Rivista Anarchica Online


 


New York 1911/
Quelle 126 donne (quasi tutte siciliane) morte tra le fiamme

Il 25 marzo del 1911, un incendio divampato in un palazzo del centro di New York, l'Asch Building, nel piano dove aveva sede la Triangle Waist, provocò la morte di centoventisei operaie che vi lavoravano. La Triangle Waist era una fabbrica tessile che occupava più di 400 donne. L'assenza dei dispositivi di sicurezza era un dato ovvio, in un ambiente di lavoro dove la sfruttamento imperversava sovrano e la ricerca del profitto non permetteva di tenere conto delle ore, del ritmo e delle condizioni di lavoro a cui erano sottoposte le operaie. Delle donne morte tra le fiamme o nel disperato tentativo di salvarsi lanciandosi giù dalle finestre, la nazionalità era alquanto diversa, ma la gran parte di loro era approdata al porto newyorchese di Ellis Island dall'Italia e in particolare dalla Sicilia.
Un libro recente, dell'incendio e delle donne che ne furono innocenti vittime, racconta tutto. Ne è autrice Ester Rizzo che in Camicette bianche (Navarra Editore, Palermo, 2014, pp. 128, € 10,00) ricostruisce i fatti ma soprattutto ridà un'identità a tante delle operaie morte, delle quali erano rimaste parziali o del tutto ignoti le biografie e, di alcune, finanche i nomi dei luoghi natii.
Dell'incendio, domato in mezz'ora, dello sgomento che suscitò in chi vi assistette, vedendo volare dall'ottavo piano le operaie in cerca di un'impossibile salvezza (“Non erano balle preziose di stoffa quelle che i passanti videro volare dall'Asch Building. Erano i corpi della Triangle Waist Company. Cadevano giù a decine, alcune con i vestiti e i capelli in fiamme. Dissero che somigliavano alle comete”), parlarono testimoni e giornalisti per un po': dopo, cominciò a cadere l'oblio sulle vittime e sulle loro vite “spezzate”: “vite che per decine di anni sono state riunite in un unico monumento funebre: un bassorilievo raffigurante una donna inginocchiata con il capo chino”.
Ester Rizzo, di quelle donne, racconta il sogno di una vita nuova, migliore e diversa che inseguivano lasciando le loro umili case e la povertà, attratte dalle foto e dalle immagini del Nuovo Mondo, di un'America luccicante e dorata, terra di lavoro e di prosperità. E ci dice la Rizzo, con minuziosa documentazione, dei porti italiani da dove gli emigranti s'imbarcavano per l'America, delle navi che trasportavano loro e i loro bagagli (riempite di qualche indumento e di un po' di provviste), delle promesse fatte ai cari che lasciavano, delle attese che avevano saputo alimentare in loro, gli “agenti dell'immigrazione”, un piccolo esercito di persone che si occupava di organizzare e indirizzare i viaggi degli emigranti, guadagnando sulla fame e la miseria della gente del popolo.
Le donne che perirono nella tragedia della Triangle Waist furono centoventinove: provenivano da varie parti del mondo, dalla Russia, dall'Ungheria, dalla Romania, dalla Giamaica; tante dall'Italia: trentotto, e di queste ben ventiquattro dalla Sicilia, “la regione che ha pagato il tributo più alto”.
Ampia e ricca di dati biografici è la ricostruzione che la Rizzo fa delle vicende delle donne siciliane, condotta non solo sulle carte d'archivio, sui registri delle anagrafi, americane e italiane, su documenti e saggi di ricerca, ma anche con un personale viaggio per i paesi di mare e di montagna della Sicilia, da dove ha preso inizio la storia di ragazze semplici ma determinate, come Clotilde, Lucia, Rosaria, Concetta e le altre, che lasciavano i loro antichi, arcaici e remoti paesi, come Sperlinga, Cerami, Bisacquino, Marsala, Castelbuono, Cerda, Mazara, etc., cercando, oltreoceano, un avvenire migliore.
Ne viene fuori il quadro storico-sociale della Sicilia di inizio secolo – vessata dal sottosviluppo – e la possibilità di confrontarlo con la realtà odierna, quella di un'isola dalle grandi risorse naturalistiche e monumentali, ma ancora afflitta dalla mancanza di buoni collegamenti viari, dall'assenza di idee di sviluppo che non siano le solite - e fallimentari -, sinora praticate: l'espansione edilizia pubblica e privata e un'aziendalizzazione, in agricoltura e nei servizi, assistita e disorganica.
Preziose, nel complesso, nel libro della Rizzo, sono tutte le informazioni che riguardano le vittime dell'incendio della Triangle Waist, straniere ed italiane. La Rizzo peraltro, citando tutte le fonti documentarie che riguardano l'avvenimento, denuncia i depistaggi del tempo, quando si cercò di occultare la verità, di un incendio causato dalla consapevole inosservanza delle norme di sicurezza da parte dei proprietari della fabbrica di camicie, ma segnala anche la scarsa conoscenza, attuale, di un evento che fu fatale per centinaia di persone (donne in stragrande maggioranza, ma morirono anche diciassette uomini), di cui si recuperano nomi, origini, profili.
Peraltro, l'autrice del libro e l'editore si sono fatti promotori di un appello affinché venga dedicata una via, una piazza, un luogo pubblico, a futura memoria, dalle amministrazioni dei comuni in cui sono nate le donne italiane che realizzavano apprezzate e vendute “camicette bianche” e videro bruciate la loro vita e la loro gioventù in un rogo, prevenibile e quindi evitabile.

Silvestro Livolsi



Donne/
Auspicando la fine del patriarcato

Nella primavera di quest'anno è uscita la quinta edizione del reportage di viaggio dell'argentino Ricardo Coler Il regno delle donne, per quelli delle edizioni nottetempo (Roma, 2015, pp. 192, € 14,00). Occuparmi di questo libro mi offre la possibilità di sviluppare una riflessione che credo utile. Importante non è tanto quello che io andrò a dire ma l'argomento in sé, che spero possa, su queste pagine, trovare in futuro ulteriori sviluppi.
Nella provincia cinese dello Yunnan, territorio assai vasto che arriva fino ai confini col Vietnam, il Laos e la Birmania, sulle sponde del lago Lugu, in una località chiamata Loshui, si è sviluppata la più pura delle società matriarcali, quella dei Mosuo, una delle poche tuttora esistenti, che neanche l'omologazione comunista di Mao Tse-tung riuscì a sradicare.
Il libro in questione documenta la quotidianità di queste genti, l'applicazione nella pratica di tutti i giorni del loro stile di vita. Durante la sua permanenza, ospite nelle case Mosuo, l'autore cerca di superare la riservatezza cinese, si interroga e pone domande, lasciando tuttavia al lettore la possibilità di usare il suo resoconto di viaggio come opportunità per pensieri che ci coinvolgono più da vicino.
Infatti la riflessione che vorrei iniziare riguarda le possibilità di trasformazione del patriarcato come necessità sottesa a qualsiasi sforzo di cambiamento sociale e politico realmente efficace si voglia provare a compiere: la conditio sine qua non.
Guardare come funziona una società matriarcale che, per quanto sperduta sui monti della Cina, sta in piedi e si autogoverna in maniera soddisfacente per la sua popolazione di entrambi i sessi, sta a dimostrare innanzi tutto una cosa molto semplice: il patriarcato non è l'unico modo possibile su cui instaurare gli equilibri nelle relazioni. Senza voler copiare nessuno, ritengo però stimolante guardare alle diversità come mezzo per spostare quelle forme mentali e abitudini che si ritengono intoccabili.
Cercherò di raccontare qualcosa sui Mosuo per poi riprendere il filo del discorso.
Questa popolazione è originaria del Tibet ed emigrò nella zona di Loshui poco prima dell'era cristiana. Base del loro sostentamento economico è il lavoro nei campi, quindi agricoltura e allevamento. Commerciano con i villaggi vicini e con la città di Lijiang, che dista dodici ore di autobus. Dato il clima molto rigido per diversi mesi qualsiasi attività produttiva viene sospesa a causa della neve.
È importante sottolineare che il matriarcato non è un patriarcato al contrario, le donne non sono al comando utilizzando gli stessi sistemi degli uomini e una pratica non da poco come l'uso della violenza tra i Mosuo, ad esempio, è sostanzialmente sconosciuta.
Scrive Coler: “tra i Mosuo nessuna donna ha bisogno di affrancarsi dalla sua condizione, perché sono e sono state libere da sempre. Tutto ciò che accade nella società matriarcale è frutto di una cultura in cui la dimensione femminile si impone senza restrizioni da parte dei maschi”.
Il matriarcato implica la matrilinearità, cioè la trasmissione del cognome, e la matrilocalità cioè il luogo di residenza, il fatto che si vive per sempre dove risiede la madre. Questa particolarità implica sostanzialmente il fatto che le abitazioni d'origine, quando serve, si ampliano ma non si creano mai nuove case a partire da una coppia. Il matrimonio – trave portante di quante culture? – non è previsto e non se ne comprende la necessità. Quando una ragazza entra nell'età adulta avrà la sua camera all'interno della dimora materna e - se un uomo vorrà frequentarla e se verrà accettato - si sposterà nottetempo, con discrezione, rispettando consuetudini consolidate. Non sarà mai una donna ad andare in casa di un uomo.
Riportando le parole dell'autore: “è difficile che una donna Mosuo pensi che il mondo finisca se il suo innamorato la lascia. Certo non le è indifferente, ma non è neppure il centro della sua vita. L'innamorato è qualcuno a cui una donna non affida mai la ragione della propria esistenza. [...] Da queste parti è possibile soltanto essere orfani di madre, per cui ci sarebbe da rimettere in discussione il complesso di Edipo così come è inteso in senso classico, per chiedersi se non sia in realtà un mito da non universalizzare. [...] La società matriarcale ci offre un diverso punto di vista dal quale valutare le possibili conseguenze della perdita di autorità da parte del maschio. [...] In questa comunità, i figli non hanno un padre con cui mettersi in competizione per la madre. La figura maschile più vicina a loro, lo zio, è collocata a un livello gerarchico inferiore e, benché assuma in qualche senso un ruolo paterno, le differenze sono considerevoli.
[...] Il patriarcato non è un tratto essenziale dell'essere umano, e l'esperienza Mosuo sta a indicare che altre possibili forme di strutturazione della società non comportano la sua fine, l'assenza della legge o la disintegrazione di quella che all'interno di tale società è considerata una famiglia. Anzi, nel matriarcato l'istituzione famigliare pare più solida e vitale di quanto non lo sia in Occidente [...] senza bisogno di discorsi morali per sostenerla”.
Senza rendercene conto continuiamo a credere i valori della nostra civiltà come universali e difficilmente spingiamo la riflessione fino a considerare quanto essi siano fondanti nel sostenere l'ineguaglianza e l'ingiustizia che ci circonda. È cosa buona celebrare la giornata contro la violenza sulle donne, ma se non iniziamo a cercare un modo efficace per scardinare la causa da cui quella violenza prende avvio, come per tutte le violenze, credo che non se ne verrà fuori.
A partire dagli anni '70 una parte delle donne si è impegnata per comprendere se stessa e le possibilità di migliorare condizioni di vita, lavoro e relazione, tra donne e con gli uomini. In più di quarant'anni si è formata una cultura “femminista” che ha contribuito non poco nel creare crepe - cioè spazi di apertura e libertà - nel pensiero dominante di stampo maschile patriarcale.
Oggi è arrivato il tempo in cui si può guardare a ritroso e riconoscere il cambiamento - epocale e tragico – che circa ottomila/diecimila anni fa vide il patriarcato sostituirsi con violenza alle precedenti culture e religiosità matriarcali femminili: da lì sono partiti antropocentrismo (centralità/superiorità dell'essere umano nella creazione) e androcentrismo (la centralità/ superiorità del maschio umano).
Mi trovo d'accordo con chi afferma che - soprattutto nell'Occidente cristiano e patriarcale - il nuovo paradigma è proprio il femminismo che invita l'umanità - soprattutto nella sua componente maschile - a riscoprire la propria parzialità nel cosmo. Soltanto questa consapevolezza ci può aiutare nel vivere tutte le differenze con convivialità, incominciando proprio dall'uguaglianza tra i generi.
Se vogliamo concorrere alla possibilità di una realizzazione futura di società egualitarie, basate su quelli che vengono chiamati “valori materni”, cioè a dire: pace attraverso la mediazione, non-violenza nella gestione dei conflitti e nelle relazioni, cura e nutrimento di tutto l'esistente; credo sia arrivato il tempo che i maschi facciano la loro parte.
Osservare le società matriarcali ci mostra come in linea di massima queste siano orientate principalmente verso l'appagamento dei bisogni piuttosto che verso il potere da raggiungere. Quindi più realistiche, poiché consapevoli del valore materno maggiormente idoneo al benessere umano (la storia ce lo ha mostrato ampiamente) di quanto non lo sia il patriarcato, il quale tende a sopprimere il femminile in generale e le donne in particolare.
Mi auguro che anche una piccola cosa come la lettura di un libro, grazie al quale si vengono a conoscere stili di vita diametralmente opposti rispetto al nostro, nei quali la serenità la fa da padrone, possa spingerci tutte e tutti, uomini in prima fila, a iniziare il lungo percorso per invertire la rotta. A onor del vero qualcosa è già iniziato, seppure in sordina, da almeno una decina d'anni. Anche se purtroppo si tratta ancora di un fenomeno marginale abbiamo a che fare con un movimento molto interessante, pieno di potenzialità e speranza che ci auguriamo dilaghi velocemente (per saperne di più vedi http://www.maschileplurale.it/).

Silvia Papi



Libero e non-benpensante/
Un racconto (erotico) di formazione

«Pornografi - o meglio pornologi - non sono coloro che, in nome del sacrosanto diritto all'edonismo, procurano piacere a se stessi e a quanti più altri gli riesce, ma coloro che, nel cesso di un ristorante, non si degnano di alzare la ciambella di legno prima di pisciare, e la lasciano regolarmente costellata di schizzi».
Lelio Luttazzi, nato a Trieste nel 1923 e morto nel 2010, è stato autore di canzoni e colonne sonore, direttore d'orchestra, conduttore radiofonico e televisivo, attore, showman. Il re dello swing italiano ere un uomo eclettico e possedeva molti doni, ma quello della scrittura è senza dubbio meno noto di altri al grande pubblico.
Eppure L'erotismo di Oberdan Baciro (Einaudi, Torino, 2012, pp. 176, € 17,00) è un capolavoro di umorismo senza pari, uno straordinario e tragicomico “romanzo di formazione” che riesce a spiazzare, avvincere e catturare dall'inizio all'epilogo con leggerezza e profondità.
Si tratta di un romanzo postumo e autobiografico, rimasto per più di trent'anni in un cassetto e ritrovato dalla moglie Rossana dopo la scomparsa dell'autore.
La storia del piccolo protagonista ricorda da vicino quella del piccolo Lelio, orfano di padre poco dopo la nascita, figlio unico di una maestra bigotta e innamorata del duce.
Ma racconta anche il suo pensiero di uomo adulto, educato e libertino, autoironico e libertario, insofferente delle proibizioni della morale: “L'eros - scriveva in epigrafe – è l'unica verità universale e inestinguibile che la creazione ha elargito agli esseri viventi. Giacché è tempo di convincersi che, quanto agli altri valori ereditati dalla nostra millenaria civiltà, forse non era vero niente”.
Oberdan è un giovane ma già espertissimo pipparolo, figlio unico di madre vedova, donna pia e tutta d'un pezzo; si chiama così perché la madre «irredentista, patriota, fascista e rompicoglioni» gli ha imposto il nome del triestino Guglielmo Oberdan, patriota e martire risorgimentale. Trasferitasi da Trieste a Prosecco per esercitare il suo incarico di maestra, la vedova Baciro reprime sistematicamente il figlio, che fin dall'infanzia (poco tenera, come molte infanzie dell'epoca) è prepotentemente e dolorosamente attratto dall'altro sesso e dai misteri celati sotto le pudiche gonne e camicette imposte dalla cultura clerico-fascista dell'epoca (siamo nei primi anni trenta).
Malauguratamente circondato a scuola da ragazzette bruttarelle e poco appetibili, “figlie di rozzi vaccaroli sloveni”, Oberdan inizia i suoi percorsi di solitario apprendimento sognando e corteggiando maldestramente piccole bellezze asburgiche, snob e irraggiungibili.
Ideali femminini che sembrano complottare contro di lui, in un continuo tira-e-molla di avvicinamenti e fughe, offerte e negazioni, un carillon di promesse mai mantenute che diventano una comica e tragica persecuzione.
Così Oberdan si sceglie il proprio maestro di vita, un giovanotto di nome Fausto, in libera uscita da un ospedale psichiatrico, che davanti al cancello di casa gli riaccende ogni sera con i suoi trionfali racconti fantasie proibite, contribuendo a formare nella testa del protagonista una sorta di “filosofia erotica” puntualmente trascritta nei suoi “taccuini” e destinata a rappresentare l'ennesima frustrazione: perché se l'amore di coppia per Oberdan è difficile, quello di gruppo è un vero e proprio miraggio.
A nulla varrà per il nostro antieroe trasferirsi a Trieste, scoprirsi brillante musicista, diventare l'ambito animatore delle feste del liceo, conoscere la stupenda Sarah Meyer, mondana, emancipata, figlia di una facoltosa famiglia ebrea: a mettere fine ai suoi sogni, ai suoi struggimenti e alla sua breve esistenza servirà solo - ahilui e ahinoi - la guerra.
Oberdan morirà infatti a causa di un fatale lapsus, in guerra, all'età di 18 anni.
Vergine.
Nel racconto della formazione erotico-onanistica di Oberdan e delle sue disavventure, c'è tutta l'insofferenza di Lelio Luttazzi per le pratiche del fascismo, le pena per quegli innocenti Balilla e quelle innocenti Piccole Italiane costretti a scattare sull'attenti a scuola e fuori, per le belle cartoline rosa di chiamata alle armi; e c'è la sua “sbandata per il jazz” i cui adepti si radunavano per ascoltare i dischi di Ellington e di Armstrong «come carbonari risorgimentali».
Il romanzo di Luttazzi è il ritratto di un'Italia puritana e bigotta (di facciata, s'intende) che si avvicina a piè sospinto ad una delle sue tragedie peggiori. Dalle macerie di quella guerra e dai taccuini del giovane Baciro “morto per la patria” emergeranno verità scomode, negate per decenni ancora e ancora irrisolte, anche oggi, anche nella nostra tormentata modernità.
Una su tutte, tratta dai taccuini di Oberdan, datata giugno 1940, anni 17, solo per mostrare quanto dietro ad erotismo spudoratezza e sbandieramento di peccati mortali si nascondano altri e profondi pensieri luttazziani.
“Non pretendo di aver scoperto io, che tra la cosiddetta follia e la non follia esistono ben labili confini, né di discutere di neurologia, né di addentrarmi in dilettantesche distinzioni tra psicopatici, nevrotici ecc.
Ma sono certo che nei manicomi di tutto il mondo convivono, accanto ai veri sofferenti bisognosi di cure e tra i pazzi pericolosi, chissà quanti “anormali” felicissimi del loro stato e tutt'altro che aggressivi. Fuori, costoro sarebbero semplicemente degli stravaganti, magari degli emarginati, magari degli asociali, ma certo meno mediocri di coloro che se ne sono liberati rinchiudendoli nella fossa dei serpenti. Oltre a tutto le famiglie e la società non lo hanno fatto per salvarli o per difendersene: lo hanno fatto perché li odiavano.
Un odio basato sull'invidia, perché i benpensanti avvertono la superiorità dei non-benpensanti, e i non-liberi temono la libertà dei veri liberi.”
Un romanzo straconsigliato a tutti gli amanti degli atti impuri, delle fiamme eterne e della cattiva morale. In altre parole, della libertà.

Claudia Ceretto



Cinema sociale/
Un posto nel mondo

Orfani del mondo, ripudiati dal loro paese, rifiutati dai nostri paesi. Raccolti in mare, mai accolti. Negletti dalla società, fuori mercato, inutili e dannosi granelli di sabbia in un meccanismo ben oliato e così imperfetto. Oppure tanto utili perché sfruttabili senza ritegno, bambini di pochi anni inclusi. Donne e uomini alla ricerca di un'identità, di un posto nel mondo, di una meta. Assicurare una vita dignitosa al corpo e alla mente, viaggiare alla ricerca del proprio cammino, di un porto per i propri figli. Occhi attoniti e increduli, a volte addirittura divertiti, di fronte alle assurdità grottesche del sistema mondo-mercato che ci siamo costruiti e che ci sta divorando.
Di queste e di altre galassie si è occupata la rassegna cinematografica “Un posto nel mondo. Percorsi di cinema e documentazione sociale” giunta alla sua 14° edizione. “Attraverso un percorso articolato con film invisibili, documentari scomodi, riflessioni urgenti e piccole provocazioni nei confronti di una provincia culturalmente pigra, abbiamo cercato di comunicare la necessità di incontrare e raccontare contraddizioni, conflitti, speranze per conoscere meglio il nostro tempo e i suoi equilibri instabili, dove anche se spesso non li vogliamo vedere, crescono disagi, disuguaglianze, diritti negati, nuovi bisogni.” (Tratto dal sito www.filmstudio90.it). Di questa “provincia pigra”, che non vuole confini, fa parte anche il Canton Ticino. Il dialogo tra l'Associazione cultura popolare di Balerna (www.acpnet.org) e FilmStudio90 di Varese si sta intensificando grazie al progetto “Cittadinanze in visione”. Dopo la rassegna primaverile “Di terra e di cielo” incentrata su temi ambientali (vedi Rassegna libertaria A401), “Buongiorno Taranto”), torniamo a parlare di cinema documentaristico con “Un posto nel mondo” che propone annualmente in autunno un programma ricchissimo: nell'edizione 2015, una quarantina di film e documentari proiettati tra il 5 novembre e l'8 dicembre in diverse sale diffuse nella provincia di Varese e nell'area transfrontaliera.
Le tre serate proposte a Balerna hanno lasciato immagini sconcertanti. Rivivendole e provando a raccontarle mi accorgo quanto sia importante una proposta come questa per scuoterci, rompere il guscio in cui ci rifugiamo e aprire gli occhi su un mondo che non può piacere nemmeno a chi dalle disuguaglianze trae profitto: noi tutti. Un mondo le cui aberrazioni sono vergogna e umiliazione se appena ci prendiamo il coraggio di guardarle in faccia.

Gaza (Palestina) - Cantautore rap (da Striplife, Gaza in a day

La risata di una donna. Partita dal Ghana è giunta in Italia dopo anni di viaggio e mille peripezie. Soccorsa vestita, nutrita, visitata da un medico si sente finalmente accolta, riceve un foglio di carta. Lo interpreta come un documento che attesta il suo statuto di rifugiata, che ne sancisce i diritti. Niente di tutto questo, le viene spiegato, si tratta di un foglio di via, che le impone un dovere, non un diritto: quello di lasciare il paese entro trenta giorni. Ride Gladys, ride di gusto e fa anche una battuta al funzionario: come devo partire, via terra o via mare? In questa risata stanno le nostre assurdità e le sue ragioni. Come nell'interrogativo che si pone Giuseppe Battiston: “Fatemi capire: con l'operazione Mare nostrum, noi soccorriamo i migranti che rischiano la vita semplicemente perché, sempre noi, non li lasciamo entrare attraverso vie più sicure? (Come il peso dell'acqua di Giuseppe Battiston, Stefano Liberti, Marco Paolini, Andrea Segre, Italia 2014)
I canti ritmati dei ragazzi di Gaza City. Come in ogni parte del mondo che noi conosciamo, anche a Gaza ci sono giovani che compongono e cantano pezzi rap, di nascosto da Hamas, che lo vieta in pubblico. O si cimentano in acrobazie spericolate con le loro squadre di Parkour; hanno immense costruzioni semidiroccate a disposizione, da fare invidia ai ragazzi di Milano, di Ginevra o di Lisbona. Nei sottotitoli dei loro canti leggo con stupore parole di resistenza pacifica: “Voi continuate ad uccidere, noi continuiamo a vivere”. Anche quando a distanza ravvicinata si sentono e si vedono i bombardamenti, i rapper riescono a sdrammatizzare: “Lo vedi? Scoppiano le bombe e noi ridiamo. Guarda, il fumo sta formando un cuore nel cielo”. (Striplife, Gaza in a day di Nicola Grignani, Alberto Mussolini, Luca Scaffidi, Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli, Italia/Gaza 2013)
Gli occhi intelligenti di Padma. Siamo a Piduguralla (India), la città della calce. Padma nel 2002 era una ragazzina di dieci anni costretta come tanti suoi vicini e amici ad un lavoro durissimo, quello di spaccare pietre nel sole e nella polvere. Impietosi entrambi. In quell'inferno bianco, le parole e gli occhi neri, troppo seri, duri e determinati per una bambina, rivendicavano il diritto ad una vita dignitosa. A dodici anni di distanza il suo sguardo incrocia di nuovo quello del regista Adriano Zecca, che l'ha cercata e ritrovata. È uno sguardo più dolce, commosso, a tratti allegro: i suoi tre figli non sono più costretti a lavorare come fu per lei, frequentano la scuola, possono costruirsi un futuro diverso, hanno occhi curiosi. (Piduguralla, la città della calce di Adriano Zecca, Svizzera 2014).
I ragazzi di Napoli di N'ata scians (di Adriano Zecca, Italia 2010). Mi si è fermato il cuore. Non soffrono la fame, anche se è verosimile pensare che escano da famiglie disastrate; si trovano in un ambiente non particolarmente malsano per il corpo, quello delle nostre città, rumorose e inquinate, ma ancora vivibili; hanno scooter, telefonini, vivono in compagnia, di espedienti, certo, ma sembrano allegri; non frequentano la scuola, cacciati o fuggiti. Che cosa mi ha intristito, che cosa mi ha turbato tanto da togliermi quel filo di speranza che gli altri documentari che raccontano vite “più dure”, oppresse, negate, sfruttate non hanno spezzato? Sembra che questi ragazzi non abbiano più sogni, che siano definitivamente spogliati della loro dignità. Definitivamente, senza speranza. Vogliono soldi, soldi facili, dicono.
La sensazione è che non sappiano più cosa vogliono, che abbiano perso la capacità di sognare. Violenza e sopraffazione hanno distrutto i loro sogni. Sono l'altra faccia di Piduguralla, la faccia senza riscatto. Il documentario racconta però anche di insegnanti che partecipano ad un progetto di scuola di strada con una tenacia che ammutolisce. Progetto “Chance”, ambizioso e meraviglioso, abbandonato dalle istituzioni nel 2009 per ragioni ignote. Forse è la perseveranza, la speranza (uno di loro è un ex ragazzo di strada di questi stessi quartieri) che non riescono a rispecchiarsi negli occhi vuoti di questi ragazzi a fare male. Pensi allora ai ragazzi che cantano e piroettano tra le macerie di Gaza, che irradiano integrità, voglia di sognare, speranza invincibile. I ragazzi dei quartieri spagnoli di Napoli vagano invece tra le macerie delle loro vite: quando le macerie sono dentro di te, dove lo trovi un posto nel mondo?

PiduguraIla (India) - I bambini della “Città della calce”.
(Altre immagini sono state pubblicate nel reportage
di Raùl Zecca Castel in “A” 399, giugno 2015)

Volevo concludere qui il mio breve resoconto. L'ho riletto, rimproverandomi: volevi scrivere di una rassegna cinematografica e hai finito per metterci la tua rassegnazione. Poi ho scoperto che rimane ...una Chance, n'ata scians. Leggo dal sito www.maestridistrada.it: “Il progetto Chance nato nel 1998 aveva suscitato in centinaia di giovani la speranza di aver incontrato qualcuno che con coerenza li sostenesse. È stato chiuso nel 2009 per ignoti motivi, ma i Maestri di Strada continuano ad alimentare quella speranza. [...] Dal 2009 l'associazione Maestri di Strada si è completamente rinnovata basandosi su risorse private e sul lavoro di giovani che hanno compiuto studi nel campo delle scienze umane e sociali e giovandosi dell'apporto gratuito di cittadini che si rendono responsabili dell'educazione di giovani a rischio dispersione.”
Che sollievo sapere che qualcuno sopperisce, che qualcuno continua a lottare per le cause giuste contro le ingiustizie del mondo. E noi? Non siamo tutti maestri di strada ma ognuno può trovare il suo modo per opporsi, mai rassegnarsi e resistere. Ognuno deve.

Paola Pronini Medici



Combattere l'inferno/
Storia degli psichiatri che sconfissero i manicomi

John Foot, professore di storia contemporanea a Bristol, ha da poco pubblicato per Feltinelli La “Repubblica dei Matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia dal 1961 al 1978 (Milano, 2014, pp. 392, € 22,00).
Nel ricostruire le vicende che portarono alla Legge 180, l'autore ricostruisce le vicende di un gruppo di giovani psichiatri italiani che riuscirono a sbaraccare i manicomi. Foot ci parla lungamente anche dei più stretti collaboratori di Basaglia, in particolare di Giovanni Jervis e Franca Ongaro. Nel volume però trovano spazio nomi spesso dimenticati, come quello di Edelweiss Cotti, che ebbero un ruolo importante nel processo di messa in crisi della psichiatria e che successivamente furono messi in ombra dalla celebrazione solo di alcune esperienze.
Alla fine della seconda guerra mondiale, i manicomi emanavano odore di merda e di morte e assomigliavano ai lager. Combattere questo inferno e modernizzare il paese fu l'assillo di questi tecnici psi.
Foot distingue all'interno della psichiatria critica ed evidenzia delle notevoli differenze con la tradizione inglese, rappresentata soprattutto da Maxwell Jones, Cooper e Laing; ciò lo porta alla riscoperta fra gli italiani di coloro che effettivamente possono considerarsi come rappresentanti dell'antipsichiatria (Cotti, Antonucci). Si trattava di una minoranza, perché il grosso del movimento era composto da intellettuali e medici che l'autore inglese preferisce chiamare globalmente come psichiatri radicali e che avevano come fine principale l'abolizione dell'ospedale psichiatrico e la sua sostituzioni con differenti pratiche. Si trattava, quindi, di una corrente maggioritaria propriamente definibile come anti-istituzionale.
Gran parte del libro di Foot è, così, dedicata alla descrizione delle esperienze di riforma dell'ospedale psichiatrico condotte a Gorizia, Cividale, Perugia, Parma, Reggio Emilia, Arezzo e poi Trieste (si nota la mancanza del Sud d'Italia; ad es. Nocera Superiore con Sergio Piro).
È chiaro che ci si trovava di fronte a due tipi di intervento: da un canto quello dei tecnici rappresentati dai goriziani e dall'altro quello dei politici che soprattutto a Perugia, Parma, Arezzo e poi anche Trieste, giocarono un ruolo centrale nel portare alla chiusura del manicomio.
Nel libro si sottolinea chiaramente che le pratiche dei goriziani furono le stesse del “movimento”. La psichiatria radicale italiana rappresentò, quindi, un caso storicamente rilevante per comprendere i profondi processi di riforma istituzionale che caratterizzarono l'Italia, fino alla fine degli anni Settanta.
L'uso delle “assemblee” significava la radicale messa in discussione delle gerarchie che nelle istituzioni sopravvivevano come eredità del passato regime. Con le assemblee, il direttore, gli infermieri, i pazienti erano tutti posti su un piano orizzontale da cui emergevano i processi decisionali. Le assemblee furono poi il grimaldello che tentava di scardinare le istituzioni del passato anche nella fabbrica, nell'ospedale, nella scuola e nell'università.
Il volume di Foot ha, quindi, il merito di sollevare alcune questioni che oltrepassano la mera storia della psichiatria radicale, assumendo che questa sia stata uno dei territori in cui la riforma delle istituzioni, sollecitata dai movimenti degli anni Sessanta e Settanta, sia stata anche più profonda.
Il quadro che ne esce lascia, tuttavia, aperte alcune questioni. In particolare occorrerebbe chiarire il diverso punto di vista epistemologico che caratterizzò i protagonisti delle vicende. Schematicamente c'era da una parte la psichiatria universitaria, legata a vecchi schemi, dall'altra giovani psichiatri portatori di idee nuove, “supportati” però da una folta “moltitudine”, non disciplinata, di operatori, composta da ex degenti, psicologi, sociologi, assistenti sociali, medici non specialisti, infermieri, politici, artisti e intellettuali. Quale era il ruolo di questa moltitudine? Quali le differenti sensibilità psi?
Il passaggio della Legge 180 del 13 maggio 1978, “impose” inoltre un accordo alle differenti e litigiose anime del movimento anche per sfuggire al referendum radicale che dal punto di vista dei tecnici e dei politici avrebbe potuto creare un indesiderato vuoto legislativo. Il 16 Aprile era stato, per giunta, sequestrato Aldo Moro e il 9 Maggio ne era stato ritrovato il corpo. Si trattò, dunque, di una legge emergenziale che come nota Foot ebbe vita breve. Essa infatti fu abolita per essere quasi totalmente implementata nella Legge di globale riforma del Sistema Sanitario Nazionale (n. 833 del dicembre 1978).
Tale passaggio veloce se da un canto permise una delle poche riforme radicali repubblicane, dall'altro presentava dei limiti. Foot nota che già Basaglia aveva capito che in realtà alcune parti contenute nella legge, come l'istituzione del Trattamento Sanitario Obbligatorio, reintroducevano un potere sul malato e avrebbero potuto essere sicuramente scritte con una sensibilità maggiormente libertaria.
Il libro, dunque, ha il pregio di non essere celebrativo e di ricostruire la storia delle origini del movimento psichiatrico radicale italiano nelle sue complesse conseguenze.

Renato Foschi



Nordest, Occidente e altre allucinazioni/
Prima (e terza?) guerra mondiale

«Come è governato il mondo e come cominciano le guerre? I diplomatici raccontano bugie ai giornalisti e poi credono a ciò che leggono». Avevo scelto questa frase di Karl Kraus - poi lo ritroveremo, con un altro aforisma - per iniziare un ragionamento su Cent'anni a Nordest di Wu Ming 1 (Rizzoli, Milano, 2015, pp. 274, € 17,00) uscito a giugno – sottotitolo «Viaggio tra i fantasmi della guera granda» - e dedicato ad Antonio Caronia. È un reportage narrativo? Un saggio storico ben scritto? Non so a voi, a me non importa imbarattolarlo, lo consiglio senza etichette.
Proprio mentre rileggevo il libro, sul mio computer ha fatto irruzione la seconda strage (bisognerà numerarle?) di Parigi. Dunque mi ritrovo a scrivere di questo libro - importante, anche per la sua capacità di connettersi all'oggi - con un'accresciuta sensazione di catastrofe sulla schiena. Con le bugie dei “diplomatici” che in queste ore dilagano: a coprire certe guerre, altre a gonfiarne e nuove a prepararne. E con il direttore di Repubblica a suggerirci la linea: siamo tutti occidentali, cioè buoni. Io come Salvini e la ministra Pinotti. Sottinteso: gli altri sono non occidentali. L'Isis come Vandana Shiva, suppongo. Com'è semplice il mondo. Ha invece ragione Wu Ming 1 a scrivere: «Dobbiamo fare i conti con questi intrichi di identità, con le nostre memorie selettive, con matasse piene di nodi». Lui parla del Nordest ma questa complessità è quasi ovunque.
«A Nordest il passato si confonde con il presente, tra memorie rimosse ed eredità inconfessate. Così ho deciso di studiare, intervistare, mappare, scrivere». Nordest cioè i luoghi della «guera granda, nelle parlate venete».
Facciamo un giro con Wu Ming 1. Lì c'è il fiume della retorica: «la Piave» ribattezzato maschio perché gli eroi – si sa – non possono essere femmine. Ecco là Gorizia, «tu sei maledetta». I grandi cimiteri nazionalisti e fascisti. Il Carso «che in tedesco si chiama Karst, in sloveno Kras». Ronchi che usa il suffisso «dei Legionari» ma qualcuno vorrebbe ribattezzare «dei partigiani». Caporetto, «o meglio Kobarid». Trento e Trieste, sempre citate insieme pur se lontane e poco somiglianti: «si fa presto a dire Nordest» però quelle tre regioni sono diversissime fra loro. Bolzano «che non era “irredenta” né italiana, ma già che ci siamo prendiamola»...
Il passato ci parla delle infamie di Cadorna, di Andrea Graziani, del Duca d'Aosta; di fucilazioni sommarie a Villesse, Cervicento e via, un lungo e terribile elenco. Ma racconta anche di renitenti e antimilitaristi. Il presente ha buona memoria quando erige il «monumento al disertore di tutte le guerre» (a Rovereto). O quando ripropone storie censurate: a esempio l'attore e regista Alessandro Anderloni o il drammaturgo Massimiliano Speziani. E Cent'anni a Nordest ci riconnette al presente: «Perché diserzione e disobbedienza non sono “acqua passata sotto i ponti” ma domande poste al presente, a chi vuole fare la guerra oggi».
Nel Nordest, dall'intreccio di ricchezza e ignoranza – così cantavano i Pitura Freska – nascono i Pietro Maso. E il leghismo-razzismo, con le spinte secessioniste (in parte vere, in parte altamente alcoliche). Qui adesso c'è anche molto assurdo. La rivendicazione di un Putin dalle origini venete, per dirne una. Se la desinenza “in” è «tipicamente veneta», tagliamo corto: «Vero. Lenin era di Montebelluna, Rasputin di Monselice, Gagarin di San Donà di Piave». Nel Trentino e Alto Adige «c'è un Welfare che altrove te lo sogni» ma allora perché «ci si ammazza più che altrove?». La pianura veneta è «divorata dalla psoriasi del mattone e del cemento». In meno di 40 anni «questa terra è passata dalla miseria [...] a una ricchezza perseguita con pochi freni» scrive Wu Ming 1. «Suolo e sangue. Blot und Boden»: da queste parti, più che altrove, torna a risuonare l'antico, terribile binomio e l'autore commenta - citando Karl Kraus (rieccolo) - «l'unione di sangue e terra provoca il tetano». L'oggi è fortemente connesso al passato. «Non parleremmo di “Nordest” senza la Prima guerra mondiale. Il Nordest è il prodotto di quella guerra che operò una cesura irreversibile. [...] Il Nordest è figlio della guera granda in ogni suo aspetto a cominciare dal paesaggio».
Cent'anni a Nordest si muove anche fra indipendentismi, austronostalgie, «mitologie tossiche» (e perlopiù inventate). Spesso, nelle pieghe del passato inventato, affiora anche qualche complicata verità: a esempio, «con l'annessione all'Italia, Trieste non sembra aver fatto un buon affare». Altra complicazione: «la nostalgia per gli Asburgo può nasconderne una più lercia: quella per le SS». E c'è oggi chi rivendica quei “bei tempi”.
I nodi «vanno sciolti con pazienza, uno a uno». Chissà se «il centenario della Grande guerra, coi suoi 4 anni di ricorrenza» potrebbe far nascere ragionamento collettivo, almeno in una minoranza. In ogni caso la frase finale - «Bentornati, fantasmi della diserzione» – è sempre buona, oggi più di ieri.

Daniele Barbieri



Pablo Echaurren e l'arte contro/
“Make art not Money”

Pablo Echaurren, pittore, grafico, fumettista, creatore di oggetti, ceramiche, saggi sull'arte e autore di romanzi e graphic novels, impegnato da sempre nel sociale, ex-settantasettino e libertario Pablo Echaurren si ritiene soprattutto collezionista di documenti sul Futurismo di cui ha la più importante raccolta al mondo. Voleva fare il bassista o forse l'entomologo, ma gli è toccato di essere artista, tant'è...
Echaurren ha collaborato saltuariamente con l'editoria anarchica ed ha anche recentemente realizzato due manifesti pubblicitari per le Cucine del Popolo di Massenzatico. Questa intervista l'abbiamo realizzata il 20 novembre in occasione della vernice della mostra Pablo Echaurren, contropittura alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna (GNAM) di Roma che resterà aperta sino al 3 aprile 2016.
Bellissimo e completo il catalogo dell'esposizione con due omaggi nella prefazione da parte dei suoi due mentori, un'introduzione di Arturo Schwarz, suo scopritore e primo gallerista e una “lettera a Pablo” di Gianfranco Baruchello, il grande artista anarchico, suo primo maestro. Chiude il catalogo un esauriente saggio biografico della moglie, Claudia Salaris.
In armonia con l'impronta sovversiva dell'arte di Pablo è l'intervistato che inizia col far domande all'intervistatore...

Franco Bunuga

Pablo Echaurren

Pablo Echaurren: Ma Le Cucine del Popolo le fanno ancora lì a Reggio Emilia, si?
Franco Bunuga: Oh, si, a Massenzatico, dove la rivoluzione se verrà “sarà un pranzo di gala”, come recita un recente manifesto di una cena collettiva.
Pablo: Per loro ho realizzato due manifesti. Mi ero fatto tentare dalla promessa di Ferrari che le organizza di retribuirmi con un po' di parmigiano di vacca rosso. Ma poi non me l'ha dato, sto ancora aspettando.

Tu hai pubblicato nel 2013 per le edizioni dell'Arengario di Gussago Il mio '77, una tua riflessione su quegli anni corredata da molte immagini e documenti che ritrovo esposti in questa mostra. In quel testo dicevi: “Rispetto a ogni altra precedente avanguardia (se è vero che fummo “avanguardia di massa” come disse Calvesi) noi non ci siamo posti alcun intento a lunga gittata, non pensavamo certo di produrre “opere” [...] volevamo [...] essere contro, senza “dover essere” schierati con questa o quella frazione di fazione”. Questo concetto mi sembra molto importante, un momento di passaggio fondamentale nel dibattito sulla funzione dell'arte così come si veniva definendo alla fine degli anni '70.
Soprattutto in questo anno particolare che fu il '77. Molte menti erano state costrette ad adeguarsi alle risoluzioni delle organizzazioni politiche e quell'anno invece segnò il momento dell'esplosione in cui tutti decisero di emanciparsi da quella tutela. In quell'anno c'è stata la vera possibilità -è durata una frazione di secondo perché poi il piombo ha messo a tacere tutto- di riacquistare una totale autonomia, non intendo un'autonomia operaia come si proclamava allora ma un'autonomia da tutto e anche addirittura la facoltà di poter creare una deriva creativa. Fino a quel momento la creatività era considerata un accessorio, invece in questo momento tanti ragazzi si mettono a fare giornaletti autoprodotti come il nostro “Oask?!” e tanti altri. Il '77 è stato sì l'anno del piombo ma anche l'unico anno in cui è sembrata realizzabile l'ipotesi di un'arte davvero diffusa che sgombrasse una volta per tutte la voglia di essere “artisti” professionisti.

Ormai si stanno storicizzando quegli anni. Noi quando eravamo dentro al Movimento certamente non avevamo l'esigenza di lasciare tracce, non ci rendevamo conto del momento unico che stavamo vivendo, eravamo contro ogni forma di storicizzazione, non firmavamo neanche articoli disegni o manifesti, non prendevamo posizioni definite, tutto era collettivo, nulla apparteneva a nessuno e tutto era di tutti.
Tutte queste riviste, disegni o documenti che sono esposti in questa sala, tutti o in gran parte mi sono stati restituiti a distanza di tempo. Si lasciavano le proprie produzioni a disposizione di tutti, chi voleva se le prendeva senza pensare a che fine avrebbero fatto, a quanto potessero valere o come sfruttarle.

Pablo Echaurren, Market, acrilico su tela, 160x235 cm

A proposito di oggetti ritrovati o restituiti dal caso, ricordo che sul tuo blog una volta citavi il fatto che qualcuno aveva trovato dei tuoi quadri accanto a un cassonetto, mi sembra a Milano, e ti aveva contattato esprimendo la sua felicità per quel inaspettato dono del caso criticando chi aveva gettato le tue opere senza conoscerne il valore, anche materiale. La tua risposta mi era piaciuta molto, non ti eri irritato affatto, avevi ironizzato in modo giocoso sull'opera e sul suo presunto valore. Make Art not Money, il titolo di una sezione della mostra potrebbe essere anche una delle tue regole di vita.
Penso che l'arte non sia un fine, quindi qualcosa da contemplare, ma sia un mezzo ed anche uno strumento, come un paio di occhiali, tu li inforchi e se ne hai bisogno cerchi di chiarificare la tua vista, non è detto che ci si riesca, una lente può essere sfasata non adatta o fuori fuoco. L'arte non deve essere altro che questo, un modo per dire quello che si pensa della realtà, se si ha qualcosa da dire. E poi se ciò che fai funziona anche per altri, cioè se gli altri guardando le tue opere e ci trovano qualcosa che riconoscono come proprio, allora forse resterà qualcosa. Ma poi forse sai, questo fatto del durare nel tempo è molto aleatorio, la percezione di quello che è stato il percorso dell'arte si capovolge continuamente. Fino ai primi del Novecento ad esempio nessuno si interessava più a Caravaggio, la sua era considerata una pittura fastidiosa.

Ho letto la tua Controstoria dell'arte, la tua è più contropittura o pittura contro come direbbero i settantasettini che amavano il ribaltamento o i due termini si equivalgono?
Io sostengo che la pittura non debba essere qualcosa di statico, né una cosa separata dal resto delle altre espressioni creative, quindi il fumetto, l'illustrazione, la ceramica, la pittura, la scultura o il cinema. Penso che sia tutto un grande blob: io a volte mi firmo Pablob. Cerco di inglobare tutto, cosa che facciamo tutti, nessuno si deve necessariamente – a meno che non sia uno scienziato – specializzare. Anche uno scienziato forse è meglio che non si specializzi, molti problemi derivano da un eccesso di specializzazione. Nel mondo dell'arte si tende molto a dividere e tenere separati i campi, ma la cosa accade non solo nel mondo dell'arte, quando io facevo fumetto in realtà non ero accettato neppure tra i fumettisti.

Questa esposizione testimonia soprattutto la tua produzione pittorica, ti sei espresso in molti campi della pratica artistica, forse meno in opere concettuali o installazioni, anche se hai sperimentato molte tecniche e materiali.
Ho sempre seguito fedelmente la lezione di Marcel Duchamp, che detestava il quadro tradizionale, quello che lui definiva “le ebbrezze all'acquaragia”. Non ho mai vissuto come pittura la mia produzione di “quadratini” che sono all'inizio come delle pagine di un diario di un'enciclopedia individuale, non certo quadri da parete, tanto che sono realizzati con colori che stanno svanendo. Al piano di sopra troverai anche dei quadretti fatti strofinando foglie e fiori di piante unite alle ombre delle stesse piante, quindi cose essenzialmente mentali, quasi non li vedi perché non c'è niente da vedere, ma da percepire... No, io in realtà non sono mai stato pittore, io sono molto superficiale, non conosco tecniche, non le ho mai approfondite: me ne servo come strumento per dire qualcosa. Ma poi alla fine tutta la pittura è concettuale. Chi è più concettuale di Canova o di Raffaello?... Quelli che si autodefiniscono concettuali lo fanno perché hanno bisogno di affermare di avere un qualche concetto in testa, che altrimenti non si percepirebbe neanche. [...]

[...] Tu dici in un'intervista che l'arte oggi è ormai solo appannaggio di una visione monetaristica e che siamo ormai tutti devoti al “Corpus Christie's” e al “Corpus Sotheby's”.
Siamo in un'epoca in cui il denaro prevale su tutto tanto che a questo punto il valore di un'opera è determinato dal prezzo e non il contrario come dovrebbe essere. [...]

Qual è oggi la possibile via di uscita per non diventare come dici in un tuo scritto transatlantico o piccola barchetta o naufrago costretto a galleggiare in questo mare del mercato in cui conta solo il denaro?
Non riesco a vivere in un mondo a compartimenti stagni quindi non riesco a pensare a una tavolata di soli artisti come non posso pensare a una tavolata di entomologi, anche se almeno questi hanno delle cose concrete da dirsi. Gli artisti pensano sempre solo a come fare più soldi, in quale modo migliorare la propria carriera o a trovare strategie vincenti. Il mondo dell'arte se si chiude su se stesso diventa un luogo simile a quei comprensori abitativi statunitensi fatti di case, campi da golf, ristoranti, dove si va da pensionati agiati per passare la vecchiaia in tranquillità e poi morire. Ci sono solo anziani che frequentano anziani. Ma la vita è fatta di varietà, differenze, stimoli provenienti dalle difformità.

Cosa ti piace qualcosa di oggi, qualche artista o movimento?
Al piano di sopra c'è un video che abbiamo realizzato a Roma assieme a Giorgio de Finis che è un antropologo culturale che ha messo su una specie di museo che si chiama MAAM, museo dell'altro e dell'altrove ed è situato in una fabbrica occupata sulla via Prenestina che è diventata luogo collettivo di eventi, dove si radunano persone che a cielo aperto producono ogni genere di attività. Una barriera corallina fatta di sovrapposizione di opere e graffiti.

Franco Bunuga



Mangiare e bere/
Il gusto ribelle per la vita

Reale tragedia dell'uomo
è la demonizzazione del piacere.
Marguerite Yourcenar

Cucina sfrontata, impudente, ribelle alle convenzioni del gusto. Le cuoche ribelli (DeriveApprodi, Roma, 2013, pp. 512, € 20,00), offre un punto di vista interessante sul tema dell'alimentazione, specie in un periodo storico come il nostro, in cui il cibo è merce-spazzatura per servi o vacua e scintillante rappresentazione di status symbol. Una ribellione che affonda le sue radici nella cultura materiale, nella convinzione che non esista libertà che non contempli quella dei sensi. E che – cosa più importante – non esista possibilità di piacere senza libertà.
In netta contrapposizione con la contemporanea tendenza all'innovazione culinaria fine a se stessa che, nella maggior parte dei casi, si risolve in una minimale quanto asettica rappresentazione di sapori, un effimero tentativo di saziare la noia insaziabile di pochi eletti consumatori.
Tre diari anonimi redatti rispettivamente da una prostituta parigina negli anni venti del secolo scorso (La cucina impudica: ricette segrete di una donna di mondo rivelate a chi intenda diventarlo), da una militante anarchica duramente la guerra civile spagnola (La cucina spagnola ai tempi della guerra civile. Ricette e ricordi), da una spartachista tedesca ai tempi della repubblica di Weimar (Storia di una cellula spartachista al Bauhaus di Weimar. Con un ricettario di cucina tedesca).
Negli scritti le tre donne affiancano aneddoti personali, ricordi, incontri e racconti di azioni politiche a ricette, complete di elenchi di ingredienti e metodi di cottura, condimento e guarnizione. Ogni ricetta “con innumerabili allacciamenti, sorprendenti ribalte e pruriginose seduzioni, ti riporta alle tante (grazziaddeo) piccole morti della cognizione della qualità e del gusto, alla cultura ribelle e immoralista”.
Un vero e proprio ricettario del Novecento europeo, declinato nelle specifiche tradizioni nazionali delle tre cuoche, inneggiante al desiderio di vita, alla passione e alla creatività a dispetto delle tragedie, dei totalitarismi, della paura che fanno da cornice ai diari.
Dai piatti ammalianti della parigina, utilizzati alla stregua di vere e proprie armi di seduzione, agli slanci passionali della spagnola, spesso capace di invenzioni sorprendenti a partire da un'estrema povertà di materie prime. Per giungere alle creazioni tipicamente nordiche della “cuoca rossa”, che attraverso i suoi piatti vuole contribuire al germogliare di nuove idee di giustizia sociale.
Frittelle impastate di lacrime prima della partenza per una pericolosa azione di sabotaggio, languide omelette per sedurre un amante ritroso, zuppe calde per curare i feriti, budini per calmare gli animi durante un'assemblea, torte di frutta per lenire la malinconia. Il cibo intriso di vita e di passione, “anarchia cucina e vini come il sangue”.
Ricette peraltro riproducibili piuttosto agevolmente (parola mia), anche grazie alle note del curatore - a sua volta anonimo - che interviene per adattare le ricette e i tempi di cottura adeguandoli alle nuove apparecchiature di cucina.
Non potevano mancare le prefazioni di Luigi Veronelli, enogastronomo anarchico per il quale buon cibo e buon bere – in considerazione delle dinamiche culturali ed economiche che sottendono – sono un modo per contrastare il degrado sociale e la massificazione della sensibilità conseguente alla globalizzazione. “Le cuoche ribelli” può in questo senso rappresentare un buon esercizio, un allenamento alla sensibilità dei sensi che già di per se è atto di ribellione. Scrive Veronelli rivolgendosi idealmente ad Hannah, la “cuoca rossa”: “la vita è fondata sulle passioni che abbiamo vissuto e che viviamo. Più sintetico: so che i gesti con cui i boccioli si schiudono al mattino evidenziano – unica cosa – l'affermazione della vita e della morte”.

Marta Becco



Anarchici italiani/
All'attenzione della polizia

Il nuovo volume di Giorgio Sacchetti Carte di Gabinetto. Gli anarchici italiani nelle fonti di polizia (1921-1991), (La Fiaccola, Noto, 2015, pp. 300, € 20,00) - che, vale sottolinearlo per porre in luce un percorso di studio costante da parte dell'Autore, si colloca in stretta continuità con la prima edizione che si fermava al 1966 - è un testo che, pur non volendo essere una storia (o una delle possibili storie) dell'anarchismo italiano nel '900, si iscrive in una prospettiva di ricostruzione certo tradizionale, come sono le carte di polizia, ancora portatrice di interessanti risultati sia dal punto di vista della ricerca in senso stretto, sia delle prospettive che un simile approccio offre a successivi interventi di studio e di interpretazione. Se infatti è chiaro come la lettura delle fonti istituzionali e di controllo rispetto a un movimento così particolare come quello anarchico, possiede la criticità di fondo di essere parziale e potenzialmente distorsiva della realtà (così come è ben chiaro nell'impostazione del volume), è altrettanto vero che in questa miriade di informazioni, veline e segnalazioni relative al “pericolo” rappresentato dal mondo anarchico e libertario (non sempre ben chiaro agli estensori dei rapporti e delle comunicazioni, e sovradimensionato dagli stessi nei suoi aspetti quantitativi rispetto alla realtà del movimento soprattutto nella seconda parte del '900), Sacchetti riesce – muovendosi con esperienza, ma soprattutto con le accortezze e la sensibilità dello storico – a fornire una serie di spunti e altrettante strade per identificare tracce e mappe dell'anarchismo italiano. Lo spoglio sistematico delle carte d'archivio, il loro posizionamento nel contesto della storia italiana e del movimento, non rappresentano quindi solo un faticoso, affascinante e ben condotto lavoro di ricerca sul campo, ma anche una base importante per individuare chi sono gli anarchici, ma anche dove e attraverso cosa il movimento riesce ad esprimersi. I risultati cui giunge Sacchetti sono quindi non solo positivi per l'arricchimento che offre del quadro generale della storia dell'anarchismo italiano in particolare per il secondo dopoguerra, ma anche molto interessanti sia per le possibilità di ricerca che apre, sia per gli spunti di interpretazione e riflessione che emergono lungo la lettura del suo lavoro, e che ci offre.
Dagli Arditi del Popolo agli anni '90 del XX secolo emergono così non solo i molteplici e continui interessi delle istituzioni nei confronti degli anarchici (“attenzionati” – si direbbe oggi – in modo particolare e con tutti i mezzi a disposizione, con costanza e con estrema dovizia di informazioni alcune molto specifiche e precise, altre del tutto illogiche o infondate), ma anche tutta una serie di spunti che consentono di seguire strade e percorsi, individuali e collettivi al tempo stesso, in grado di raccogliere le diverse generazioni di militanti, talvolta contrapposte nei modi di intendere la teoria e la pratica dell'anarchismo, e le diverse espressioni assunte dal movimento e che lo hanno caratterizzato: dal sindacalismo al problema dell'organizzazione; dal controllo poliziesco agli sforzi di collegamento a livello nazionale e internazionale; dalla lotta contro ogni forma di fascismo all'opposizione al comunismo ed agli imperialismi; dall'antimilitarismo all'obiezione di coscienza; dalla propaganda orale agli sforzi per sostenere la propria stampa.
Il volume inizia dalla sconfitta di fronte al fascismo, segnalando la partecipazione anarchica alle prime forme di Resistenza armata contro la violenza fascista. È questa forse la storia più conosciuta ma che nell'impostazione che ci offre Sacchetti, collocandola nel lungo periodo e nelle fonti istituzionali, permette ancora di essere studiata e approfondita proprio attraverso la continuità degli insediamenti libertari in Italia. La seconda e la terza parte del volume sono dedicate agli anni che vanno dall'immediato secondo dopoguerra alla metà degli anni Sessanta, considerati giustamente uno snodo cruciale nella storia degli anarchici, registrabile in modo puntuale attraverso le carte istituzionali e di polizia, ed al periodo che ci accompagna agli anni Novanta. È in queste due parti che – complessivamente – si esprime appieno il senso dello studio e la sua continuità rispetto alle pagine iniziali del volume. Pagine che descrivono, sotto molti punti di vista, la ricerca di una risposta a cosa abbia effettivamente rappresentato il movimento agli occhi dello Stato negli della ricostruzione e dell'affermarsi della Repubblica dei partiti, negli scenari della guerra fredda ma anche della strategia della tensione e del terrorismo.
Uno fra i molti elementi di interesse del volume è rappresentato dal disegno che offre di una geografia del movimento, considerato lungo un arco di tempo molto lungo, in grado di confermare in modo puntuale la continuità dello stesso nelle aree a più tradizionale diffusione, ma consentendoci - in più - di identificare sia il suo modificarsi (soprattutto dagli anni Cinquanta in poi), sia l'individuazione di nuove zone di penetrazione territoriale o sociale. Ci troviamo così di fronte ad una descrizione dettagliata dell'anarchismo lungo la penisola che – pur nel contesto delle fonti di polizia - offre uno spaccato delle sue tante articolazioni territoriali e dei tanti temi di lotta, che l'autore pone in parallelo con i passaggi più importanti vissuti in quegli anni dal movimento (congressi, convegni, scissioni, nuove sigle, strumentalizzazioni e controlli serrati).
Un secondo aspetto è lo spazio dedicato agli anni della Repubblica ed in particolare al periodo dagli anni '60 in poi, considerati come uno spartiacque generazionale. Il dispiegarsi del nuovo protagonismo giovanile, trova un movimento in difficoltà, che non coglie fino in fondo e non è pronto alla ripresa di quei temi libertari che sempre più spesso sembrano emergere dalla contestazione e dai giovani che, a loro volta, guardano all'anarchismo. Una ripresa di attività lungo parole d'ordine e nel solco di temi tradizionali che sembrano – nella lettura di Sacchetti – congiungere la vecchie e nuove generazioni, entrambe poste di fronte all'esplodere della strategia della tensione e all'avvio della destabilizzazione stabilizzante, con tutto ciò che Piazza Fontana, Pinelli e gli avvenimenti successivi hanno rappresentato per il movimento e per quella storia della Repubblica, all'interno della quale strumentalizzazioni e stereotipi (evidenti nelle carte utilizzate dall'autore) si rincorrono nel disegnare ciò che si vuole far apparire, e che ancora oggi – sotto tanti punti di vista – aspetta di essere chiarito.
Un terzo punto è il tentativo che Sacchetti compie nel cercare di individuare nuovi terreni di azione che gli anarchici sembrano percorrere. Su questo aspetto – peraltro centrale nel più recente dibattito sull'anarchismo italiano a partire soprattutto dagli anni dei movimenti in poi – c'è ancora molto da fare, partendo dalla riflessione se possa effettivamente parlarsi di nuovi territori dell'anarchismo; certo il manifestarsi in quegli anni di pratiche libertarie diffuse è di per sé sintomo di un forte interesse delle nuove generazioni verso i concetti propri dell'anarchismo, integrati con temi talvolta solo tangenzialmente toccati dal movimento. Un rinnovamento quindi, ma da ricercare e inquadrare all'interno di un percorso non sempre riconducibile ad una autonoma capacità propositiva degli anarchici, tuttavia capace di coinvolgerli almeno parzialmente. Ci veniamo così a trovare di fronte, nello stesso tempo, ad una dimensione libertaria del '68, ma - come giustamente sottolinea Sacchetti - “culturalmente etero prodotta rispetto all'anarchismo tradizionale”.
Un cenno infine non si può non fare a quello che sembra essere, nel volume, un tracciato di fondo lungo il quale sembra muoversi l'anarchismo italiano. Mi riferisco al progressivo trasversalismo verso altre espressioni ed esperienze politiche e sociali coeve, che appare lungo il volume, e che – nel bene o nel male – nel corso dei decenni coinvolge gli anarchici, interagendo con le radici tradizionali del movimento. Un trasversalismo che sembra tendere così a modificare il quadro tradizionale di riferimento, per come questo si era definito nell'immediato primo dopoguerra e poi di fatto recuperato nel secondo, con in mezzo il fascismo, la cesura spagnola e la guerra. È anche questo un tema “aperto”, da approfondire, inquadrandolo per quello che - storicamente – ha rappresentato nel movimento, e nel suo frequente rincorrere un rinnovamento ed una attualizzazione in grado di rilanciarlo senza perdere le radici.

Pasquale Iuso



Parkinson/
Non compassione, ma aiuto per l'autonomia(possibile)

la malattia aiuta ad ascoltare
i rumori della vita

Eppure non ti avevo invitato (di Maurizia Catozzi, qp Edizioni, 2015, pp.104, € 12,90) vuole essere testimonianza di un'esperienza in cui il limite della malattia diventa opportunità, rivelazione di doti profonde inaspettate, occasione per frugare nel proprio vissuto e scovare pieghe umettate da un balsamo lenitivo dalla grande forza resiliente. Maurizia Catozzi, classe 1954, conosce prima dei sessant'anni il morbo di Parkinson. Da lei definito con ironia e distacco Mr. P, l'ospite indesiderato, invadente e subdolo si impone come invitato e suo compagno di viaggio occupandosi delle più piccole azioni quotidiane, per ostacolarle.
Conoscere l'approfittatore sconosciuto è la prima mossa per avversarne l'operato. Così, come in una partita a scacchi giocata in difesa, da dilettante, Maurizia può studiare con precisione ogni contromossa. Allo sconforto per non riuscire allacciarsi un bottone della camicia o la stringa delle scarpe, impugnare una penna, un pennello, parlare, camminare, oppure all'umiliazione per la lotta quotidiana contro le barriere di un'architettura ancora troppo distratta - l'assenza di corrimano lungo le scalinate, salire su un autobus o un treno - reagisce con la forza della volontà e la perseveranza nello sforzo.
Risponde alla condanna di Mr. P circondandosi di complicità. La scrittura, per dare forza alle parole delle sue poesie, con il segno della penna impresso a fatica su fogli a righe alte e quadretti grandi. La pittura, per dipingere la bellezza e usare il pennello con mano ferma. Il canto, per esercitare la voce a non rimanere muta. Il ricamo, la soddisfazione nelle piccole cose lavorate all'uncinetto imparato da piccola sui gradini di casa, come esercizio per la motricità fine delle mani per non renderle rattrappite e inservibili.
La musica, e come compagno di ballo un manico di scopa, per mantenere il ritmo e una postura più aperta, spalle dritte, e passi lunghi come quelli dei cavalli della copertina del libro, da lei dipinti proprio per contrasto ai passetti corti imposti da Mr. P. Poi le lunghe passeggiate, con la dignità del bastone e quella fierezza di chi combatte ogni giorno: “raddrizzar la schiena aprendo il petto e a testa alta camminare togliendo a lui un po' di quel tuo spazio che si era preso”.
Con la malattia, il tempo subisce accelerazioni, il corpo invecchia prima. Il tempo è anche dilatato, serve più tempo per le solite azioni in apparenza prive di significato. Il rapporto con il tempo cambia: i ritmi vanno adeguati alle proprie necessità. Ma il tempo della memoria non rimane compromesso: attingere ai ricordi e la consapevolezza del proprio vissuto diventano energia per affrontare le insicurezze del presente.
Il tempo dedicato agli altri, inoltre, rappresenta un'altra reazione al potere della malattia: la lettura ai bambini di racconti e filastrocche, oppure disegnare personaggi dei cartoni animati da far colorare ai bambini autistici. Organizzare incontri, convegni per conoscere i risultati della ricerca di un morbo, ancora poco conosciuto. Così, per chi vuole accoglierla, la malattia apre le finestre, spalanca gli occhi sul mondo, favorisce un fine sguardo introspettivo e ribalta i ruoli. Parlando del figlio: “accompagnandomi al mercato, mi fa camminare dalla parte del muro, come facevo io con lui da piccolo”.
Il libro si rivolge non solo ai malati di Parkinson, ma anche ai loro familiari, perché siano una presenza discreta e invisibile. Chi è malato non ha bisogno di compassione, ma essere aiutato a diventare autonomo, per quanto gli sarà possibile. Cento pagine di gradevole lettura arricchite da poesie dell'autrice, per dare coraggio a chi deve affrontare momenti di precarietà e non sprofondare nel baratro della depressione in agguato, pronta a succhiare le energie vitali. Ma sempre impugnando l'arma dell'autoironia, senza prendersi troppo sul serio per sfidare, con più leggerezza, i pesanti affanni del vivere.

Claudia Piccinelli

L'associazione “Azione Parkinson Brescia” devolverà parte del ricavato dalle vendite del libro alla ricerca sulla malattia di Parkinson.