Rivista Anarchica Online





Globalienazione/ La vita stampata su una banconota

Disobbedire è possibile?
Lo scollamento con il mondo politico e l'apparente onnipotenza del mondo della finanza sembrano inevitabilmente indirizzare il singolo soggetto/cittadino ad uno stato di perenne sconforto e di impotenza, quell'impotenza che può essere riassunta nella frase. “È questa la situazione, non posso fare niente per cambiarla, per quanto io mi sforzi”.
Tale scoramento è chiaramente avvertibile in tutte le forme antagoniste di dissenso, incluse quelle che si dichiarano estreme, che sembrano ipotizzare azioni di forza più per frustrazione che per autentica progettualità politica.
Come del resto sorprendersi? L'alienazione del terzo millennio è generata dalla sensazione che ci sia un nettissimo scollamento tra ciò che succede attorno a noi e la nostra impossibilità – pur in un contesto nominalmente “democratico” – di influenzarlo in qualche modo; e per di più è acuita dalla percezione che il nostro nemico sia invisibile (e quindi inaffrontabile e invincibile) e al contempo strabordante, perché include tutti i nostri simili, e addirittura include noi stessi1. Come si combatte “la finanza”? O gli oligopoli? Come si combattono quelli che, pur trovandosi nella nostra stessa identica situazione, non avvertono la necessità di un cambiamento? Come si combatte quella parte di noi stessi che ci sussurra maligna “è inutile affannarsi, non cambierà niente”, oppure “chi ti dice che il cambiamento non sarà per il peggio”?
Queste spinose domande sono il cuore di un dibattito che possa considerarsi a pieno titolo “politico”, permeate come sono di un senso che lambisce anche l'esistenziale della collettività.
Rispondere a queste domande è assai complicato, anche se non impossibile.
A nostro parere, per cercare di dipanare questa apparentemente inestricabile matassa, si deve per forza di cose cercare di fare un passo indietro e provare a sviscerare il cuore del problema (the core, per dirla all'inglese), analizzandolo da una prospettiva differente.

Il mondo gira su una monetina
Gli appassionati della fantascienza anni ‘70 ricorderanno sicuramente il film di Michael Crichton del 1973, Il mondo dei robot, pellicola il cui tema principale era la rivolta degli androidi contro l'uomo; tale tema è molto presente nella fantascienza del ventesimo secolo (si pensi, giusto per fare un nome altisonante, al Kubrick di 2001 Odissea nello Spazio) e che banalizzando si può riassumere in “È possibile che qualcosa creato dall'uomo possa ribellarsi contro di lui? Che diventi così potente da minacciare la sua stessa esistenza?”.
Trasliamo questa domanda in un ambito differente: la finanza, e ancor prima il denaro, sono creazioni dell'uomo. Come diavolo è possibile che la finanza, il denaro siano diventati così potenti da determinare così prepotentemente la nostra vita?
Su un piano puramente razionale, dire che non possiamo fare qualcosa perché “non abbiamo i soldi” corrisponde a dire “non posso uscire stasera perché sennò la mia lavastoviglie si sente sola”. La nostra vita è influenzata da uno strumento, che noi stessi abbiamo inventato, e che è in grado di condizionare la nostra (vera o presunta) felicità o soddisfazione.
Da quando il mondo va in questa maniera? Quando il denaro è diventato lo strumento apparentemente unico e indispensabile per la gratificazione personale?
È facile rispondere “da sempre”, ma sarebbe altrettanto corretto sostenere che “non è mai stato così”; pur all'interno di un contesto politico/culturale capitalista, che veicola un immaginario popolato unicamente dal “nasci-consuma-produci-crepa”, gli interstizi per opporsi a questa ottica sono ben presenti, e proprio tali interstizi rappresentano una via prioritaria di reale antagonismo.

Una politica da quattro soldi
Pensiamoci: le forze politiche di opposizione più consistenti in Italia, ovvero il M5S, FI e la Lega, basano le loro rivendicazioni soprattutto sul concetto che lo Stato “mette le mani in tasca ai cittadini”, e che l'azione politica debba essere rivolta “contro gli sprechi”. L'opposizione che va per la maggiore, oggi, parte da una monetarizzazione dell'ideologia, che consiste nello spingere il cittadino a votare l'una o l'altra forza politica in base ai vantaggi economici che potrebbe riceverne.
La cosa più paradossale – almeno agli occhi di chi non sia anarchico, e quindi avvezzo alle dinamiche insite al potere in sé – è che anche i partiti di governo hanno operato questa monetarizzazione dell'ideologia, e anch'essi si richiamano ormai unicamente al rigore nei conti, ai tagli, alla lotta agli sprechi, magari concedendo un po' di più, rispetto alle opposizioni, a quegli aspetti marginali dei diritti civili che fungono da patetica maschera e belletto messi su per differenziarsi dall'opposizione.

The ILVA paradox
Che la monetarizzazione esistenziale sia diventata il caposaldo dell'ideologia capitalistica contemporanea lo dimostra quanto accaduto negli stabilimenti dell' ILVA: la cittadinanza di Taranto, chiamata a decidere direttamente, tramite referendum, sulla chiusura dello stabilimento altamente inquinante, ha deciso di disertare i seggi, quasi che la questione non la interessasse.
In realtà la questione interessava sì la cittadinanza, ma tra l'alternativa di chiudere o mantenere operativa un'industria che, seppur gravosa per la salute propria e dei propri figli, permetteva ad una fetta della popolazione di avere un lavoro, i tarantini hanno – nel migliore dei casi – optato per un silenzioso assenso e avallo alle pratiche di smaltimento illecito operate nello stabilimento, nel peggiore sbraitato ai quattro venti che i colpevoli della crisi dell'ILVA sono i giudici e non gli amministratori delegati dell'azienda.
Come a dire: i soldi ora, subito, a qualsiasi costo, sia pure la stessa vita mia, dei miei figli, della cittadinanza tutta. Il consumo prima di tutto.
Il culto del denaro, tipico del capitalismo, racchiude in sé anche la necessità di quel sentimento di disperazione che si deve provare a non possederlo, ed effettivamente è la disperazione il sine qua non del capitalismo globale odierno: è la disperazione il motore che spinge una società ad autodivorarsi in nome di un idolo, i soldi, che senza un immaginario globale che lo alimenta non è niente di più che un oggetto vuoto e privo di senso.

Il tempo è denaro?
Ora, a nostro parere, se di opposizione reale si vuole parlare, bisogna necessariamente uscire dall'ottica monetaria, non nel semplice senso di dirsi contrari allo strapotere della finanza o della BCE (slogan che caratterizzano anche la fittizia opposizione partitica), ma proprio dal punto di vista concettuale. I soldi non devono più far parte del dibattito ideologico, non devono nemmeno essere nominati. I soldi sono uno strumento (di oppressione, per di più), non hanno posto all'interno di una prospettiva politica differente: lottare per fare avere 80 Ä in più in busta paga, o per il reddito di cittadinanza, non ha senso, serve al limite a creare nuovi consumatori coatti e nuove divisioni (tra cittadini di serie A e di serie B, tra comunitari ed extracomunitari).
Si deve lottare per delle idee. E si deve lottare in ogni ambito della propria vita individuale, a casa, a scuola, al lavoro, senza compartimenti stagni e senza ambiguità e ipocrisie. Perché per quanto paradossale possa sembrare, la monetarizzazione della nostra vita ha come principale obiettivo quello di strozzare sul nascere le idee, attraverso una semplice operazione: annullare il nostro tempo individuale. Pensare ai soldi occupa buona parte del nostro tempo, ma anche utilizzare i prodotti comprati con il denaro ci toglie tempo, toglie tempo all'elaborazione, alla socializzazione, al confronto: sono questi ultimi gli unici spazi che ci consentirebbero, sottraendoci al condizionamento perverso del sistema esistente, di inceppare in qualche punto il meccanismo attuale di potere.

Igor Cardella
Palermo

1. Come ho scritto in A 400, come è possibile sentirsi “assolti” quando noi stessi usufruiamo, direttamente o indirettamente, dello sfruttamento altrui?




Dibattito
ricerca scientifica

Continua il dibattito sulla ricerca scientifica iniziato con l'articolo di Philippe Godard apparso su “A” 397 (aprile 2015). A quell'articolo sono seguiti gli interventi di Marco Cappato (“Ricerca scientifica. Altro che bloccarla, lottiamo per la sua libertà”, “A” 399 - giugno 2015), Philippe Godard (“Il blocco è necessario. Mancano saggezza ed etica”, “A'” 399 - giugno 2015), Lorenzo Coniglione (“Appropriarsi della scienza”, “A” 401 - ottobre 2015), Massimiliano Barbone (“Ma la scienza va socializzata”, “A” 401 - ottobre 2015), Philippe Godard (“La scienza è legata ai sistemi di dominio”, “A” 403 - dicembre 2015-gennaio 2016).

Dibattito ricerca scientifica. 7/ Per una tecnologia della liberazione

Il dibattito sulla ricerca scientifica ha esplicitato un elemento ampiamente condiviso: la necessità di “indirizzare la scienza verso una politica di non dominio”, per utilizzare le parole di Godard.
Rimane controverso il modo per farlo. Fermando la ricerca o favorendo un suo sviluppo diverso? Propendo per la seconda soluzione, senza comunque nascondermene gli elementi velleitari (presenti però, mi pare, anche nella prima soluzione).
In primo luogo, se la scienza è legata ai sistemi di dominio, lo è perché ne riceve il finanziamento indispensabile. Non per altro e, soprattutto, non perché il metodo scientifico sia in sé intrinsecamente autoritario. È vero anzi il contrario (come giustamente ricorda anche Fabio Esposito su “Umanità Nova”, n° 32, nel suo articolo Il metodo scientifico come strumento di liberazione e di lotta): il metodo scientifico, pur con i limiti derivanti dal fatto di essere finalizzato a conoscere solo un certo aspetto (quello quantitativo, regolare, uniforme) della realtà, è comunque un potente strumento di demistificazione e di critica di ogni autorità (ivi compresa l'autorità dei baroni della scienza e di chi li sostiene).
In secondo luogo, già oggi esistono ricerche ed applicazioni che lasciano intravvedere potenzialità libertarie. Qualche esempio: impianti solari più efficienti, che consentono la generazione e distribuzione diffusa e decentrata dell'energia; la stampa 3D, che a breve renderà possibile la nascita di un vero e proprio “artigianato digitale”, coniugando la standardizzazione e quindi la diffusione universale del prodotto industriale con l'originalità di quello artigianale; il software Open Source, sviluppato da “community” di programmatori ed utenti autogestite e fondate sul contributo volontario e la condivisione; la ricerca biomedicale, svincolata dalle limitazioni imposte dai brevetti (interessante, in merito, il bel testo di Alessandro Delfanti Biohacker, edito da Eléuthera).
In terzo luogo, poiché oggi la scienza è asservita, mi sembra irrealistico pensare di frenarla o svilupparla diversamente senza porre in discussione il sistema del quale è al servizio. In tale complessiva contrapposizione, può anche inserirsi il sostegno (raccolta fondi, diffusione delle conoscenze, utilizzo delle applicazioni derivate) alle ricerche che, dal punto di vista libertario, possono essere funzionali alla liberazione degli individui (in primo luogo, dal dolore e dalla fatica).
In tal senso un movimento per una “tecnologia della liberazione”, dovrebbe orientarsi secondo alcuni criteri di fondo:
- orientamento ai bisogni (ed ai desideri), non al mercato: la tecnologia deve mettere gli individui e le comunità in condizione di produrre quello che serve direttamente a loro;
- apertura: condivisione del sapere e delle sue ricadute applicative; critica pubblica, lavoro collaborativo dei ricercatori, contributo di tutti gli interessati (ritengo per inciso che il movimento Open Source nel software dovrebbe essere oggetto di maggiore attenzione ed in tal senso mi permetto anche di sollecitare la nostra rivista a dedicargli un po' di spazio nelle sue pagine);
- autogestione: nelle linee di ricerca, nella conduzione dei laboratori, delle officine tecniche, nella creazione di spazi condivisi di “artigianato digitale”;
- decentramento: la tecnologia deve essere impiegata per incentivare l'autonomia, non la dipendenza. Un esempio: l'autoproduzione di energia elettrica; la costruzione di oggetti adatti alle proprie personali esigenze con la stampa 3D.
Si tratta, ovviamente, solo di indicazioni parziali e comunque soggette a tutte le limitazioni che ostacolano ogni nostra iniziativa politica; non per questo, però, il nostro movimento può ignorare i possibili sviluppi positivi della scienza per assumere esclusivamente un atteggiamento di contrapposizione.

Massimiliano Barbone
Bergamo



Dibattito ricerca scientifica. 8/ Diversi modi per spiegare il mondo

Condivido con piacere il mio punto di vista riguardo al dibattito su Scienza e Ricerca scientifica: premetto che la mia posizione iniziale ha avuto modo di cambiare nel corso di questi ultimi mesi, non ultima la lettera di Massimiliano Borbone sul numero di “A” di ottobre (n. 401) mi ha aiutato ad incentrare la riflessione non tanto sull'utilizzo che viene fatto della scienza nel mondo postmoderno quanto della sua intrinseca natura libertaria e di emancipazione. Sono innegabili gli incredibili sviluppi sociali approntati dalla scienza al mondo e alla società nel corso di questi secoli così come è innegabile la natura profondamente “Libertaria” del metodo scientifico.
Bisogna tuttavia prendere coscienza di elementi che non sempre coloro che ripongono totale fiducia nel metodo scientifico (e questo è dettato dal tipo di socializzazione che hanno avuto con l'argomento) tendono a considerare.
Anzitutto la necessità di applicare alla Scienza stessa la sua stessa metodologia: la falsicabilità, la verificabilità, la riproducibilità. A mio parere una visione più “aperta” e “democratica” possibile del metodo richiederebbe una costante messa in discussione anche al di fuori di quello che è il paradigma scientifico. Non ritengo corretto la creazione di una “auto-ghettizzazione” del metodo e dei suoi fautori dai fattori, e dai fatti, che non possono essere spiegati attraverso il metodo ma che fanno parte della realtà quotidiana. Pongo un esempio: Il paradigma scientifico non riesce a spiegare il volo, a livello fisico, di un calabrone mentre riesce invece a inviare sonde nello spazio e a far volare gli aerei. Questo ovviamente non invera le teorie che permettono il volo degli aerei ma crea il presupposto per una soluzione “esterna” al paradigma scientifico o, quantomeno, non rientrante nella categorie con cui il metodo “spiega” il mondo. Da qui la necessità, a mio parere, di ampliare il proprio raggio di azione e di vedute e di mettere in campo un'”umiltà” nella stessa ricerca. Andiamo sulla luna ma non riusciamo a spiegare il volo degli insetti.
Un secondo elemento molto importante (che si ricollega al discorso sulla  “Umiltà” della ricerca) è la prospettiva culturalista attraverso la quale noi osserviamo e valutiamo questa argomentazione. La medicina moderna di stampo occidentale ha il “Monopolio” nello studio, nella ricerca e nella cura in quanto costituita da un metodo scientifico inattaccabile. Tuttavia esistono molte altre culture sparse per il mondo che utilizzano metodi e medicine differenti e che “noi” tendiamo sempre a bollare come “mistiche”, “spirituali”, “primitive” per delegittimare metodi differenti da quello scientifico. La maggior parte di coloro ai quali poni una questione di questo tipo risponde “se i mezzi che utilizzano non sono riconducibili a ricerche che si basano su falsificabilità, verificabilità e riproducibilità ( non si attengono quindi al “Nostro” metodo scientifico) si tratta solo di credenze e superstizioni”. Riprendo il concetto di umiltà per sottolineare come il fatto che le “loro” ricerche non rispondano al “nostro” metodo pone la “loro” medicina in subordinazione alla “nostra”. Come se una tribù Mongola o un villaggio sperso nella Cina o nelle Ande dovesse stilare una ricerca che rispetti in toto i parametri del nostro metodo per venirci a dimostrare che anche loro hanno ragione e hanno diritto a curarsi come vogliono senza essere bollati come “primitivi”. L'esclusione aprioristica di metodi differenti da quello scientifico occidentale fa cadere quella visione olistica del mondo che dovrebbe essere alla base di ogni riflessione libertaria, così come l'esclusione totale di teorie non riconducibili al nostro metodo sembra rendere “meno democratico” tutto il discorso che stiamo facendo. L'umiltà dovrebbe risiedere nell'accettare le diverse prospettive di studio, anche se basate su metodi totalmente diversi, altrimenti si rischia di cadere in un dogmatismo esasperato che potenzialmente potrebbe finire col riempirci a vita di pastiglie e vaccini in nome della ricerca e del metodo.
La verità sul mondo non la conosciamo e non la conosceremo mai, mettiamoci il cuore in pace. Siamo tutti nella stessa barca e finché non inizieremo a remare tutti nello stesso verso accettando le differenze di metodi e di prospettive finiremo a scannarci su “questioni sul metodo” solo perché nessuno è disposto ad accettare l'impossibilità di una spiegazione unitaria del mondo. Ben venga il metodo scientifico, ben venga l'omeopatia, la medicina orientale e quella africana. Sono linguaggi e lenti da vista con i quali ognuno, a modo suo, vede e spiega il mondo. Pretendere che la “Nostra” medicina prevalga sulle altre in quanto l'unica a rispettare i “Nostri” parametri temo che potrebbe portare ad un altro dogmatismo di cui non abbiamo il minimo bisogno.
Un abbraccio,

Gabriele Lugaro
Savona



Dibattito Isis/L'Occidente è vittima?

I media, soprattutto di fronte a tragedie, uniformano il messaggio, cancellano la dialettica il buon senso. Stragi e guerre accentuano la standardizzazione della informazione che, anche quando non ci sono drammi, lascia uno spazio minimo alla divergenza sostanziale di opinioni. Quando i morti sono tanti, si gioca facilmente su emozioni e paure, per rafforzare le identità ed accendere sentimenti di amore (per il gruppo con cui si è chiamati ad identificarsi) e odio (per i “nemici”). Queste dinamiche di accentuazione dell'appartenenza, con conseguente ostilità per “gli altri”, sono ricorrenti nella storia; coniugate con la violenza collettiva, organizzata, orchestrata da Stati e eserciti, spesso conducono a genocidi, guerre, campi di sterminio.
Se ci si identifica solo con le vittime “nostre”, chi commette la strage diventa semplicemente un mostro, fuori dai canoni di una comune umanità, protagonista di brutalità bestiale e incomprensibile. Che senso dare alla violenza stragista che ha colpito la Francia? Siamo vittime di un male insensato, incomprensibile, di cui non abbiamo alcuna responsabilità, frutto impazzito di un integralismo disumano? Sembrano andare in questa direzione le reazioni isteriche di politici e giornalisti. È un messaggio facile, che impone l'adesione e non richiede esami di coscienza: i cattivi sono gli altri. Ragionare così impedisce di chiedersi perché l'Europa e gli Stato Uniti siano odiati in diverse parti del mondo, perché diventano bersaglio di violenze. Nonostante ai politici piace presentare l'Occidente come la culla di democrazie garanti di libertà e giustizia, promotrici di pace e sviluppo, non è questa la visione che, in genere, si ha dei “nostri” governi in altre parti del mondo. Se si avesse la capacità di guardarci con gli occhi degli altri e di ascoltare le ragioni della violenza che subiamo, ci renderemo conto che la “nostra” narrazione degli eventi è arbitraria, faziosa, mistificante.
Controcorrente, mi assumo il compito di ricordare che Europa e Stati Uniti, nelle relazioni con altri parti del mondo, non sono stati, nel complesso, vittime ma piuttosto carnefici. Gli Europei sono tra i principali protagonisti del commercio di oltre una decina di milioni di schiavi africani. La preponderanza militare generata dal perfezionamento degli strumenti bellici ha permesso agli eserciti europei di esportare morte, massacri, sottomissione, dominio, lavori forzati, ed instaurare il dominio coloniale in ampissime parti del globo tra il Cinquecento e il Novecento. Al massacro dei popoli colonizzati sono seguite condizioni umilianti di resa. In Ghana, area che conosco bene, ad esempio, bruciano la capitale, fanno esplodere il mausoleo con i resti dei sovrani, pretendono che siano consegnati gli oggetti più sacri. Non è un caso limite ma la regola. Colonialismo e razzismo sono state le giustificazioni politiche e genetiche della perdurante inferiorizzazione di interi continenti.
Il passaggio dal colonialismo all'imperialismo non ha alterato la sostanza di un dominio, apparentemente meno evidente, ma ugualmente senza scrupoli, che non ha avuto remore a sostenere colpi di Stato contro governi eletti e ad appoggiare dittatori assassini. Il neocolonialismo neoliberista, sotto la retorica dello sviluppo e delle riforme strutturali ha depredato risorse, devastato territori e tagliato servizi sociali. Mentre le popolazioni di alcuni continenti languono in terre sempre più sterili o in discariche tossiche, benessere, comodità, agio e potere si accumulano dove si esercita il dominio militare. La ricchezza non può che generare invidia e ostilità quando è evidentemente il risultato di flussi commerciali iniqui, di uno squilibrio di potere che si alimenta con il sudore dei più deboli, con la progressiva spoliazione del loro ambiente.
A tutto questo, in Medio Oriente e Africa Settentrionale, si aggiunge la sistematica tendenza a bombardare e invadere a piacimento, scatenando guerre e instabilità che durano per decenni: Somalia (1992-1993), Afganistan (2001-), Iraq (2003-), Siria (2011-), Libia (2011-). Campagne militari decise ed orchestrate in Occidente che mietono vittime tra i civili ed alimentano spirali di violenza con la speranza di generare un governo amico o il controllo su una risorsa strategica. Chiaro i governi europei e statunitensi non sono gli unici responsabili: trovano complici e nemici ugualmente sanguinari nei capi e nei governi locali. Eppure, rispetto ad altri attori del conflitto, i potenti governi occidentali hanno l'aggravante di essere vissuti come invasori; di condurre una guerra aerea che semina morte indiscriminatamente; di assumere atteggiamenti verso le popolazioni locali che oscillano tra il disprezzo e il paternalismo; di essere invariabilmente tra i maggiori fornitori di armi alle parti in conflitto. L'illusione che si possa seminare terrore in giro per il mondo e confinarlo altrove è stata smascherata: le tragedie alimentate in giro per il mondo bussano alla porta di casa.
Il trattamento degradante dei migranti accentua il senso di ostilità per l'Occidente opulento, che respinge, costringe a viaggi insicuri, perseguita i rifugiati, ingabbia i profughi e poi li costringe all'ozio forzato. Il senso di discriminazione sociale ed economica permane nelle generazioni che crescono in Europa, rinchiuse in ghetti, continuo bersaglio di discorsi e atteggiamenti razzisti, privati di opportunità e riconoscimento. Non sorprende che buona parte degli attentatori parigini siano nati e cresciuti in Europa, in reti sociali perseguitate dalla polizia, emarginate dai servizi sociali, sfruttate dal capitale. Le categorie marginalizzate e vilipese, alla lunga, rispondono al disagio con la strage indiscriminata.
Quale è il valore dei morti occidentali (i tremila del 11 settembre a New York e i centotrenta dello scorso novembre a Parigi) rispetto a quelli che causano gli eserciti dei “nostri” stati democratici? Quanto valgono le centinaia di migliaia di vittime della guerra in Iraq, solo nei primi anni del conflitto, o le decine di migliaia in Afganistan o i tremila morti annuali di migranti che cercano di attraversare il Mediterraneo rispetto ai morti che sentiamo più vicini? Le guerra è sempre terroristica: sia quando si massacrano civili a Parigi sia quando, come è documentato, si sganciano bombe su feste di matrimonio o si uccidono ragazzini indifesi per divertirsi. Ad ottobre 2015 aerei occidentali hanno bombardato un ospedale di Medici Senza Frontiere, di cui erano state comunicate le coordinate che servivano a localizzarlo, causando 37 vittime. Se le vittime sono lontane, se non parlano la nostra lingua, se non professano la nostra religione, valgono meno?
Per convincersi che nella spirale di violenza che stanno alimentando governi, politicanti e fanatici religiosi, noi siamo vittime bisogna adottare il principio della incommensurabilità della violenza, ovvero ci si deve convincere che la violenza che subisco è più importante, più grave, più subdola, più cattiva, più malefica di quella che esercitano i “miei” soldati. Ci si deve convincere che i metodi violenti degli “altri”, ad esempio gli attentati suicidi, sono più malvagi della igienica guerra aerea o dei respingimenti dei barconi. Si deve credere che la violenza di chi dice di stare dalla mia parte sia più giusta, dettata dal buon senso, finalizzata alla pace, all'aiuto umanitario, alla rimozione di un dittatore, e quella degli altri non ha giustificazioni: pura, cieca follia. Quindi i miei morti valgono di più.
Il principio della incommensurabilità della violenza è etnocentrico e razzista. Acquista credibilità sociale solo perché siamo imbevuti delle ragioni di una sola parte e siamo inconsapevoli dei dolori altrui, che direttamente e indirettamente causiamo. Ma i morti sono morti; ogni famiglia li piange, ognuna nutre rancore e spesso voglia di vendetta. Le tattiche usate nella spirale di violenza sono quelle consentite dalla tecnologia militare: assurdo pretendere che i nemici aspettino pazientemente di essere uccisi dai bombardamenti umanitari; si ribellano e reagiscono.
Quello che si dovrebbe aver capito, dopo aver conosciuto la tragedia della guerra è che è foriera di distruzione e traumi che si sedimentano su più generazioni. Quello che si dovrebbe aver capito è che le spirali belliche fanno comodo a chi vende armi, a governi e presidenti che intendono restringere le libertà dei cittadini, a capi religiosi e politici che cercano di usare l'odio per il proselitismo. Quello che si dovrebbe aver capito è che le guerre le pagano le popolazioni in termini di morti, distruzione, oppressione.
Per ripudiare la guerra si devono piangere i defunti di tutte le parti con la stessa intensità, non solo per pietà umana ma anche perché un morto altrove rischia di diventare un morto a me vicino, nella logica della vendetta in un mondo globalizzato. Un'azione militare di cui non ho notizia, perché non ci raccontano i massacri che commettono i “nostri” eserciti altrove, rischia di trasformarsi nell'attentato che uccide un mio familiare, un mio vicino. I nemici non sono i migranti, non sono le popolazioni del Medio Oriente, non è una religione; sono piuttosto quelli che hanno seminato violenza e morte per decenni, a prescindere dal colore della loro divisa; quelli che vendono armi e finanziano eserciti di qualsiasi nazione; quelli che alimentano odio per tornaconto personale in tutti i luoghi. Alcuni dei guerrafondai che ci hanno portato la violenza a casa, ora piangono, ipocriti, presentandosi come vittime innocenti di una violenza incomprensibile.

Stefano Boni
Modena



La “buona scuola”/Solo retorica e burocrazia

Negli ultimi tempi mi è capitato di seguire diversi eventi istituzionali che riguardavano la scuola e il “mondo dei giovani”, questa categoria arbitraria, che dovrebbe redimere il nostro paese attraverso la venuta salvifica dell'”innovazione” in tutti i campi.
Ho assistito, andando in giro tra Montecitorio e Palazzo Madama, alla “Giornata delle Eccellenze”, alla proclamazione della “Capitale Italiana dei Giovani”, al cordiale incontro tra Stefania Giannini e Tibor Navracsics. Quest'ultimo, braccio destro del premier ungherese Orbàn, è il commissario europeo all'istruzione fortemente contestato, anche, tra gli altri, da Barbara Spinelli, per “aver appoggiato l'offensiva del proprio governo contro il pluralismo dei mezzi di comunicazione e l'indipendenza di numerose associazioni cittadine”.
In queste situazioni ho sentito spesso umiliate le intelligenze di professori e studenti, costretti a partecipare a una rappresentazione irrealistica della scuola, dove i primi della classe “meritevoli” vincono e sono premiati, e tutti gli altri, non gli ultimi, ma tutti gli altri, devono accontentarsi di “prendere esempio dai più bravi”. Così (non) rispondeva il presidente del Senato Pietro Grasso a una domanda sul problema della dispersione scolastica.
La rappresentazione che la scuola italiana dà di se stessa dentro i palazzi del potere assume spesso i toni di uno sciovinismo zoppicante. Si racconta ai più giovani che siamo i migliori anche se non abbiamo risorse, che all'estero abbiamo un successo strepitoso, che Roma è, malgrado i suoi problemi, la città più bella del mondo.
Ci si fa vanto dell'italianità in un italiano misero, che oscilla tra un linguaggio burocratico e un inglese superfluo, ma “smart”. “Innoviamo”, “apriamo start-up”, ci diamo delle “mission”. Dobbiamo essere “the best”, insomma. “Fuck all the rest”, il complemento sottinteso.
Molti rimproverano agli insegnanti non allineati di essere ideologici, come faceva giovedì scorso il pittore Giuseppe Gallo, che ha premiato i disegni di 56 alunni per il concorso “Disegniamo l'Intelligence” organizzato dal Dipartimento Informazioni per la Sicurezza in collaborazione con il Miur. I disegni, ha commentato Gallo, erano, sì, tutti belli, ma quelli “un po' troppo condizionati dai professori” lo erano meno. L'artista, che ha selezionato i più bravi d'Italia nel rappresentare i servizi segreti, ha scelto bei disegni, onore al merito, che ritraevano, ad esempio, spie giganti in piedi su un piccolo mondo su cui si fronteggiavano l'ISIS e Charlie Hebdo.
Alla cerimonia è stato proiettato anche un video. Un'animazione per raccontare ai ragazzi delle prime classi delle medie inferiori come funzionano i servizi segreti: una storia di fantasia in cui gli agenti italiani sventano un attentato terroristico al concerto di “Johnny White”, allo stadio Olimpico di Roma, mentre gli imam lanciano “la giornata della collera contro il sostegno occidentale alla repressione” (in sottofondo passano le immagini di piazza Tahrir gremita) e “qualcuno, nella comunità islamica di Roma, parla esplicitamente di martirio”. Grazie all'intervento dell'AISE (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) i “due magrebini” che avevano architettato l'attentato “vengono arrestati” proprio “mentre stanno per entrare in azione” all'Olimpico. “Chissà se è successo oppure no” ha commentato il direttore della Scuola di Formazione del Comparto Intelligence, al termine della proiezione.
Mentre s'insegna ai ragazzini che il terrore è “maghrebino”, ed è alle porte, di mafie, a Roma, si sente parlare soltanto nelle assemblee d'istituto, queste istituzioni di antica memoria che sono state le primissime palestre di partecipazione per tanti e, per diversi, anche le ultime.
Mi auguro che i ragazzi difendano con le unghie e con i denti gli spazi di democrazia dentro le scuole, e che li vivano attivamente, anche se tanti presidi e parecchi professori, sono, senza generalizzare, sempre meno inclini a concederli. E mi auguro che, chi le scuole le ha lasciate da un po', ma ha a che fare con gli studenti per lavoro o per attività politiche, o di volontariato, sappia interagire con i ragazzi senza paternalismo, in uno spirito sincero di collaborazione e solidarietà. Sappia riconoscere ai ragazzi delle superiori che solo loro, oggi, hanno il coraggio di scendere in piazza mossi dalla speranza, e non dalla disperazione. Di mettere insieme tutte le parole in cui credono, in modo ingenuo ma vero, mischiando la lotta alla militarizzazione dei territori con il diritto allo studio, la libertà di circolazione delle persone con l'antifascismo e il no all'accentramento dei poteri dei presidi.
Li ho incontrati ieri, al corteo contro la legge 107, tristi, una addirittura in lacrime, la polizia gli aveva impedito di arrivare a Montecitorio. Gridavano “assemblea assemblea”. Volevano parlare.
Prendiamo esempio da loro, anche se abbiamo finito la scuola da un pezzo. Rifiutiamo il diktat del “non essere ideologici”, rivendichiamo democrazia reale ovunque. Scriviamo, parliamo, insegnamo le lingue che sappiamo ai migranti, o agli aspiranti tali, mischiamoci, condividiamo tutto. Rifiutiamo il merito, la competizione e l'esclusione che ne deriva.
E, soprattutto, oggi più che mai, non cediamo, non crediamo alla politica della paura.

Giulia Beatrice Filpi
Roma



In ricordo di Guido Bertacco

Ho rinviato a lungo prima di scrivere questo ricordo del compagno Guido Bertacco scomparso già da alcuni mesi (marzo 2015). Aspettavo forse che qualche altro sopravvissuto del MAV (Movimento AnarchicoVicentino) prendesse l'iniziativa? Difficile, dato che ormai in giro non è rimasto nessuno o quasi, almeno per quanto riguarda la militanza. Oltre a Guido, nel corso degli anni se ne sono andati per sempre Anna Za, Laura Fornezza, Mario Seganfredo, Patrizia Grillo, Nico Natoli... E vorrei qui ricordare anche Giorgio Fortuna, sicuramente un libertario, presente fino alla fine alle iniziative contro il Dal Molin.
Qualcuno che aveva conosciuto le dure galere di stato per militanza ha poi cercato altrove un posto dove ricominciare a vivere; altri ancora sono semplicemente invecchiati...
Guido (assieme a Claudio Muraro e Rino Refosco, se non ricordo male) aveva partecipato all'esperienza milanese della Casa dello Studente e del Lavoratore. Un breve riepilogo: nell'aprile del 1969 gli studenti occupavano l'Università Statale di Milano in via Festa del Perdono. Quasi contemporaneamente veniva occupato un vecchio albergo a Piazza Fontana. Qui venne applicata una rigorosa autogestione e l'ex albergo ora denominato “Casa dello Studente e del Lavoratore” subirà presto sia gli attacchi dei fascisti (con il lancio di alcune molotov) che una indegna campagna di stampa criminalizzante. Lo sgombero per mano della polizia scatterà all'alba, come da manuale, per concludersi con numerosi arresti. In un libro fotografico di Uliano Lucas c'è l'immagine del processo ad alcuni anarchici in cui si riconoscono un paio dei sopracitati vicentini, tra cui Claudio Muraro e un giovane che assomiglia a Guido Bertacco, in qualità di pubblico rumoreggiante, a pugno chiuso, per il momento non ancora imputati. Secondo una leggenda locale, Guido sarebbe partito da Vicenza ancora marxista-leninista per ritornarvi anarchico. A Vicenza comunque i tre fondarono immediatamente il MAV e aprirono in Contrà Porti una sede, destinata ad essere perquisita spesso, soprattutto dopo gli eventi del 12 dicembre. I visitatori venivano accolti da uno striscione un pochettino situazionista “Date a Cesare quel che è di Cesare: 23 pugnalate!”. Del resto era questo il clima dell'epoca.
Di tutto l'impegno di una quindicina di compagni (più o meno sempre gli stessi con qualche abbandono e qualche rientro in corso d'opera) tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta resta poco. Forse i reperti più consistenti (entrambi gelosamente conservati dal sottoscritto) sono una bandiera rossa con A cerchiata nera (non proprio ortodossa, ma ha sventolato ai funerali del “Borela”, ardito del popolo di Schio) e una raccolta di volantini di cui credo non esistano altre copie. Sono quelli distribuiti nel corso di un paio d'anni (1971-1972), regolarmente, almeno uno ogni 15 giorni, davanti al locale manicomio (così era chiamato, senza eufemismi) in epoca pre-Basaglia; quasi una lotta d'avanguardia per chi aveva letto, se non “La maggioranza deviante” dei due Basaglia, Franco e Franca, almeno “Morire di classe”, bel libro fotografico sulla terribile condizione manicomiale. Denunciavamo le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi (”disadattati” secondo l'ideologia dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Dall'interno c'era chi ci sosteneva, informava, guidava: il compianto medico Sergio Caneva, fedele alla sua giovinezza partigiana, destinato a morire proprio mentre teneva una conferenza sulla Resistenza.
Il lavoro del MAV era stato apprezzato dai compagni del Germinal di Carrara (da non confondere con l'omonimo gruppo anarchico -e giornale- di Trieste con cui comunque si era in contatto) dove avevamo mandato copia dei volantini e degli articoli comparsi sulla stampa locale. Alfonso Failla, per anni direttore di Umanità Nova e Umberto Marzocchi (volontario in Spagna nella Colonna Italiana affiliata alla CNT-FAI con Camillo Berneri; toccò a lui nel maggio 1937 riconoscerne il corpo dopo che era stato assassinato dagli stalinisti) ci invitarono per prendere contatti ed eventualmente allargare il discorso contro le istituzioni totali.
Partimmo in quattro nel novembre del 1972. Oltre a me e Guido (l'unico con la patente e l'auto, gli altri tre eravamo tutti motociclisti) facevano parte della delegazione Stefano Crestanello e Mario Seganfredo (detto “Mario Cavejo” per evidenti motivi di chioma) che quattro anni dopo perì in un incidente stradale. Dopo aver deciso di cogliere l'occasione per visitare anche altri gruppi lungo la strada, ci stipammo nell'auto di Guido. Prima tappa Reggio Emilia (o era Parma?) dove, nella biblioteca del locale gruppo anarchico, ci accolse un incredibile compagno ottantenne. Aveva fatto tutto: l'ardito del popolo, la Spagna, la Resistenza, l'USI...
Conservo il ricordo di un intenso abbraccio tra lui e Guido, quasi un passaggio di testimone. Alla notte, dopo aver fatto la conta, Guido e Mario dormirono in macchina (dove c'era posto per due), io e Stefano all'addiaccio nel sacco a pelo. In seguito ci demmo il cambio.
Il giorno dopo, sosta in un bar sulla sommità di un passo appenninico dove percepii una sensazione da “confine del mondo”. Ricordo delle rocce rossastre, color ruggine (erano forse le Metallifere del mistico ribelle Lazzaretti?) e Mario suonò un pezzo rock (suscitando qualche sguardo perplesso negli avventori, peraltro cordiali) sul vecchio pianoforte che completava l'arredo. Poi Carrara: due giorni a parlare, discutere, nella mitica sede del Germinal con Failla e Marzocchi, combattenti inesausti.
Alla parete la risoluzione di Kronstadt (quella del 1921) e un'immagine non so se di Rosa Luxemburg o Ida Mett.
Dopo una discussione, amichevole ma tesa, su Che Guevara (che io comunque difendevo a spada tratta, con spirito ecumenico), Marzocchi mi regalò un libro su Malatesta. A Genova pernottammo da un amico di Guido, un musicista. Dopo Milano, Mario scese nel cuore della notte proseguendo per Bologna, dove aveva una morosa, in autostop. La nostra scorribanda si concluse a Peschiera. Giungemmo in tempo per partecipare alla manifestazione davanti al carcere militare che in quel periodo ospitava soprattutto obiettori totali, in maggioranza Testimoni di Geova e anarchici (tra cui un nostro compagno vicentino, Alberto P.). Ci fu anche una carica dei carabinieri. Da Carrara portammo a Vicenza un pacco di manifesti (poi denunciati e sequestrati) per Franco Serantini, il compagno assassinato a Pisa qualche mese prima (maggio 1972). Scoprii al ritorno che lo Stato si era premunito di avvisare la mia famiglia del fatto che mi trovavo a Carrara in un covo di sovversivi (il Germinal) e non, come avevo elegantemente detto, a Padova per ragioni di studio (all'epoca alternavo periodi di facchinaggio con la militanza e improbabili percorsi universitari). Gentile da parte sua, lo Stato intendo.
Che altro dire di Guido? Forse di quella volta che lo incontrai in corso Palladio con un paio di bastoni diretto al liceo dove il giorno prima i fascisti avevano sprangato alcuni compagni (in particolare, il futuro storico Emilio Franzina e Alberto Gallo, figlio del noto avvocato, figura di spicco della Resistenza vicentina). Mi invitò a partecipare alla sua “spedizione punitiva” e sinceramente non me la sentii di lasciarlo andare da solo “incontro al nemico”, ma in cuor mio sperai ardentemente che i fasci si fossero presi un giorno di ferie (anche perché qualche giorno prima era toccato anche a me di partecipare ad uno scontro dove me la ero cavata con qualche legnata, in parte restituita).
Se penso a Guido lo rivedo in piedi, in tuta da imbianchino, barba e capelli lunghi, aspettare la figlioletta all'uscita dalla scuola elementare di via Riello. Immancabilmente, ogni giorno. Proletario, ribelle e rivoluzionario, senza mai perdere la tenerezza.
Ci mancherà.

Gianni Sartori
Nanto (Vi)



L'anarchia per me: il più autentico umanesimo

Caro Paolo Finzi e cara redazione di A,
mi chiamo Enrico Bonadei e sono vostro abbonato da circa un anno. Da tempo voglio scrivervi questa lettera, ma sono talmente tante le cose che ho da dirvi che non so mai da dove cominciare. Comincio magari col presentarmi...
Ho 34 anni, vivo a Parigi da una decina d'anni (con qualche pausa e numerose andate e ritorno tra qui e Bergamo, la città dove sono nato e cresciuto). Ho conseguito una laurea e un dottorato in Letteratura francese tra la Sorbona e l'Università Statale di Milano. Ho pubblicato due raccolte di racconti e per un po' mi sono considerato scrittore. Da quasi cinque anni lavoro nella cooperativa sotto casa, un negozio di alimentazione biologica nel quale sono capitato per caso, in cerca della minima stabilità ed independenza economica, dopo aver lasciato l'ambiente accademico milanese sbattendo tutte le porte che potevo.
Da qualche anno, tre o quattro, ho cominciato ad interessarmi al pensiero anarchico, che stranamente non mi era mai capitato di esplorare nel corso dei miei studi, nel divagare dei miei interessi e delle mie passioni. Ricordo con emozione il primo incontro col più bello dei pensieri – l'Anarchia –, nelle pagine di un libro di Hans Magnus Enzensberger, La breve estate dell'anarchia. La sensazione che ho provato allora ed è andata precisandosi nelle ingorde letture che sono seguite posso provare a descriverla solo per immagini: è stato il tassello mancante di un puzzle di idee fino allora vive e appassionate, ma inarticolate tra loro, disperse, frammentarie; è stato l'incontro di una corrente d'aria pura e potente, venuta a gonfiare le vele di un'imbarcazione che cominciava a sentirsi inutile e perduta; è stato il calore di un abbraccio d'amicizia e fiducia grande come l'umanità; la determinazione ad affermare e affermarsi nell'ambito di un pensiero del tutto libero, poliedrico, multiforme, irriducibile ad una definizione unica e precisa, eppure inconfondibile come la compagnia dei migliori amici.
Ricordo l'emozione di ricevere A a casa mia (prima la compravo alla libreria Publico), la passione e la curiosità con cui la divoravo sillaba dopo sillaba, senza trasciarne una fino in fondo alla lista dei Fondi neri.
Ma quello che mi motiva oggi a scrivervi, sono purtroppo gli eventi di venerdì scorso qui a Parigi, la serie di attentati di cui politici e media non smettono di parlare, accumulando propositi fasulli, manipolatori, ancora più terroristici delle sparatorie e degli attentati suicidi, frasi come “ci attaccano perché rappresentiamo la libertà e la democrazia”, “ci aspettano tempi duri: dobbiamo imparare a difenderci”, per non parlare della decisione del governo francese di intensificare i bombardamenti sulla Siria, la parola “rappresaglia” adoperata dal primo ministro Manuel Valls per descriverli.
Vi scrivo per ringraziarvi di tenere viva un'idea – l'Anarchia – che considero un'isola di lucidità e intransigenza morale, il più onesto approdo e la più interessante fucina di innovazione nell'ambito della migliore tradizione umanistica, che attraversa i secoli e sono convinto resisterà anche ai tempi sconvolti che ci apprestiamo a vivere.
Vi ringrazio per la chiarezza di visione che la vostra attività mi ispira, permettendomi di conservare serenità, lucidità e fermezza, anche nell'atto di rifiutare le sospette manifestazioni di cordoglio nazionale, come il minuto di silenzio indetto per ieri a mezzogiorno (lunedì 16 novembre). Mi sono sentito saldamente chiaro e consapevole nello spiegare ai colleghi e ai clienti del negozio in cui lavoro che non me la sentivo di commemorare alcune morti, per quanto atroci, vicine e recenti, dimenticando tutte le altre, distanti, trascurate, sminuite o occultate dagli strumenti della disinformazione, prime tra tutte le vittime dei “nostri” bombardamenti di rappresaglia in Siria. E ho avuto la felice impressione che le mie parole non cadessero nel vuoto, pur tra quelli che al minuto di silenzio partecipavano.
E quanto mi ha fatto bene, in tanti altri frangenti ora purtroppo adombrati dall'attualità, il fatto di potermi sentire anarchico, e a volte anche di dirlo a chiare lettere!, nei contesti più disparati e inattesi, spesso incontrando più sguardi curiosi, interessati, amichevoli, di quanto mi sarei aspettato.
Per cui vi ringrazio e vi faccio tutti i miei complimenti. Vi spedisco per posta uno miei libricini di racconti, nella speranza che vi piaccia. [...]
Non vedo l'ora di leggere il vostro prossimo numero...

Enrico Bonadei
Parigi (Francia)




I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Rolando Paolicchi (Pisa), 10,00; Guido Salamone (Roma) 10,00; Antonino Pennisi (Acireale – Ct) 20,00; Diego Graziola (Morgex – Ao) 10,00; a/m Amedeo Bertolo (Milano) lascito di Gianni Bertolo, 1.000,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Giovanni Gessa, 500,00; Stefano Baraldi (Caluso – To) per versione pdf, 0,50; Rolando Frediani (Livorno) 10,00; Franca Bombieri (New York – USA) 55,00; Patrizia Grassiccia (Como) 10,00; Gennaro Pilla (Castenaso – Bo) 30,00; Agostino Perrini (Brescia) 10,00; Nicola Piemontese (Monte Sant'Angelo – Fg) 20,00; Piero Cagnotti (Dogliani – Cn) 10,00; Roberto D'Agostino (Torino) 10,00; G. Soriano (Firenze) 50,00; Libreria San Benedetto (Genova-Pegli) 5,70; Gino Perrone (Brindisi Casale) ricordando Paolo Friz, 10,00; Associazione culturale Alessandriacolori (Alessandria) 10,00; Anna Passerini (Ponte Valtellina – So) 10,00; Massimo Teti (Roma) 40,00; Santi Rosa (Novara) 5,00; Simone Gatti (Borgo Val di Taro – Pr) 10,00; Rolando Paolicchi (Pisa) 10,00; Angelo Roveda (Milano) 20,00; Francesco Argenziano (Imola – Bo); 10,00; Antonio Ciano (Gaeta) 20,00; Francesco Cherubini (Firenze) 20,00; Bianca Favaro (Venezia) 20,00; Giovanna Gervasio Carbonaro (Bagno a Ripoli – Fi) 50,00; Fulvio Casara (Venasca – Cn) 10,00; Pietro Busalacchi (Napoli) 10,00; Alessandro Scimone (Messina) 4,00; Andrea Stella (Bologna) 10,00; Antonello Cossi (Sondalo – So) 10,00.; Centro sociale “Libera” (Modena) in occasione dell'iniziativa del 19.12.2015 in ricordo di Giuseppe Pinelli, 200,00; Giampaolo Pastore (Milano) 20,00; Renzo Sabatini (Roma) 300,00; Claudio Neri (Roma) 20,00; Alessandro Sancamillo (Latina) 10,00; Giorgio Bigongiari (Lucca) 20,00; Claudio Albertani (Città del Messico – Messico) 100,00; Agnesina Pozzi (Lagonegro – Pz) 20,00; Luigi De Maio (Malnate – Varese) per PDF, 5,00; Mario Alberto Botta (Aymavilles – Ao) 15,00; Pietro Busalacchi (Napoli) 10,00; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa (Tv) 200,00. Totale € 2.960,20.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Andrea Ridolfi (Castiglione di Cervia – Ra); Luciana Castorani (Malagnino – Gr) 500,00; Oscar Greco (Rende – Cs); Marco Galliari (Milano); Loriano Zorzella (Verona); Fabrizio Tognetti (Larderello – Pi); Massimo Merlo (Lodi); Marcella De Negri (Milano); Alfredo Gagliardi (Ferrara) 200,00; Cariddi Di Domenico (Livorno) ricordando Alfonso Failla e Umberto Marzocchi; Valeria Nonni (Ravenna); Nicola Farina (Lugo – Ra) 150,00; Manuele Rampazzo (Padova); Giorgio Sacchetti (Arezzo); Tiziano Viganò (Casatenovo - Lc); Loredana Zorzan (Porto Garibaldi - Fe); Gianlorenzo Tondelli (Castelnuovo ne' Monti - Re) 90,000: Pietro Vezzini (Modena); Fabio Palombo (Chieti) 300,00; Luigi Natali (Donnas – Ao); Stefano Quinto (Maserada sul Piave – Tv); Gianpiero Bottinelli (Massagno – Svizzera); Giancarlo Gioia (Castellammare – Ap); Angelo Tirrito (Palermo); Giancarlo Baldassi (Sedegliano – Ud); Luca Denti (Oslo – Norvegia); Antonio Orlando (Cittanova – Rc); Vittorio Golinelli (Bussero); Gian Paolo Zonzini (Borgo Maggiore – Repubblica di San Marino); Antonio Pedone (Perugia) ricordando Aurelio Chessa e Pio Turroni; Vittorio Golinelli (Bussero); Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa – Tv); Tomaso Panattoni (Milano). Totale 4.040,00.