Rivista Anarchica Online





Harlem


“Non sapevo di essere uno schiavo fino a quando non ho scoperto di non essere libero di fare ciò che volevo”
Fredrick Douglass (circa 1817-1895)

Quarantaquattro parallele a nord di Columbus Circle1 c'è un'altra rotonda, posta a delimitare l'angolo nordoccidentale di Central Park, laddove questo si affaccia su Harlem. L'austero muro di cinta del parco traccia qui un confine, una deadline che molti newyorchesi preferiscono non attraversare. Quasi per caso mi ritrovo a vivere proprio su questo confine e qualcuno non riesce a trattenere un sussulto di meraviglia quando lo racconto, quasi avessi scelto il Far West: Harlem suscita ancora un senso di smarrimento in molti, qui si respira una certa aria da Jungle Fever2.
In questa piazza non c'è il navigatore genovese che, dalla cima di una colonna, osserva l'America che regalò ai reali di Spagna; qui si ricorda un'altra storia: la rotonda e il prospicente boulevard sono dedicati a Fredrick Douglass, un nero d'inizio ottocento, grande chioma, barbetta e sguardo severo; nato schiavo in una piantagione del Maryland, dopo una fuga rocambolesca verso il nord del paese, divenne filosofo e grande oratore, protagonista della causa abolizionista ma anche simpatizzante della lotta per l'emancipazione femminile. Lo stesso Abramo Lincoln fu un suo estimatore e ne subì l'influenza, fatto questo che probabilmente nei testi scolastici non è ricordato.
Qui non passano che pochi turisti e difficilmente si soffermano a dare un'occhiata alla statua in bronzo di questo grande pensatore, la cui storia resta sconosciuta ai più. I turisti preferiscono il lato orientale del parco: la rotonda sul vertice opposto è dedicata a Duke Ellington e lì, sulla Quinta Avenue, inizia il Museum mile, bella passeggiata ornata dalle facciate di importanti musei cittadini. Laggiù il turista, fra il verde del parco e le facciate ottocentesche, avverte un senso di familiarità e sicurezza. Gli unici neri che si vedono in giro sono i portieri e gli inservienti dei palazzi signorili.

New York, Harlem (Stati Uniti)
La statua di Fredrick Douglass

Comunque dei turisti la più umile piazzetta ad ovest non avverte la mancanza, perché è sempre molto frequentata dalla gente del posto, specie alla sera, quando ragazzi con la faccia scura e i denti bianchi sfrecciano, saltano e volano indomiti intorno alla statua di Douglass con i loro skateboards. Anche qui, come a Columbus Circle, le rotelle sono vietate, ma invano. La gente dei palazzi circostanti rumoreggia, lo stridore sul granito infastidisce più dei rumori incessanti del traffico: un mistero tipicamente newyorchese. Ogni tanto qualcuno chiama la polizia, che arriva a disperdere quei ragazzi, ma è inutile, loro sono come l'onda che va e viene sulla battigia: scappano, la polizia se ne va, tornano, il gioco ricomincia. Spesso la sento arrivare con le sirene lamentose, assai più fastidiose del rumore degli skate. Allora mi affaccio, spio, parteggio per quei ragazzi, mi accoro, mi indigno. La mia è una solidarietà silenziosa e inutile, lo so, ma per fortuna le cose vanno sempre abbastanza lisce e qualche bianco, ritrovatosi, come me, a vivere su questo confine, mormora, vorrebbe provvedimenti più severi. Ma forse a Harlem la polizia, sempre presente in forze, ha altro a cui pensare. A quei cittadini indignati per la loro disturbata tranquillità casalinga non resta allora che attendere la prima forte nevicata, quando la piazza resterà inaccessibile agli schettinatori per qualche mese e loro potranno dormire un sonno migliore anche se il traffico, rumoroso e prepotente, continuerà a scaricare i suoi veleni.
La piazza è anche luogo di incontri e appuntamenti, tappa obbligatoria per i cortei che da Harlem vanno verso il centro, usata per sit-in, piccoli comizi e improvvisati eventi sportivi, meta di gite scolastiche organizzate da qualche insegnante volenteroso. Insomma, vive giorno e notte fra storia, politica e gioco, luogo simbolico del mancato incontro fra due città che si guardano senza amarsi e senza grande voglia di conoscersi. Lo sguardo di Fredrick Douglass è rivolto a nord (ma potremmo anche dire che l'ex schiavo rivolge sdegnosamente le terga a sud) e sembra assorto in foschi pensieri, quasi riflettesse su quanto le cose, dai suoi tempi, siano cambiate e quanto, invero, siano rimaste le stesse.

New York, Harlem (Stati Uniti) - Primo
piano della statua di Fredrick Douglass
Vagare senza una meta precisa

Volete fare i turisti a New York, farvi sedurre dalla città che non dorme mai? Sta bene. Non c'è nulla di male a curiosare nelle librerie del Village, passeggiare per Chelsea, scattarsi il selfie sul ponte di Brooklyn, fare shopping al Rockfeller Center, salire in cima all'Empire State Builiding, entrare nel regno incantato di Tiffany, farsi portare a spasso per Central Park dai risciò (tirati dai neri), persino farsi la gita in gondola sul laghetto fin sotto il Bow Bridge, ponte degli innamorati della Grande Mela. Ma, se vi viene voglia di capire anche le contraddizioni di questa città simbolo dell'America e del mondo intero, dovreste andare anche in certe zone di Brooklyn o del Bronx, due quartieri-città che mettono assieme oltre quattro milioni di anime. Oppure, se non ve la sentite di raggiungere il lato più oscuro della grande metropoli, dovreste arrivare perlomeno fin qui, affacciarvi su questo confine, varcarlo.
Se arriverete nella stagione giusta, sbarcando dalla metro sulla centodecima strada, non ignorate la piazzetta. Restate un po' a guardare i ragazzi, spesso davvero bravi nelle loro acrobazie. Può accadere che vi sia riservato lo spettacolo della polizia chiamata a scacciarli, con tutto l'armamentario della repressione professionale e sarà allora una buona occasione per chiedervi, come faccio io ogni volta, cosa mai facciano di male quei ragazzi, per essere trattati come briganti.

New York, Harlem (Stati Uniti)
Die-in anti polizia a Fredrick Douglass Circle.
(Con Die-In si intende una manifestazione in cui i
partecipanti si stendono al suolo simulando la loro morte)

Incamminatevi poi verso nord, lungo il boulevard: basta addentrarsi di qualche centinaio di metri nel quartiere per accorgersi che questa non è la New York a cui vi siete abituati. Vi consiglio di vagare senza una meta precisa, gustare l'atmosfera, specie alla domenica, quando la gente è più rilassata e si ferma volentieri per la strada a chiacchierare e scherzare. Qui può capitare la conversazione occasionale con lo sconosciuto, magari un anziano che si mette a raccontarvi la storia di questo o quel palazzo. Alla domenica arriva l'eco dei gospel cantati nelle chiese che si incontrano ad ogni passo e le bancarelle di frutta, essenze di profumi e mercanzia varia ingombrano alcuni marciapiedi come a Ouagadougou o ad Amman. Agli incroci capita spesso di imbattersi in qualcuno che ti chiede un po' di spiccioli per tirare avanti.
Harlem mostra al visitatore attento la sua orgogliosa diversità. Qui non sono i neri che lavorano per noi bianchi, che ci lavano i pavimenti dell'androne, uomini invisibili a cui possiamo passare accanto al mattino senza neanche accorgerci della loro presenza, senza un cenno di saluto. Qui loro ci vivono. Siamo noi la minoranza. Qui, improvvisamente, siamo in una città diversa da quella appena lasciata, sembra di essere arrivati in Africa e la maggior parte della gente che incrociamo ha la pelle nera. Alcuni parlano lingue sconosciute e sono i nuovi abitanti del quartiere, arrivati da pochi anni dal Mali, dallo Zimbabwe, dall'Uganda o da qualche altro paese africano. La maggior parte sono afro-americani e parlano anche loro una lingua che facciamo fatica a riconoscere, perché i discendenti degli schiavi hanno il “loro” inglese, come nei romanzi di Alice Walker: sono trascorsi quasi 400 anni da quando i loro avi furono trasportati nelle colonie britanniche del Nordamerica, stipati all'inverosimile nelle stive delle navi, e ancora parlano in un altro modo, con un loro peculiare accento. Discutono, scherzano e ridono in un inglese che li rende unici, segno distintivo di una lunga, orgogliosa resistenza, ma anche dimostrazione del feroce, secolare isolamento imposto ben oltre la fine della schiavitù e del segregazionismo.
Oggi il quartiere prova a raccontare frammenti della storia di quelle lotte, con le sue strade intitolate a Malcom X e a Martin Luther King, i musei e i centri studio dedicati alla storia e alla cultura della comunità nera, le statue in bronzo. Se arriverete fino alla centoventiduesima strada vi imbatterete in uno di questi monumenti, la statua che ricorda una donna straordinaria, vissuta a cavallo di ottocento e novecento, di cui probabilmente non avrete mai sentito parlare: Harriet Tubman, un'afroamericana dalla vita tragica e rocambolesca, fuggita dalla schiavitù e divenuta protagonista della causa abolizionista. La Tubman fu donna mistica e pratica, di pensiero e d'azione. Organizzò clamorose fughe dalle piantagioni e condusse persino una vittoriosa azione armata durante la guerra di secessione, liberando centinaia di schiavi. Questi piccoli monumenti servono anche a farci capire che lo scaltro uomo politico Abramo Lincoln gli schiavi non li ha liberati lui, tutto da solo.

New York, Harlem (Stati Uniti)
La polizia fissa al confine del quartiere
Con la bocca massacrata

Se vi spingerete ancora più a nord vi accorgerete che il fascino di Harlem lentamente si affievolisce, fino a scomparire. Vedrete attorno a voi solo palazzi anonimi, negozietti infimi, ferrovie sopraelevate a oscurare il cielo e rifiuti accumulati sui marciapiedi ad attirare i topi. Non c'è più molto da vedere che non sia squallida periferia di una qualsiasi grande città, la New York che avete conosciuta è ora lontana anni luce e potrebbe essere una buona idea riprendere la metro C in direzione sud. O salire su uno di quegli autobus che tagliano il quartiere unendo est e ovest, quartiere latino e africano. Perché la parte orientale di Harlem è ormai, per tutti, il Barrio, popolato da un'America india, arrivata qui direttamente dalla miseria del subcontinente latinoamericano. Un'altra storia di vite separate, quella del Barrio, ma gli autobus sembrano mettere i due mondi in precaria, forse illusoria comunicazione. Mi capita, di tanto in tanto, di salire sul 116, microcosmo popolato di un'umanità indefinita: donne latinoamericane grasse, malvestite e appesantite dal fardello della spesa, anziani neri traballanti sul loro bastone, ragazzi col cappello da baseball e le cuffie, persi in un qualche rap che ricantano ossessivamente fra i denti. Persone che vanno a fare acquisti lontano da casa, dove la spesa costa meno, e poi ingombrano l'autobus della loro povera mercanzia. Gli autisti, quasi fossero assistenti sociali, aiutano i claudicanti, si alzano a far salire e scendere donne incinta e uomini in carrozzella, scambiato una battuta con tutti e non si arrabbiano neanche se qualcuno un po' fuori di testa entra o esce imprecando. È un mondo assai diverso da quello che incontro al centro, andando e tornando dal lavoro, un mondo precario, commovente, che mi ricorda che la realtà non ha nulla a che vedere con l'arroganza ben vestita, i negozi di lusso e le pubblicità onnipresenti che invitano a rifarsi la dentatura, il seno, il culo o le labbra per assicurarsi successo e felicità nella vita. Qui incontro gente con la bocca massacrata che i denti non se li potrà mai rifare.
Mi piace mischiarmi a questa umanità, ma non cado nella trappola del romanticismo, questa attrazione non mi trae in inganno. Capisco che Harlem è, ancora oggi, in qualche modo, un ghetto, pur se non dei peggiori.

New York, Harlem (Stati Uniti)
La statua di Harriet Tubman

Quando scendo dal 116 guardo Fredrick Douglass e mi viene da chiedergli perché bianchi e neri vivano ancora separati, se la segregazione razziale è stata abolita oltre cinquanta anni fa. Perché siamo gli unici bianchi che frequentano il centro medico sulla centodiciottesima strada con la brava e simpatica dottoressa nigeriana? Perché la palestra di Harlem dove si allena mia moglie è frequentata quasi solo da neri e quella sulla cinquantaquattresima strada, dove vado io uscendo dall'ufficio, ha quasi solo clienti bianchi? Fanno parte della stessa catena, sono identiche, ma è come se fossero collocate in due continenti diversi e lontani.
Approfondendo qualche risposta si trova. Secondo un'inchiesta della BBC la segregazione razziale negli USA ha a che vedere, sì, con fattori socioeconomici, ma anche con politiche abitative segregazioniste che, in vigore dagli anni trenta del novecento, sono poi state abolite ma vengono, nei fatti, ancora oggi applicate da banche e costuttori, cioé capitalisti e speculatori che continuano a disegnare e delimitare quartieri separati.
Frequentando lo Shomburg Centre, un centro di ricerca sulla “black culture” situato nel cuore di Harlem, può capitare di incontrare, accanto ai più giovani, anche qualche vecchio attivista, gente che negli anni sessanta ha conosciuto il carcere e la brutalità ma non ha mai perso la speranza. Lottando per i loro diritti hanno acquisito una coscienza particolare e sono quelli che non si sentono davvero americani. Sono uomini e donne che ancora cercano le radici nell'abbraccio della madre Africa. Sono passati 400 anni da quando i loro antenati sono arrivati ma loro ancora vivono come stranieri nella terra dove sono nati. La scrittrice nera Gail Garfield, mia vicina di casa, mi racconta che le scuole di New York sono ancora oggi fra le più segregate degli Stati Uniti, perché bianchi e neri sono tutti americani, ma non vivono davvero assieme. Per chi vive nel melting pot, ma anche per chi ci arriva solo per una breve immersione da turista, c'è molto da riflettere. Le vetrine scintillanti di Tiffany mostrano una realtà opaca di cui c'è poco da rallegrarsi. Così al mattino, uscendo, mi soffermo un attimo, rivolto verso la piazza, ma Fredrick Douglass non si volta mai. Ha lo sguardo rivolto a nord e a me mostra sempre le terga.

Santo Barezini

Note

  1. Vedi “Stato di polizia”, su A n. 405, pagg. 25-28.
  2. È il titolo del film di Spike Lee del 1991 ambientato ad Harlem, in cui si mettono a nudo le questioni razziali e il gretto provincialismo, non del profondo sud ma della stessa New York.