanze garantiste e ideologie neoliberiste, in Studi di teoria della pena e del controllo sociale, Bologna, 1985, pag. 193.
  15. P. Kropotkin - E. Goldman - A. Berkman, Anarchia e prigioni, Ortica, Aprilia, 2014, pag. 18.
  16. Per una disamina, anche critica, del pensiero anarchico sul diritto penale si veda P. Marconi, La libertà selvaggia, Marsilio, Venezia, 1979.
  17. L. Hulsman - J. Bernat de Célis, Pene perdute, Colibrì, Paderno Dugnano, 2001, pag. 17; l'intero testo è consultabile gratuitamente in www.inventati.org/apm/abolizionismo/hulsman/hulsman.pdf.
  18. L. Hulsman - J. Bernat de Célis, Pene perdute, cit., pag. 40.
  19. S. Scheerer, L'abolizionismo nella criminologia contemporanea, in Dei delitti e delle pene, 1982, 3, pag. 528.
  20. N. Christie, Una modica quantità di crimine, Colibrì, Paderno Dugnano, 2012, pag. 33; l'intero testo è consultabile gratuitamente in www.inventati.org/apm/abolizionismo/modica/modica.pdf.
  21. M. Pavarini, Il sistema della giustizia penale tra riduzionismo e abolizionismo, in Dei Delitti e delle pene, 1985, 3, pag. 533.
  22. A. Brossat, Scarcerare la società, Elèuthera, Milano, 2003, pag. 65.
  23. A. Baratta, Principi del diritto penale minimo: per una terapia dei diritti umani come oggetto e limiti della legge penale, in Dei Delitti e delle pene, 1985, 3, pag. 447,
  24. L. Hulsman - J. Bernat de Célis, Pene perdute, cit., pag. 23; M. J. Falcon Y Tella - F. Falcon Y Tella, Fondamento e finalità della sanzione: diritto di punire?, Giuffrè, Milano, 2008, pag. 101.
  25. N. Christie, Abolire le pene?, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1985, pag. 25.
  26. L. Hulsman - J. Bernat de Célis, Pene perdute, cit., pag. 57.
  27. N. Christie, Abolire le pene?, cit., pag. 46.
  28. T. Mathiesen, Perché il carcere?, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996, pag. 197.
  29. L. Hulsman, Abolire il sistema penale?, in Studi della teoria della pena e del controllo sociale, Bologna, 1985, pag. 320.
  30. L. Hulsman - J. Bernat de Célis, Pene perdute, cit., pag. 97.
  31. H. Bianchi, Abolition: Assensus and Sanctuary, in Abolitionism: toward a non repressive approach to crime, Free University Press, Amsterdam, 1986, pag. 117, citato da A. Y. Davis, Aboliamo le prigioni?, minimum fax, Roma, 2009, pag. 124.
  32. S. Cecchi, Giustizia relativa e pena assoluta, liberilibri, Macerata, 2011, pag. 119.
  33. L. Hulsman - J. Bernat de Célis, Pene perdute, cit., pag. 102.
  34. N. Christie, Una modica quantità di crimine, cit., pag. 126.
  35. Una coraggiosa e originale presa di posizione in questo senso è espressa da Fay Money Knopp, Contro lo stupro (ma senza prigioni), in A n. 226, aprile 1996, pagg. 7 e segg.
  36. R. Nozick, Anarchia, Stato e Utopia, Il Saggiatore, Milano, 2008, pag. 86.
  37. N. Christie, Abolire le pene?, cit., pag. 46; L. Hulsman, Abolire il sistema penale?, cit., pag. 310.
  38. N. Christie, Una modica quantità di crimine, cit., pag. 100.
  39. M. J. Falcon Y Tella - F. Falcon Y Tella, Fondamento e finalità della sanzione, cit., pag. 225.
  40. T. Mathiesen, Perché il carcere?, cit., pag. 184.
  41. A. Brossat, Scarcerare la società, cit., pag. 107; nello stesso senso, A. Y. Davis, Aboliamo le prigioni?, cit., pag. 117.
  42. A. Brossat, Scarcerare la società, cit., pag. 121.
  43. A. Brossat, Scarcerare la società, cit., pag. 120.
  44. N. Christie, Una modica quantità di crimine, cit., pag. 159; T. Mathiesen, Perché il carcere?, cit., pag. 193.
  45. M. Pavarini, La crisi della prevenzione speciale, cit., pag. 194.