Rivista Anarchica Online


diserzione

Dietrofront!

di Brad McCall, Kimberly River, Ryan Johnson, Robin Long, André Sheperd, Matt Mishler, Samantha Schutz, Brandon Hughey


Storie tutte diverse e tutte sbagliate, di donne e uomini lasciatisi intrappolare dalla propaganda militare (e militarista). Una volta venute e venuti, in vario modo, a contatto con la realtà quotidiana della guerra, però...

Cominciavo a prendere coscienza della mole di propaganda che, fin da quando ero bambino, mi aveva spinto ad arruolarmi nei marines. Ho iniziato a ripensare a tutti i film che avevo visto, agli eroi di certi film di guerra, Clint Eastwood, Heartbreak Ridge, Top Gun, a tutte quelle storie con le quali ero cresciuto, idolatrandole. Mi rendevo finalmente conto che la società americana è pesantemente, davvero pesantemente, indottrinata, e l'indottrinamento comincia presto, da quando sei in grado di riceverne i messaggi dalla televisione.
Benji Lewis

Non riesco a sentirmi parte del mondo militare. Non è che non voglia: non posso proprio. Non sopporto di essere circondato da persone in uniforme, non sopporto di indossare un'uniforme, perché ogni giorno tutto ciò che accade mi ricorda costantemente, 24 ore su 24, sette giorni su sette, non solo quello che ho fatto, ma anche quello a cui ho assistito e che mi ha tenuto la bocca cucita. Per questo [...] sono diventato un disertore. [...] Ho pensato che sarei finito in prigione, ma ero pronto ad andarci, per mantenere ferma la mia posizione.
David Cortelyou


Ma io non sono come loro

di Brad McCall

Avevo sentito le storie che si raccontavano sull'Iraq, storie e particolari di atrocità che venivano commesse contro persone innocenti in quel paese. I veterani che le raccontavano ne andavano fieri. Si vantavano. Si pavoneggiavano nel modo più assoluto per quello che avevano fatto e per quello che avevano fatto altri commilitoni delle loro unità. Ci ridevano su, sembrava fosse solo un grande scherzo e non vedevano l'ora di tornare indietro perché si divertivano ad ammazzare la gente.
Quando ascoltai per la prima volta quelle storie, la prima cosa che feci fu di correre al bagno e vomitare. Non riuscii a controllarmi. Mi faceva stare male, fisicamente. Quando mi ripresi, andai dritto dal mio comandante e gli riferii tutto. Lui disse “Bene, dovremo fare due chiacchiere con i veterani e assicurarci che non raccontino più a voi ragazzi queste storie”. Questo fu tutto ciò che fecero in merito. Quindi, da allora, per la prima volta mi sono messo a riflettere sul serio su me stesso, e persino su quali fossero le mie convinzioni politiche, morali e spirituali più profonde. Mi ribellai contro gran parte degli insegnamenti che i miei genitori mi avevano impartito da bambino e cercai di tentare di capire quali fossero le mie idee. Fuggii dalle regole che per tutta la vita avevo seguito, nel solco tracciato dai miei genitori.
Scoprii che non ero un conservatore come avevo sempre pensato di essere. Scoprii che la guerra in Iraq era malvagia, atroce, ridicola e che se fossi andato in Iraq mi sarei reso colpevole di crimini di guerra, se non agli occhi degli altri, sicuramente ai miei. Tutto ciò per me era più che sufficiente per mettere un punto e dire “No, non posso partire.” Se fossi partito lo stesso, sapendo tutto questo, e fossi tornato vivo, avrei dovuto vivere il resto della vita con la consapevolezza di aver partecipato a una guerra maledetta, scatenata per motivi ingiusti. Non sarei stato capace di vivere con me stesso. Perciò feci l'unico passo che conoscevo e domandai che mi fosse riconosciuto lo status di obiettore di coscienza. I miei superiori mi presero in giro per tre settimane, mentre imploravo, imploravo, imploravo che me lo concedessero, e alla fine scappai e andai in Canada. [...]
Presi la decisione definitiva in un giorno. Ne parlai con un amico a Colorado Spring, e mi raccontò dei soldati che stavano scappando in Canada e io pensai “Forte!”. Così, da lì mi recai a casa di un altro amico con il mio pc portatile e scoprimmo che era davvero possibile. Trovammo su internet il sito dei soldati resistenti, e quella stessa notte feci la scelta di lasciare il paese la settimana successiva, ma dopo il giorno di paga. Sapevo che avrei avuto bisogno di soldi per affrontare la situazione e muovermi da un posto all'altro. [..]
La prima cosa che mi successe appena arrivai nella Columbia Britannica fu che mi arrestarono, sul confine. Nella settimana che rimasi a Fort Carson, entrai in contratto via e-mail con diversi canadesi che volevano aiutarmi. Allora non me ne ero accorto, ma i miei genitori avevano la mia password della posta elettronica e stavano seguendo quanto accadeva, e avevano inoltrato tutte le e-mail al mio comandante e al sergente. Sapevano quindi che stavo andando in Canada.
Fui arrestato al confine dalle guardie di frontiera canadesi, su richiesta dell'Esercito degli Stati Uniti.
[...] Mentre ero in prigione feci domanda di asilo, motivando tale richiesta sulla base della convinzione che se fossi tornato negli Stati Uniti sarei stato perseguitato o perseguito legalmente a causa delle mie posizioni politiche, morali e spirituali.

Brad McCall



L'indottrinamento tra i banchi di scuola

di Kimberly Rivera

Come sanno tanti, i reclutatori cominciano a puntarti quando sei molto giovane, alla scuola superiore, e spesso ti contattano anche a sedici anni, a volte non è facile indovinare l'età dei ragazzini a scuola. Se si accorgono che ancora non hai compiuto i sedici anni, o che non sei né al penultimo né all'ultimo anno, ti lasciano stare. Non parleranno con te per tutto il resto dell'anno. Poi però arriva l'anno successivo. Appena acquisiscono i tuoi dati dalla scuola, iniziano a chiamarti a casa; cominciano a sistemare i loro banchetti in sala mensa e a recitarti la loro tiritera ancora, e ancora, e ancora. Da studente di scuola superiore non sei davvero preparato, penso, a prendere decisioni che ti possono trasformare la vita, come è nel caso della scelta della carriera militare. Eppure io l'ho presa, questa decisione, e a volte sento che sono stata un po' forzata a prenderla, perché essendo ancora a scuola vivevo a casa con mia madre e mio padre e non avrei mai voluto essere di peso per loro. Perciò ho pensato “bene, questo può essere il modo migliore per mettere da parte i soldi per la scuola.”
I reclutatori fecero firmare ai miei genitori una specie di modulo di autorizzazione o roba simile per avere il permesso di parlare con noi. Ma poi venne fuori che non era solo un permesso per parlare con me, era un'autorizzazione dei genitori a permettergli di arruolarmi. [...]
Nel 2000, al penultimo anno, ci andai, feci il test e poi dovetti parlare con un consulente militare. Il consulente è quello che dice, in base al punteggio ottenuto nel test, per quale tipo di lavoro ci si è qualificati. Mi hanno dato tre opzioni di lavoro tra cui scegliere, e io ne ho scelto una, non sapendo che scegliendo quel lavoro stavo effettivamente firmando un contratto militare. Dopo averlo firmato, ho dovuto faticare a convincermi di aver fatto la cosa giusta, e che quella sarebbe stata la scelta giusta per me. Succede così in fretta. Appena hai scelto il lavoro, sei lì, seduta nella stanzetta e in sostanza aspetti solo di fare il giuramento. Da quel momento mi ripetevo “Sai che c'è? Mi sono appena arruolata”. Avevo diciassette anni.
Andai al campo di addestramento reclute. Nulla mi sembrava davvero reale. Ero cresciuta in Texas, sempre circondata da armi. Ero davvero un maschiaccio, perciò fare quel tipo di cose, allenarsi, fare le corsette a ostacoli, e tutto quel gridare “Uccidi! Uccidi! Uccidi!” mi sembrava solo un gioco, in fondo. Non era reale. [...]

Quei “bravi ragazzi”

Avevo sempre pensato che i soldati fossero bravi ragazzi, che fossero quelli che aiutavano le persone quando ce n'era bisogno. Che rimettono a posto le cose e ricostruiscono. La pensavo così anche sull'Iraq. Avevo sempre creduto, cioè, che lo scopo di essere lì fosse quello di conquistare i cuori delle persone, ma non era così. Accaddero un paio di fatti importanti, di incidenti, che realmente mi spinsero a interrogarmi su tutto, da me stessa alla scelta del servizio militare, al perché fossi lì, tutto. Uno dei fatti accadde quando lavoravo all'ingresso della base.
Ogni sabato i civili arrivavano e presentavano delle richieste di indennizzo. Io non sapevo cosa avessero passato le loro famiglie. Non sapevo cosa avessero perduto. Ad alcuni era stato sequestrato l'unico fucile che avevano a casa, che poteva rappresentare l'unica forma di sicurezza per la propria famiglia. Alcuni avevano visto portarsi via i figli giovani o i mariti, e si chiedevano dove fossero, alcuni erano anche stati feriti in maniera grave.
Bene, quel sabato in particolare, anche ora che affronto la vita giorno per giorno, lo ricordo chiaramente, come se non avessi mai lasciato l'Iraq. Vedo questa bambina, avrà avuto circa due anni più o meno, come la mia bimba che avevo lasciato a casa, e la vedevo tremare. Tremava violentemente, non come se avesse una crisi epilettica, ma quasi. Le lacrime le scendevano dagli occhi, le scendevano sul viso. Ma non piangeva. Non gridava. Niente. Ma i bambini non piangono senza gridare.
Sapevo che qualcosa di traumatizzante era successo a quella bimba, che le lacrime che le scendevano sul viso erano legate a quello shock. Ero impotente, non potevo fare nulla. Indossavo l'equipaggiamento completo, portavo un fucile d'assalto M16 ed era carico, con la sicura disinserita, perché così ci era richiesto di fare quando eravamo in missione. Non riuscivo a immaginare cosa potesse fare suo padre per aiutarla, e nemmeno come avrei reagito io, essendo madre anche io, se mia figlia si fosse trovata in quello stato, sapendo di essere incapace di aiutarla e di fare qualcosa, o al contrario proprio perché sapevo cosa accadeva nella sua testa e quello che aveva subito. [...]
Al cancello c'erano anche alcune donne più anziane. [...] Nei loro occhi solo domande che ti penetravano il cuore e l'anima: “Perché mi stai facendo questo? Che ti ho fatto? Che cosa ti ha spinto a colpire in questo modo la mia famiglia?”. E riuscivi a percepirlo. Non avevano bisogno di dirlo a parole, lo sentivi, glielo leggevi in faccia. Non potevo accettarlo. Ancora, vedevo persone – civili iracheni che lavoravano con noi – che si strappavano i vestiti e si gettavano a terra per aver perso dei loro conoscenti. Non avevo idea di cosa diavolo stesse succedendo. [...]
I miei superiori sapevano che stavo passando un periodo di forte stress, e quando alla fine ottenni la mia licenza di due settimane, penso che temessero che non sarei più tornata indietro. Allora iniziarono a farmi pressioni, e avemmo una discussione sui motivi per non disertare. In sostanza mi dissero che potevano farmi qualunque cosa, che potevano non solo rovinarmi la vita, ma anche, se avessero voluto, fare di me un esempio per tutti e uccidermi durante uno scontro a fuoco in battaglia. Dalle loro bocche uscì questo. Ma arrivata a quel punto, nulla di ciò che potevano dire o fare poteva spaventarmi oltre. [...]
Un giorno, navigando su internet, saltò fuori la “War Resisters Support Campaign” (gruppo di attivisti canadesi impegnati a sostenere i renitenti, ndr) e tante altre storie di soldati resistenti. Mio marito mi suggerì di trasferirci in Canada. Rimanemmo in giro per circa due settimane, entrando e uscendo da posti differenti. Ero super-paranoica. Non so se lo fosse anche Mario (il marito, ndr), io certamente lo ero. Mi vedevo trascinata via, spacciata. In Kuwait eravamo stati addestrati per catturare i prigionieri e ripulire stanze o intere abitazioni, perciò avevo chiaramente in testa quello che facevano nei loro raid, anche se io non vi avevo mai preso parte. Quando sei stata addestrata per far parte delle squadre speciali e sai come ti possono catturare e portar via, hai addosso un terrore tremendo.

Kimberly Rivera



I racconti dei veterani

di Ryan Johnson

Cominciai a parlare con i veterani che erano tornati, per conoscere la loro esperienza da militari, per scoprire cosa avessero visto in Iraq; sapevo in cosa mi stavo mettendo, anche perché già dall'inizio, quando mi ero arruolato, mi ero imbarcato in un qualcosa senza avere sufficienti informazioni.
Mi raccontavano storie in cui avevano visto carri armati schiacciare auto di civili nelle strade. Mi raccontavano di abusi, di uccisioni di civili, di bambini morti per le strade, di spari ai check point contro automobili nelle quali poi avevano guardato dentro e avevano visto i corpi senza vita di una famiglia disarmata, o un bambino incenerito. Storie orrende, che provocavano a loro incubi continui e avevano reso insopportabile persino lo stare in luoghi affollati. [...]
Allora ho iniziato a chiedermi davvero come fosse scoppiata la guerra, all'inizio. Si, insomma, a informarmi sull'11 settembre e capire che non c'era alcuna connessione con l'Iraq. Su come il presidente avesse detto che in Iraq c'erano armi di distruzione di massa, e invece non era vero. L'Iraq non aveva fatto nulla per provocare l'attacco al suo territorio. E allora ho cominciato ad andare ben oltre la consapevolezza che quello che stavamo facendo fosse sbagliato.

Ryan Johnson



Una famiglia di militari e un destino già segnato

di Robin Long

Mi sono arruolato nel giugno 2003, nel programma di reclutamento differito. In sostanza venivo da una famiglia di militari, mio padre era militare, come i miei zii e zie e tutti i miei cugini da parte di padre. Da ragazzino cresciuto con i G.I. Joe, avevo sempre pensato che da grande sarei entrato nell'esercito. [...]
Durante l'addestramento di base cercano di smontarti pezzo per pezzo e ricostruirti secondo le esigenze dell'esercito. Ci facevano marciare, cantare ogni momento slogan che inneggiavano all'uccisione di persone e a lacrime, sangue e budella. Ci stavano trasformando in macchine assassine, e al contempo tentavano di disumanizzare il nemico. Sui principali organi di stampa sentivo raccontare che gli Stati Uniti andavano in Iraq per le armi di distruzione di massa, per liberare il popolo iracheno, eppure mi raccontavano che sarei andato nel deserto a uccidere le teste coperte di stracci, e scusate l'offesa razzista. All'inizio questa cosa mi disturbava, perciò mi misi a fare al mio sergente domande del tipo: “Ma perché chiamiamo gli iracheni teste coperte di stracci?” e lui rispose: “Beh, perché è quello che sono.” [...]
Arrivavano soldati appartenenti ad altre unità di ritorno dall'Iraq e stazionavano a Fort Knox. Gran parte di loro si vantava di quel che stava succedendo laggiù. Iniziammo a sentire quello che i media principali non raccontavano. Per esempio, un tipo mostrava alcune foto di una persona che lui aveva schiacciato con il suo carro armato, un altro aveva foto della sua prima vittima – lui era in posa sorridente e col segno della pace, mentre sollevava la testa di un ragazzo morto – e altri che se la tiravano per aver ucciso questa o quella persona o per come avevano visto esplodere qualcuno. Tutto questo cominciò a farmi arrabbiare, sì, arrabbiare, più di ogni altra cosa. Sentivo che il malessere allo stomaco sarebbe continuato ogni volta che avessi ascoltato queste storie. [...]
Alla fine, quindi, proprio il giorno che avrei dovuto imbarcarmi sull'aereo per andare a Fort Carson e registrarmi per andare in Iraq, presi la mia ultima decisione. Mi nascosi nell'appartamento di un amico per circa due mesi prima di incontrare alcune persone che stavano andando in Canada – una coppia di hippy che andava in Canada per un matrimonio – e dissi “ Sapete cosa? Sono stanco di nascondermi qui negli Stati Uniti. Non può funzionare. Meglio andare in Canada, dove almeno non dovrò nascondermi per tutto il tempo dalla polizia.”

Robin Long



Tutto ciò che non sapevo

di André Shepherd

Sono cresciuto a Cleveland, Ohio, e ho frequentato il college alla Kent State University. Il fatto è che mi sono diplomato quando è scoppiata la bolla delle aziende dot-com, quindi mentre cercavo un lavoro nell'ambito per il quale avevo studiato, quello informatico, non ho trovato nessun impiego. Allora sono finito a fare mille lavoretti – nei fast food, come corriere, per un po' anche come venditore di aspirapolveri, imbustavo lettere a casa, cose di questo tipo – lavori sottopagati, cercando di arrivare alla fine del mese. [...]
È finita che sono andato a vivere in macchina, – la prima volta nel 2001 per sei mesi e la seconda nel 2003 più o meno per lo stesso lasso di tempo. Quindi, nell'estate del 2003, mi sono presentato a un reclutatore dell'esercito a Lakewood, Ohio, che mi ha parlato degli ingaggi che stavano proponendo, che avevano bisogno proprio di persone come me per aiutare i popoli del mondo a liberarsi dal terrorismo e dai dittatori, e cose di questo genere. Per esempio ha parlato di Saddam Hussein, Osama bin Laden, Kim Jong Il, [...] l'”Asse del male”. Mi ha parlato ancora un po' di questi argomenti, e poi ha cominciato a illustrarmi i vantaggi che dava l'esercito, la paga regolare, la possibilità di viaggiare, la casa gratis, e anche l'assicurazione sanitaria gratuita, che sarebbe andata avanti anche se avessi lasciato il servizio. Tutto quello che dovevo fare era firmare per qualche anno e avrei avuto tutti quei benefit. In quel periodo vivevo nella mia macchina e quindi trovai tutto ciò davvero convincente. Dopo qualche mese a pensare se fosse o meno una buona idea, il 27 gennaio del 2004 decisi di arruolarmi. [...]
Sapevo che, dal momento che eravamo impegnati in un conflitto e che era in corso la guerra contro il terrore, essere spedito al fronte poteva essere una possibilità. A quel tempo non avevo le conoscenze che ho ora. Tutto ciò che sapevo era più o meno quello che raccontavano i mass media e quello che sosteneva l'amministrazione Bush. Allora credevo ancora nel mio governo, e pensavo che ci avrebbero detto solo la pura verità. Perciò non mi turbava affatto essere coinvolto in prima persona nel conflitto. Pensai che avrei reso un grande servizio al mio paese e che questo avrebbe messo la mia vita sulla retta via. [...]
Mentre ero in Iraq, la prima cosa che ho notato è stato l'atteggiamento della popolazione locale quando si avvicinava alla nostra postazione. Quando sei il liberatore, la popolazione dovrebbe essere stracontenta di vederti. Essere felice che tu voglia aiutare e accoglierti a braccia aperte. Ma quando incontravo gli iracheni al mattino, mentre andavo al lavoro, non avevano affatto l'aria di essere contenti di vederci. Sembrava o che avessero paura di me, come se io stessi per colpirli, in un modo o in un altro, oppure sembrava che se avessi voltato loro la schiena e fossi stato disarmato, probabilmente avrebbero tentato di uccidermi. Così mi misi a pensare: “Ok, cosa sta succedendo qui? Perché io ero convinto che noi in teoria fossimo i buoni, ma qui tutti mi guardano come se fossi pazzo.”
Mi misi a parlare con i soldati della base, per provare a conoscerli tutti, visto che erano laggiù già da sei mesi. La maggior parte di loro diceva di non capire perché fosse lì. [...]
Questo fatto mi fece riflettere: forse eravamo davvero incappati in uno sbaglio. Cominciai a chiedermi “Okay, perché siamo qui?” [...] Quindi iniziai a fare ricerche. Ero lì, sul posto, e cominciai a notare piccole incongruenze in quello che leggevo, tra quello che l'amministrazione Bush raccontava a tutti e quello che stava realmente accadendo, specialmente sulla rincorsa alla guerra all'Iraq, perché i nostri media avevano creato davanti alla popolazione uno schermo per impedire ogni voce di dissenso alla linea ufficiale. [...]
Mi sembrava come se esistesse una sorta di agenda parallela che andava al di là della liberazione del popolo iracheno da un dittatore o del tentare di trovare le armi di distruzione di massa. Poi ci fu la battaglia di Falluja, dove i media raccontavano che era stata una grande vittoria per noi in Iraq. I canali televisivi militari raccontarono che avevamo fatto un gran bel lavoro nel risollevare una città che era stata completamente invasa dai terroristi, dagli insorti, ecc. Ma continuando le mie ricerche, iniziai a scoprire cose davvero scioccanti, come uomini che erano in età per combattere, ma che non volevano farlo e a cui veniva impedito di lasciare la città. In pratica erano solo seduti lì, indifesi, presi nell'assedio con i marines e le forze armate e poi i report dell'uso che veniva fatto del fosforo bianco e, insomma, la totale distruzione che stava andando avanti in città. [...]
Quando guardavo gli iracheni, e loro mi guardavano con la gentilezza con cui i francesi avrebbero guardato i nazisti tedeschi o come qualunque dei popoli che erano stati oppressi dai romani, mi veniva da chiedermi “ma che cosa significa davvero questa bandiera che porto sulla spalla?” [...]
Mi sono messo a scavare tra le storie raccontate dai media e ho iniziato a scoprire tutte le più grosse bugie che l'amministrazione Bush aveva raccontato. [...] Ho letto che la CIA aveva dichiarato in un suo rapporto che non esisteva nessuna arma di distruzione di massa e ho scovato e guardato un video in cui George Bush ridicolizzava quel rapporto; mentre la gente in Iraq soffre e muore, lui è lì seduto a fare battute sul rapporto, tentando di far finta di trovare le armi di distruzione di massa. Cose del genere sono assolutamente ingiuste. [...]
Una volta capíta a grandi linee la verità, e cioè che questa guerra in fondo non era altro che una truffa non solo nei confronti del popolo americano, ma di tutto il mondo, decisi che non avrei partecipato a un'altra missione in Iraq. [...] Questo era il momento della verità. Dovevo prendere una decisione davvero grande, se andare avanti nonostante la mia coscienza o dire: “No, non posso farlo, è assolutamente crudele e non voglio avere a che fare neanche in maniera indiretta in nessuna delle atrocità che continuano a perpetrarsi in Iraq.” [...]
Mi trovai di fronte a due alternative: andare in Iraq o disertare, perché non esiste altra scelta. [...]

André Shepherd



La guerra non è un videogame

di Matt Mishler

Quando misi la firma avevo vent'anni. [...] Pensavo solo che fosse dovere di ciascuno servire il proprio paese, e in quel momento credevo che era quella la cosa che volevo fare nella mia vita. Decisi di arruolarmi nei marines perché avevo sentito che avevano il centro di addestramento reclute più duro. [...]
Presto mi resi conto che la mia linea di pensiero non era molto comune tra gli altri marines che avevo intorno. Il modo in cui parlavano, quel che dicevano... preferivo prendere le distanze dai discorsi in cui si addentravano. Non esprimevo spesso la mia opinione, ma non volevo ascoltare gente ignorante che diceva frasi del tipo: “Oh, non vedo l'ora di uccidere qualche maledetto arabo.” Per me questi discorsi erano disgustosi e da ignoranti, e mi misi a pensare: sono persone anche loro, hanno una madre, un padre, una famiglia. [...]
Se pensiamo alla Prima o alla Seconda Guerra mondiale, moltissimi soldati in battaglia non erano in grado nemmeno di imbracciare il fucile, ma poi è arrivato il Vietnam, e il numero delle vittime è iniziato a crescere, perché i militari avevano deciso di usare tecniche per disumanizzare il nemico. Mi ricordo che al campo di addestramento la parola “Uccidi” era usata come se niente fosse. Si usava anche in risposta agli ordini “Uccidi! Signorsì, uccidi!” [...]
Al campo di addestramento giocavamo con i videogame, c'erano anche lì... ma la guerra non è un videogame: se uccidi qualcuno, non torna in vita. È morto. E magari era una persona che aveva dei figli, una madre, un padre, probabilmente una moglie, aveva dei doveri, avevano una vita che stavano vivendo e tu gliela potevi strappare unicamente in base al tuo giudizio.

Matt Mishler



Niente giornalismo, solo propaganda

di Samantha Schutz

Nel 2006, quando mi arruolai, stavo attraversando un periodo molto duro. Nell'aprile di quelle stesso anno ero stata ricoverata nell'ospedale locale per una profonda depressione e per una sorta di incapacità a integrarmi nella società. [...]
Quando misi la firma avevo diciannove anni, mi era saltato il terzo contratto di affitto ed ero appena stata dimessa dall'ospedale. Non avevo la minima fiducia nelle autorità. Avevo pochissime scelte davanti a me, per non dire nessuna, e arruolarmi fu l'unica opportunità che riuscii a trovare per mettere insieme un po' di soldi. [...]
Gli spot pubblicitari funzionano davvero per adescare i giovani. Come me, che pensavo che l'esercito non fosse una macchina da guerra, ma solo un posto per fare qualche soldo per il college, per migliorare me stessa. Ero abbastanza ingenua a riguardo. [...]
Mi recai alla Defense Information School per sapere come diventare giornalista all'interno dell'esercito. L'addestramento durò quattordici settimane.
[...] Scrissi un mucchio di articoli su quello che succedeva alla base, su chi veniva promosso, sulla sicurezza e cose simili. Di solito inviavamo i nostri articoli ai due giornali civili che avevano sede nelle vicinanze della base. [...]
Però io non mi ritenevo una giornalista. Mi sentivo una propagandista. Ci veniva inculcato in testa di mettere sempre l'accento positivo su tutto e che c'erano solo alcuni argomenti di cui potevamo occuparci. Un'altra parte del lavoro laggiù consisteva nel lavorare insieme ai media occidentali e orientarli. Loro si affidavano a noi, erano affiliati all'esercito, dunque in modo indiretto censuravamo quello che erano autorizzati a vedere, a vivere, a scrivere e filmare. Eravamo noi a scegliere a quali missioni potevano prendere parte, perché sapevamo in anticipo quali potevano risultare particolarmente violente o quali mostravano solo aspetti positivi, il nostro ruolo nella ricostruzione o cose simili. Ovviamente, inviavamo i media occidentali nelle missioni che mostravano le nostre buone intenzioni, e non menzionavamo affatto quelle violente.
Dato che lavoravo nella Divisione ed ero una donna, non ero autorizzata a prendere parte alla maggioranza delle missioni pericolose. Però avevo l'impressione che i compiti a me assegnati fossero incentrati sull'ignorare quel che succedeva là fuori, ma avessero lo scopo di salvare la faccia all'esercito e di intrattenere il pubblico. In passato avevo realmente pensato: “Diventerò una corrispondente di guerra, darò copertura mediatica a questo evento storico, che è anche controverso”. Ma presto capii la verità, avevo sempre saputo che i media erano un po' faziosi, ma nulla di quello che facevo somigliava nemmeno vagamente alla cronaca degli eventi.
Mi decisi infine a portare la questione all'attenzione di altre persone, dei miei colleghi e dei miei superiori. Il risultato fu che mi trasferirono, cancellarono la mia posizione e non scrissi più. Mi spostarono nella redazione della nostra newsletter, una newsletter quotidiana. Ora il mio lavoro, dodici ore essenzialmente notturne, consisteva nel lavorare da sola e assemblare semplicemente la newsletter. Era molto impegnativo, ma facevo solo copia e incolla. Credo mi abbiamo messa lì perché pensavano fossi diventata un pericolo, o che abbiano percepito la mia demotivazione. Fui separata dal resto dello staff, e lavorai da sola, dodici ore di notte. [...]
Mi capitò di visitare i sobborghi di Baghdad e vedere le condizioni di vita delle persone. Tornando alla base americana, piazzata in mezzo a tutta quella miseria, ritrovavo la mia bella stanza con l'aria condizionata, il letto comodo, la TV, il frigorifero, il computer, il forno a microonde. Nel giro di mezzo miglio avevo a portata di mano Taco Bell o Burger King, Popeye's, l'ufficio postale e un grande supermercato. Mi sentivo sempre più depressa e colpevole perché sapevo che all'opinione pubblica americana veniva raccontato che stavamo offrendo il nostro aiuto, stavamo lì per sostenere la ricostruzione e la ripresa ed era sotto ai miei occhi che le enormi cifre stanziate – 12 miliardi al mese nel 2008 – venivano spese più che altro per garantire i nostri comfort e non per aiutare fattivamente la popolazione. [...]
Avevo come il presentimento, prima di partire in licenza, che avrei potuto non fare ritorno. Mi stavo preparando a prendere la decisione se tornare o meno. Quando arrivai a casa in licenza, sentii che non avevo scelta dal punto di vista morale. Non potevo continuare così. Dovevo fermarmi in quel momento, e così rimasi negli Stati Uniti. [...]
In parte, ciò che voglio è riavere la mia voce ed essere in grado di aiutare altri a curare le ferite causate dalla macchina da guerra, ma aiutarli anche ad alzare la testa, per loro stessi. [...]
Mi ero già preparata per qualcosa di persino peggiore. In tutta onestà posso affermare che avrei preferito passare i miei ultimi tre anni di ferma in una cella, piuttosto che al servizio della macchina militare.

Samantha Schutz



Diserzione. Unica scelta possibile

di Brandon Hughey

Un giorno arrivò a casa mia la telefonata di un reclutatore. Per prima cosa mi chiese: “Hai i mezzi per iscriverti all'università?”. “No,” risposi, “non ci ho ancora pensato in realtà.” “Bene,” mi disse allora, “vienici a trovare in ufficio e ne discutiamo un po'”. Così fissammo un appuntamento. Mi fermai da loro e il reclutatore mi raccontò tutte le fantastiche cose che avrebbero potuto fare per me se mi fossi arruolato per qualche anno. Tipo che avrebbero pagato loro l'università, che mi avrebbero dato un bonus economico al momento del giuramento e coperto in sostanza tutte le mie spese. Alle mie orecchie, in quel momento, suonò come fosse un buon affare. [...] Una volta arrivato al centro di addestramento reclute, però, cominciarono a venirmi pensieri diversi, perché mi sentivo quasi come se mi stessero riprogrammando per pensare in modo differente da come avevo fatto fino ad allora. [...]
Notavo che non ci insegnavano tanto a combattere, ma piuttosto a disumanizzare totalmente l'avversario. C'erano un sacco di offese a sfondo razziale, un sacco di insulti che diventavano di uso comune per definire gli arabi e gli iracheni. Era del tutto evidente che loro non vedevano gli arabi come persone uguali a noi, ma come esseri inferiori, e cercavano di inculcare queste idee nelle nostre teste. Gli arabi non erano buoni come noi, erano inferiori. Immagino che facessero questo per renderci più facile puntare il fucile contro gli iracheni e ucciderli, una volta spediti laggiù. [...]
Ho cominciato a pensare, okay, la mia sola scelta è lasciare il paese. A quel punto mi sono messo a fare piani per andare in Canada.
Quando mi sono arruolato, l'immagine che avevo in testa era quella di partire per difendere il mio paese e lottare dalla parte giusta, ma quando è scoppiata la guerra in Iraq mi sono reso conto che non era così. Avevamo attaccato un paese che non ci aveva mai minacciato e portato la devastazione nell'intero territorio iracheno senza che loro ci avessero fatto niente. Allora espressi le mie idee, e per tutta risposta mi dissero di smetterla di pensare così tanto. [...]
Così ho capito che, in sostanza, non avevo altra scelta che lasciare l'esercito.

Brandon Hughey

Tutte le testimonianze presenti in questa pagina sono state tradotte da Guido Lagomarsino

Queste testimonianze

Il libro About face. Military resisters turn against war - dal quale abbiamo tratto gli scritti presenti in queste pagine - raccoglie le testimonianze di disertori, renitenti e obiettori dell'esercito degli Stati Uniti impiegati nelle guerre in Iraq e Afghanistan, scoppiate a partire dal 2001. I loro racconti sulle atrocità della guerra, gli abusi, i disturbi post-traumatici sono stati dapprima collezionati dall'associazione canadese “Courage To Resist” (un gruppo di supporto per militari obiettori) e in seguito raccolte dai curatori Sarah Lazare, Buff Whitman-Bradley, Cynthia Whitman-Bradley. Il libro contiene anche un'intervista a Noam Chomsky.

PM Press è una casa editrice indipendente fondata a Oakland (California, Stati Uniti) nel 2007 e specializzata in letteratura anarchica, marxista e radicale; pubblica saggi, romanzi, opuscoli, disponibili in formato cartaceo e e-book, oltre a materiali audio e video.

Per maggiori informazioni sul catalogo PM Press:
www.pmpress.org
info@pmpress.org

Sarah Lazare, Buff Whitman-Bradley, Cynthia Whitman-Bradley, About face. Military resisters turn against war (Oakland, CA - USA, 2011, pp. 272, $ 20,00)

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