Rivista Anarchica Online


 


Manifesti di pace
per chiudere con la guerra

I manifesti pacifisti occupano un posto speciale tra i molti strumenti usati per la promozione di una cultura di pace e per la protesta contro i vari aspetti di una subcultura di guerra e di violenza. I manifesti spesso attribuiscono un volto memorabile alle questioni sociali e politiche e possono esprimere l'essenza di un messaggio tramite immagini forti. La gamma di metodi e movimenti che operano in modalità nonviolenta per la pace e la giustizia sociale e solidale sono evidenziati nella qualità artistica e creativa e nelle informazioni, mirate ad esprimere il concetto specifico, contenuto nei manifesti. Questo libro (Manifesti raccontano... Le molte vie per chiudere con la guerra, a cura di Vittorio Pallotti e Francesco Pugliese, Grafiche Futura, Trento, 2014, pp. 200, € 20,00) riporta una piccola selezione di manifesti che evidenzia alcuni dei temi e delle idee centrali delle azioni e delle iniziative di pace in Italia e nel mondo. Questa raccolta di manifesti per la pace è una piccola porzione del vasto e variegato arcipelago nonviolento e pacifista ed è solo una minima parte di tutti i manifesti che sono stati stampati. Il libro si propone anche di fornire ispirazione a coloro che, attualmente, nel nostro presente, e in rapporto alle prossime generazioni, si impegnano sulla vasta gamma di metodi, esperienze e iniziative possibili per creare un mondo di pace e attualizzare un'utopia concreta di giustizia sociale e solidale, di gestione nonviolenta e pacifica di conflitti e contrasti, spaziando tra vasti temi e argomenti di sempre più schiacciante attualità. Il libro tratta di disarmo nucleare, dagli anni '50 ad oggi, tramite le marce per la pace e l'obiezione di coscienza, fino a giungere ad una vasta panoramica e considerazione dei diritti umani, delle difese alternative, del divario tra nord e sud del mondo, spaziando da schede descrittive sull'ONU e le costituzioni per la pace ad argomenti relativi all'ecologia e all'ambientalismo ecopacifista. Educare alla pace - anche tramite i manifesti che raccontano - significa trasmettere concetti di mondialità, di giustizia, di solidarietà, nel rispetto per l'altro, nell'educazione alla cooperazione e all'interdipendenza tra popoli, genti e minoranze, alla democrazia, alla responsabilità di tutti per tutti, alla risoluzione dialettica e nonviolenta di contrasti e conflitti.
A questo proposito, gli autori citano nella bibliografia testi recenti e innovativi, tra cui “Il pensiero delle differenze. Dall'intercultura all'educazione alla pace” e “Il dialogo per la pace. Pedagogia della Resistenza contro ogni razzismo” (Mimesis, 2015), maturati in ambiti intellettuali orientati alla nonviolenza, alla risoluzione dei conflitti e all'antifascismo, ossia al superamento di qualsiasi forma dittatoriale e autoritaria della società. Grande rilievo meritano i capitoli riguardanti l'educazione alla pace e relativi all'ecologia e all'ambientalismo ecopacifista, in quanto “lottare contro la guerra significa lottare per l'ambiente”. Infatti ormai si parla di biocidio e geocidio, perché è in atto una devastante guerra contro la natura e la terra. Per questi motivi è sempre più urgente pensare a nuovi modelli di sviluppo e stili di vita sobri e alternativi, con uno sforzo della ragione, un innovativo pensiero capace di interrogarsi sulla ricerca e lo studio delle potenzialità implicite e delle alternative possibili, perché progresso è tutto ciò che va in direzione della pace e della libertà ed è compatibile con la solidarietà, l'equilibrio ecologico e l'armonia universale. La riconversione ecologica dell'economia è una necessità vitale per il pensiero ambientalista e pacifista, per una sobrietà creativa, perché dove è degradata la natura subentra anche il degrado dell'umanità, con l'ingiustizia, la violenza, la guerra, la morte. Il libro offre una ricca e dettagliata panoramica sui molti aspetti della pace e dei movimenti pacifisti, tramite saggi istruttivi e un'ampia bibliografia contenente libri e articoli in italiano e in inglese. Molti di questi testi sono stati scritti da Francesco Pugliese - autore del notevole volume riccamente illustrato dal titolo “Abbasso la guerra. Persone e movimenti per la pace dall'800 ad oggi” - e il materiale riguardante i manifesti è stato in gran parte prodotto da Vittorio Pallotti, realizzando così un felice risultato, il libro, nato dalla stretta collaborazione tra due esperti in ambiti intimamente correlati. Nella prefazione al libro, Peter Van Den Dungen, coordinatore generale della rete internazionale dei musei per la pace e Joyce Apsel, Università di New York, sottolineano che il 2014 è l'anno della commemorazione del centesimo anniversario di una delle più devastanti guerre di tutti i tempi e che ha avuto un profondo effetto nella storia umana e ha prodotto un'altra guerra catastrofica e, successivamente, la guerra fredda, con la minaccia delle armi di distruzione di massa e dell'apocalisse nucleare. La chiave per un crescente movimento pacifista per il disarmo, ampiamente illustrato dai manifesti per la pace, consiste nell'educare la società e le persone a trasformare in senso positivo le loro vite. Questo altro obiettivo deve realizzarsi tramite la cessazione della produzione della vendita di armi e la trasformazione della società verso la creazione di risorse che arricchiscano l'esistenza mediante l'educazione, i programmi sociali, la creatività, i nuovi modelli di sviluppo ecosostenibile, improntati sulla riconversione ecologica e sull'utilizzo delle energie rinnovabili e delle risorse che l'ambiente offre naturalmente all'umanità, per chiudere definitivamente con il nucleare civile e militare, per affermare, con la forza della verità, la nostra obiezione e il dissenso alle guerre imperialiste, fomentate e manovrate dalle multinazionali, dalle superpotenze economiche e politiche, dai mercati dell'alta finanza e dai signori dell'atomo.

Laura Tussi



Municipalismo libertario e autogoverno/
Le proposte di Bookchin

Pubblichiamo stralci della prefazione di Salvo Vaccaro al libro di Murray Bookchin Democrazia diretta (Elèuthera, 2015, pp. 104, 12,00).

Murray Bookchin (1921-2006) è stato uno dei pensatori radicali più influenti del XX secolo. Le sue idee, maturate nel corso di decenni in cui ha saputo intrecciare in maniera feconda attività politica militante e riflessione teorica, sono oggi diventate pratiche quotidiane diffuse in vari ambienti del pianeta, anche laddove nessuno ha mai letto un rigo dei suoi libri.
La sua attività politica e sindacale nell'immediato secondo dopoguerra ha consentito a Bookchin di comprendere dinamiche collettive cruciali per ogni progettualità politica, dandogli rifugio dalle astrattezze concettuali e dalle inconcludenze tentennanti tipiche di ogni intellettuale che voglia restare «puro» rispetto alle contaminazioni della politica quotidiana. In essa, Bookchin ha saputo progressivamente distanziarsi dalla sua origine marxista e trockista per avvicinarsi sempre più alla visione libertaria e anarchica sia del rapporto con il mondo, sia delle forme organizzative con cui attivare processi di trasformazione sociale, ancor prima che politica.
In parallelo, la sua formazione da autodidatta gli ha permesso di costruirsi una solida cultura filosofica, politica, sociologica, storica, antropologica, al passo con il consolidato teorico della seconda metà del secolo scorso. Il suo ancoraggio nella cultura dialettica hegelo-marxiana lo ha avvicinato ai teorici di quella che fu denominata Scuola di Francoforte, ponendosi come uno dei suoi epigoni più interessanti quanto più eccentrica fu la sua collocazione tanto verso i Francofortesi, quanto verso il marxismo politico di matrice teorica.
I suoi lavori, ormai tradotti in tante lingue, spaziano dalla ricerca storica a quella antropologica, dalla ricostruzione delle forme sociali di urbanizzazione (dalla polis alla metropoli passando per i comuni medievali) ai temi più prettamente politici di segno anarchico, sino alla recente raccolta di alcuni suoi testi dall'emblematico titolo The Next Revolution, curata dalla figlia Debbie insieme a Blair Taylor. L'opera sua più celebre è The Ecology of Freedom, in cui mette a frutto la sua intensa partecipazione ai movimenti ambientali, inaugurando tuttavia una torsione teorico-politica non indifferente, poiché Bookchin disloca il nesso tra uomo e natura, che rappresenta il focus di ogni critica ecologica al manifesto moderno stilato da Bacone, alla radice del rapporto di dominio che pervade il rapporto dell'uomo con l'altro uomo, con decenni di anticipo rispetto alle visioni divulgative di Vandana Shiva o di Naomi Klein. La disponibilità, assoluta o conflittuale, con cui l'umanità tratta la natura si iscrive all'interno di una cornice più ampia in cui l'umano dispone dell'altro umano in senso prettamente politico, dando luogo a una specifica forma di vita che noi definiamo società. Ecco perché, secondo Bookchin, ogni tesi ecologista che reinterpreti e reinventi un rapporto tra uomo e natura, tanto nella concettualità quanto nella pratica, è profondamente sociale perché socialmente costruita. E tale costruzione sociale delinea il campo della politica non come arte del governare assegnata alle varie istituzioni che si sono succedute nel corso dei secoli, bensì come modalità di organizzazione sociale volontariamente progettata e costruita nel concorso conflittuale di soggetti consapevoli e rischiarati nel dialogo permanente di ragioni, argomentazioni e obiezioni critiche.
Il lavoro che viene qui riproposto – al di là di qualche sporadico passaggio logorato dall'usura del tempo in frenetica accelerazione nel corso dei recenti, ultimi anni (ma basta sostituire i Grünen tedeschi, antesignani di tutti i vani tentativi di creare un partito-non-partito, con i greci di Syriza o con gli spagnoli di Podemos e la critica non muta di segno né fallisce il bersaglio, in relazione alla potenza corruttiva e vendicativa del potere politico una volta integrati nel sistema istituzionale, come peraltro ebbe ad affermare Bookchin nei suoi testi più tardi)1 – si concentra su una teoria politica dai forti risvolti pratici che segnano il lascito politico di Murray Bookchin. Sotto il titolo di Democrazia diretta, leggiamo alcuni dei testi centrali per focalizzare tanto la sua filosofia politica del Communalism, quanto la sua pratica sperimentale del municipalismo libertario ovverossia del confederalismo libertario.
Con Communalism, Bookchin intende offrire una linea di fuga affermativa alle istanze rivoluzionarie e radicali che si agitavano lui vivente e si sono agitate dopo la sua scomparsa, praticando concretamente modalità di agire politico e sociale che Bookchin aveva sottolineato e anticipato nei suoi scritti, senza volerne fare un profeta suo malgrado. In effetti, pratiche adottate da movimenti quali Occupy Wall Street, gli Indignados, alcuni aspetti delle rivolte arabe, ecc. risentono pur senza citarle delle suggestioni offerte da Bookchin in una miriade di interventi e di articoli scritti per la stampa radicale, rivoluzionaria e anarchica nel corso della sua esistenza, tutti segnati da una mobilitazione dal basso verso l'alto, da una acquisizione di consapevolezza della propria forza (empowerment sociale e politico, non solo di gender), dal ridimensionamento pensato delle formazioni istituenti un corpo burocratico e leaderistico, dai processi decisionali partecipati, diretti (face-to-face) e orizzontali, dalla rotazione delle cariche rappresentative immediatamente controllabili e revocabili, dalla concatenazione di luoghi politici decentralizzati a sfere concentriche crescenti e interdipendenti che coprono territori più ampi e coinvolgono quantità di individui sempre più numerose (sebbene Bookchin, a differenza dell'anarchismo e delle pratiche dei movimenti recenti orientati ala condivisione per consenso, si pronunci a favore di un processo decisionale su base maggioritaria). Si tratta di ipotesi riscontrabili in ogni autore anarchico che si rispetti, talora adottate in tormentati frangenti storici (la Commune di Parigi), in momenti frammentari e a singhiozzo (la rivoluzione spagnola del 1936), che Bookchin sistematizza in una cornice generale che recepisce la dura lezione delle rivoluzioni statuali dell'era moderna, sia di quelle che hanno dato vita ai sistemi liberali rappresentativi, sia di quelle che hanno dato vita a sistemi totalitari quali il leninismo realizzato o il maoismo istituito.
Il Communalism, quindi, si propone come una teoria politica che raccoglie l'eredità della spinta collettiva di una politica rivoluzionaria, adottando pratiche libertarie che prevengano e neutralizzino le derive fisiologiche connesse alla chiusura statuale, elitaria (non importa se di classe, di partito o quant'altro), in ultima analisi gerarchica e autoritaria. «Il Communalism rappresenta una critica della società gerarchica e capitalista nel suo insieme»2. Di questa lunga e nobile tradizione, bacata sin dalla fonte come preconizzato dal dissidio Marx-Bakunin nella I Internazionale e come testimoniato dalle critiche anarchiche in tempo reale al sovietismo leninista della rivoluzione russa, a Bookchin interessa principalmente la dimensione collettiva della trasformazione sociale e politica, giacché non può esistere alcuna proposta politica che non sia collettiva nel suo respiro e nel suo protagonismo. E con ciò Bookchin ci invita a distinguere sempre e comunque una dimensione della politica potenzialmente estranea, differente e conflittuale con una dimensione statuale, sempre in agguato per catturarla e appiattirla su di essa3.
Oggi è tanto più importante sottolineare tale dimensione communalista, che racchiude in sé lo spirito del comune, dei beni comuni e del comunismo come filosofia di vita (e non come progetto politico reale), quanto più si va affermando - in inquietante parallelo con lo svuotamento della politica da parte di egemonie e poteri forti che hanno catturato la politica all'interno di logiche mercatiste declinate secondo l'attuale congiuntura di finanziarizzazione dell'economia politica dominante, quella capitalista - una ipotesi di fuoriuscita rivoluzionaria legata alla sommatoria caotica ma causale, organizzabile puntualmente ma informalmente, di prese di posizioni individuali, di moltitudini tanto più singolari quanto più invisibili dai circuiti di osservazione e controllo che si alimentano di reti mediatiche e digitali altrettanto invisibili e pervasive. Bookchin polemizza fortemente, magari eccessivamente, nel suo libro Social Anarchism or Lifestyle Anarchism: An Unbridgeable Chasm del 1995, con un anarchismo ridotto, a suo avviso, a stile di vita, a forma impolitica sempre pronta ad attaccare frontalmente lo stato e le sue istituzioni ma solamente di tanto in tanto, disdegnando un lungo e paziente lavorio sul terreno per favorire, invece, soluzioni multi-individuali di fuga dal reale ormai inesorabilmente catturato e illiberabile. [...]
Beninteso, quando il Communalism bookchiniano insiste sui processi storici di mutamento delle forme di vita associate offre idee per il presente e non mere ricostruzioni accademiche, invitando ognuno a decostruire immaginari sedimentati in pratiche ordinarie di esistenza avvilente per ricostruire immaginari inediti da colmare in pratiche alternative di vita, di produzione, di associazione, di consumo, di affettività, e via continuando. Ma con la consapevolezza che tale duplice fatica acquista senso se diviene comune, ossia condivisa, partecipata, collettiva. In altri termini, la diffusività di una trasformazione sociale dal basso che ripudia la via istituzionale, utile solo al ricambio delle élites dominanti, non significa un autocompiacimento di una micro-politica interstiziale e resistente, quanto la destituzione (di senso nell'immaginario simbolico quotidiano ma anche di presa efficace sulle esistenze) e la contestuale espansione di ambiti di empowerment a livello societario, incluso la gestione quanto più possibile autonoma di territori di vita in comune, beninteso in una conflittualità altrettanto diffusa socialmente, immune dalle seduzioni della politique politicienne.
Qui entra in gioco il côté sperimentale proposto da Bookchin con il municipalismo libertario, magari modellato sul modello americano e quindi un po' distante dalle usuali morse statuali contro le quali concepire una partecipazione radicale sui territori che arrivi persino a gestire non tanto pezzi di governo degli enti locali, ma comunque erodere potere politico, strappare amministrazione di beni comuni (oltre il pubblico e il privato, sloganisticamente parlando), condizionare dal basso le politiche dei partiti ufficiali, affiancare le istituzioni ufficiali con luoghi politici condivisi e partecipati che elaborano politica orizzontalmente e dal basso. «Immaginava che questo autogoverno diventasse sempre più forte mentre si solidificava in un «potere duale», che avrebbe sfidato e alla fine smantellato il potere dello Stato-nazione»4. Una progettualità politica a servizio di un immaginario sociale forgiato da una cittadinanza attiva che non coincide minimamente con la cittadinanza recintata nei limiti del cerchio rappresentativo, anzi contro-effettuata in senso radicale e debordante limiti e recinti imposti.
Si tratta di una proposta che va oltre l'indubbio spirito di resistenza che alimenta oggigiorno la gran parte delle ipotesi politiche non-violente che cercano di coniugare politica e impegno civico, radicalità e singolarità esistenziale, poiché è ovvio che senza un profondo coinvolgimento interiore che modifica l'ethos di ciascuno non si va da nessuna parte, anzi generalmente si è trasportati in direzioni lontane dalla libertà e della liberazione. Ma di contro, senza una declinazione plurale di tale ethos singolare, resistere è meritorio ma insufficiente a trasformare la realtà in senso libertario, il che è concepibile solo in una dimensione collettiva gradualmente e faticosamente conseguibile, tenendo conto dei rapporti di forza e degli immaginari da scardinare e da rielaborare. Ovvio che la cornice entro cui inquadrare il communalism e la pratica sperimentale del municipalismo libertario o della democrazia radicale diretta o del confederalismo autogestionario o del potere politico parallelo (dual power)5 sia quella del conflitto con le gerarchie statuali da un lato, e dall'altro con il predominio delle norme capitaliste di mercato che sovradeterminano non solo le dinamiche economiche ma oggi, in piena era neoliberale, anche le pratiche di soggettivazione in campi esteriori all'economia di mercato.
Indubbiamente, le esperienze di autogoverno territoriale di segno politico sono diversificate nel panorama mondiale, si va dal contropotere assembleare rispetto alle amministrazioni locali alla conquista elettorale degli enti locali mantenendo un controllo di base sugli eletti, alla sottrazione di territori alla cattura statuale, secondo il modello zapatista. Bookchin concepisce il municipalismo libertario come un primo tassello di riaffermazione della politica sull'economico, sulla tecnica dei numeri aridi che imporrebbero soluzioni irriflesse e autoveridiche, senza dare adito a pubblico dibattito, cui affiancare una serie di altri pilastri di autogoverno territoriale sul piano delle autogestioni di attività produttive e di consumo, nonché di altre istituzioni quali la sanità e l'istruzione. Ne sono esempi le cliniche autogestite degli zapatisti in Chiapas, le pratiche rurali di autoproduzione e consumo sostenibile per quanto concerne il ciclo alimentare, le energie rinnovabili e non invasive o l'uso delle acque potabili, sino alle miriadi di scuole/non-scuole libere ed extraistituzionali che si muovono sul terreno non solo pedagogico seguendo variegate linee di pensiero. [...]

Salvo Vaccaro

Note

  1. Murray Bookchin, The Next Revolution. Popular Assemblies and the Promise of Direct Democracy, a cura di Debbie Bookchin e Blair Taylor, Verso, London-New York, 2015, in particolare p. 38.
  2. Ibidem, p. 19.
  3. Ibidem, p. 47.
  4. Debbie Bookchin, Bookchin: l'eredità vivente di un rivoluzionario americano, intervista di Federico Venturini, 2 marzo 2015, http://zcomm.org/bookchin-living-legacy-of-an-american-revolutionary.
  5. Murray Bookchin, The Next Revolution, cit., pp. 78 ss.


Gli zolfatari siciliani
e il barbaro dominio del capitale

Scriveva Vincenzo Consolo che “dallo zolfo, per lo zolfo, è nata e cresciuta in Sicilia una nuova categoria di lavoratori; nelle zone zolfifere, nei paesi delle miniere è nato e si è sviluppato un nuovo modo d'essere siciliano, una nuova umanità; dallo zolfo e per lo zolfo è nata una storia politica e sociale, una letteratura”. Da Verga a Giusti Sinopoli, da Alessio Di Giovanni a Sciascia, allo stesso Consolo, tanti sono stati i romanzieri che “dallo zolfo” della Sicilia si sono fatti ispirare; tanti, ancora oggi, sono i libri dedicati alla storia delle zolfare siciliane. Di recente ne è stato pubblicato uno, appassionante e interessante, di Angelo Barberi, dal titolo Chista vita ca si faciva barbara (Sicilia Punto L edizioni, Ragusa, 2015, pp. 180, € 10,00) che a quel mondo, e a quel tempo, di zolfatari e miniere, ritorna “direttamente”, attraverso le parole di chi, avendovi lavorato, racconta com'era fatto - di sudore e sangue, di miseria e sfruttamento - quel dannarsi a cavare zolfo da sottoterra. In più di una decina di ampie e dettagliate testimonianze, raccolte da Barberi, tra il 1987 e il 1988, dalla viva voce di minatori siciliani, viene fuori un quadro documentato e dettagliato delle condizioni di vita e di lavoro degli zolfatari delle provincie siciliane di Agrigento, Caltanissetta ed Enna, dov'erano le principali e più grandi miniere di zolfo dell'Isola.
Nei ricordi degli zolfatari, le emozioni intense per i loro vissuti pesanti e drammatici, sono accompagnate sempre da un lucido ragionare e da un sereno e realistico raccontare che insiste minuziosamente sulle condizioni materiali del loro lavoro: cosicché le loro testimonianze sono ricche di informazioni e osservazioni sulle tecniche di estrazione, fusione e lavorazione dello zolfo e sull'organizzazione gerarchica del lavoro che vigeva in miniera e che andava da chi svolgeva le mansioni più semplici (il caruso e il vagoniere) e quindi anche meno pagate, a chi era addetto a più complesse attività (il capomastro e il picconiere), e quindi era più retribuito e, per di più, per la responsabilità che aveva in miniera, godeva di una maggiore considerazione sociale.
E ancora, dalle testimonianze che il libro raccoglie, si può desumere la topografia dei siti minerari dell'entroterra siciliano (le cave di zolfo o, come venivano chiamate in dialetto, le pirrere: di Trabonella, Ciavolotta, Trabia, Tallarita, etc.); dei paesi dai quali i minatori partivano per lavorarvi: Villarosa, Favara, Riesi, Leonforte, Assoro, Sommatino e altri ancora; finanche delle strade sterrate e dei viottoli di campagne percorsi dai minatori a piedi, “stratone stratone, accorzatoi accorzatoi”, per raggiungere la loro miniera, distante dal loro paese decine e decine di chilometri.
Ma soprattutto il libro è la denuncia della “vita che si faceva barbara” all'interno della miniera, dove il lavoro massacrante, senza regole e senza diritti, a cui erano sottoposti gli zolfatari li privava della loro dignità personale e di ogni tutela sulla loro salute e sulla loro stessa vita.
I racconti degli zolfatari, infatti, con estremo disincanto, mettono tutti in luce la consapevolezza dei gravi rischi che si correvano scendendo in miniera, per le frane e per le esplosioni causate da gas come l'antimonio, che giornalmente condannavano qualcuno dei minatori a pesanti infermità e alla morte.
Nel cinico disinteresse dei patroni, delle società, degli enti pubblici che hanno gestito la proprietà e la produzione dello zolfo in Sicilia, dai primi del novecento agli anni '80, s'è consumato un eccidio di cui le testimonianze degli zolfatari danno conto, così come epicamente, le stesse voci dei minatori narrano della loro reazione alla rassegnazione, alle ingiustizie, ai soprusi e allo sfruttamento: emergono dai ricordi dei minatori, le gesta delle occupazioni e delle lotte, i nomi dei primi agitatori, raccolti per lo più sotto le bandiere del partito comunista, gli appoggi importanti di qualche esponente politico, come l'onorevole Fausto Gullo: che propose e favorì diversi interventi legislativi in favore del miglioramento delle condizioni di lavoro dei minatori, ma sopratutto fu l'ideatore della legge di riforma agraria che anche se solo parzialmente, servì, negli anni cinquanta, ad espropriare o comunque a ridimensionare le grandi proprietà terriere siciliane (in buona parte ancora di stampo feudale) a favore di una razionale ed equa distribuzione della terra ai contadini.
E parlano dei contadini, i minatori, e si lamentano del fatto che non solidarizzavano con loro, non sostenevano le loro agitazioni, perché consideravano chi lavorava in miniera un privilegiato; i contadini pensavano che il minatore, anche se veniva sottopagato, aveva pur sempre un salario “sicuro”, mentre i loro guadagni erano sempre incerti e precari, sia quando lavoravano per un proprietario terriero che quando avevano un campo proprio da coltivare. E in verità, ammettono i minatori intervistati, anche loro pensavano di svolgere un lavoro non solo più retribuito ma anche migliore nella qualità e nel prestigio rispetto a quello dei contadini. Sentivano, così, di far parte di un' aristocrazia dei poveri, in una guerra tra miseri a solo vantaggio dei potenti e dei ricchi.
Un mondo di vinti, quello dei minatori, che non trovava conforto nella chiesa: terribilmente e ingiustamente, raccontano gli zolfatari, i preti rifiutarono per un lungo periodo di fare i funerali ai morti in miniera che nei pochi resti dei loro corpi smembrati dalle esplosioni o dalle frane di pareti e tetti delle gallerie, venivano portati direttamente al cimitero, o vietarono i funerali e gli altri sacramenti ai minatori che avevano abbracciato, per dare voce alle loro rivendicazioni, una fede socialista, comunista o anarchica.
Raccogliendo le memorie dei lavoratori delle ormai scomparse miniere di zolfo (e riportandone le tante e caratteristiche espressioni dialettali che a quelle memorie hanno ridato forma), Barberi ha fatto un'operazione storico-documentaria di notevole valore, restituendo un pezzo fondamentale della storia complessiva del mondo del lavoro e delle classi subalterne in Sicilia; facendo riemergere, meritoriamente, il dimenticato (e inattuale) protagonismo di uomini che hanno combattuto, nella Sicilia più interna e più povera, affinché il loro lavoro e la loro umanità non si lasciasse piegare dal “barbaro” dominio del capitale e del privilegio.

Silvestro Livolsi



Gli anni '60,
il Perù e le lotte per la terra

Eduardo Galeano ha detto che il mondo non è fatto di atomi, ma di storie. Perché sono le storie che convertono il passato in presente, ciò che è lontano in vicino e possibile. Una bella particina di mondo allora è contenuta nel libro Noi, gli indios. Le lotte per la terra in Perù (Nova Delphi Libri, Roma, 2015, pp. 240, € 14,00), del suo amico Hugo Blanco Galdós, che - raccontando le avventure della propria vita - avvicina il lettore alle lotte per la terra nel Perù degli anni '60, con la vittoria contadina e indigena sul sistema del latifondo, ma più in generale all'eterna e confusa lotta tra sfruttati e sfruttatori, e alla lotta attuale tra il neoliberismo e i figli della Pacha Mama.
Con la stessa semplicità con cui un manager di una multinazionale vede nella selva amazzonica solo alberi da tagliare, Hugo Blanco con le sue storie va delineando come sottofondo un'analisi semplice e spietata della “nostra” società del consumo, come stadio aggiornato della società dei conquistadores spagnoli, a cui contrappone la ricchezza del millenario mondo indigeno, una ricchezza fatta di colori, di sentieri, di nomi, di sapori, di piante, di parole, di vita.
La poesia con cui l'ex guerrillero conclude il libro è forse la pagina meno poetica di tutto il libro, perché la poesia vera è dappertutto e nella sua vita, è nel toccante carteggio con il poeta quechua José Marìa Arguedas, nelle lettere scritte alla vigilia di una possibile condanna a morte, nella resistenza orizzontale e dal basso contro le atrocità dei latifondisti, nell'alzarsi gridando in un aula di tribunale per condannare un'ingiustizia. È poesia anche il dolore di tante morti innocenti, di tante sofferenze dovute al carcere, alle discriminazioni, all'ingiustizia; sofferenze che reclamano umilmente ma in modo deciso un razionale avvento di un mondo giusto e dignitoso per tutti, un mondo “indio”, anche per chi come Hugo (blanco di nome e di fatto) indio non ci è nato.
Infatti tra le tante cose che può insegnare questo libro, c'è che l'indio non è una razza sanguigna, ma una razza culturale, perché - come precisa Blanco - “l'indio è una cultura di cui fanno parte anche persone bionde e con gli occhi azzurri e di cui non fanno parte alcune persone che, per sangue, sono indios”. Per questo il libro di Hugo Blanco va oltre l'essere ciò che potrebbe esser definito un “interessante approfondimento”, su determinate lotte in un determinato periodo e luogo del mondo, e va oltre anche all'essere un caso di vita esemplare, in quanto autobiografia di un individuo che per naturale tensione verso la giustizia e la difesa degli oppressi si è ritrovato ad essere un rivoluzionario.
“Noi, gli indios” diventa anche un libro di “teoria e pratica rivoluzionaria”, sia per il resoconto di tante azioni e lotte che hanno avuto il loro successo, sia per l'insistere su determinati concetti che seppur limitati diventano (o vogliono diventare) universali. Uno su tutti: è interessantissimo l'ayllu, il sistema tradizionale di organizzazione comunitaria quechua, realizzazione esemplare dei principi del mutuo appoggio e della democrazia diretta. A riprova del fatto che ben prima di Kroptokin e Bakunin l'anarchia esisteva e veniva praticata nella vita quotidiana da persone che “anarchia” non sapevano neanche cosa volesse dire. E uno di questi potrebbe essere lo stesso Hugo Blanco: di formazione politica trotzkista, ci dimostra che quando si è indaffarati a fare, quando le intenzioni sono nobili, gli obiettivi chiari e il metodo è rigidamente antiautoritario, poco importano le opinioni personali su Cuba o Lenin, e - senza perder mai un briciolo della propria coerenza di rivoluzionario - si può passare dagli scioperi alla lotta armata, dalla carica di senatore all'organizzazione del turismo sociale.
Con la stessa ironia per cui si dice che il 1492 non è stato l'anno della scoperta di un continente, ma l'anno in cui qualche indigeno ha scoperto Cristoforo Colombo perso nel mare, si potrebbe dire che, pur così lungimirante nelle sue analisi del capitalismo da far venire il sospetto che sia lui stesso dalla tomba a dirigere gli andamenti dell'economia mondiale, nemmeno Marx si sarebbe mai immaginato che i migliori lettori dei suoi libri potessero essere dei poveri analfabeti indigeni. Per dirlo altrimenti: sembra che il mito freddo e quasi terribile di una dittatura del proletariato che redimerà l'umanità, possa trovare applicazioni di successo nella vita reale soltanto lontano dalle grandi industrie, come valore aggiunto alla cultura millenaria, pura e concreta dei popoli indigeni. Il Chiapas (per esempio), da ormai vent'anni a questa parte, lo sta dimostrando.
La funzione didattica di questo libro non si esaurisce nei grandi concetti, nei grandi temi, (come la riforma agraria, il rispetto della madre terra, eccetera) ma contiene nascoste tante piccole cose da scoprire. Una di queste è che, non si sa perché, pare che tutte le lingue indigene a differenza di quelle europee abbiano due termini distinti per dire “noi”, una che include l'interlocutore e una che lo esclude.
Allora sarebbe interessante sapere da Hugo Blanco quale delle due opzioni sarebbe da usare in una traduzione in quechua di questo libro. Ma forse in questo caso risulta più poetico l'indefinito castigliano “nosotros”, così che sarà poi il lettore a dargli una definizione, o magari una volta terminato il libro decidere di scoprirsi egli stesso incluso nel grande popolo degli indios. Allora probabilmente scoprirà che il popolo degli indios per continuare a esistere e lottare non ha bisogno di alcun aiuto, ma per servire la Pacha Mama ha tanto bisogno di altre voci, di altre braccia, di altri cuori.
Una storia di Galeano dice: “il mondo è questo: un sacco di gente, un mare di fuocherelli. Non c'è un fuoco uguale ad un altro, ogni persona brilla di luce propria in mezzo a tutte le altre, ci son persone di fuochi sereni che non sentono neanche il vento, ci sono persone di fuochi pazzi che riempiono l'aria di scintille, ci sono fuochi sciocchi che non illuminano né riscaldano, però altri ardono la vita con così tanta voglia che non si può guardarli senza rimanerne abbagliati, e chi si avvicina, si incendia”.
Il tayta Hugo Blanco assomiglia a uno di questi grandi fuochi e con il libro “Noi, gli indios” si prende l'onore di elevarsi a portavoce del mondo indigeno; se può permetterselo, senza perdere niente della sua umiltà, è per la sua enorme e indiscutibile umanità, per aver non solo meritato ma anche ampiamente ripagato la solidarietà mondiale che più di una volta gli ha salvato la vita.

Michele Salsi



Una guida per l'edificazione
dell'uomo libero

Pubblichiamo la prefazione del libro di Paolo Zapparoli Il mammifero anarchico (Youcanprint Self-Publishing, Roma, 2015, pp. 80, 10,00).
Per contatti:
www.youcanprint.it
raskolnika@gmail.com

Pacificate le greggi, è tornato il silenzio. Il dio denaro, unico generatore di valori rimasto in campo, sembra ormai aver delimitato irrimediabilmente i confini dell'agire politico, riducendolo a mero strumento di attuazione di decisioni economiche prese da un ristretto numeri di burocrati e banchieri.
Allo stesso tempo, e con simili intenti, anche il mondo dell'informazione viene sempre più ammaestrato e costretto ad assumere i connotati di un gigantesco megafono, amplificando l'unica voce rimasta in campo, quella del padrone.
L'incessante e martellante bombardamento mediatico fatto di informazioni fugaci e volatili ha in questo modo inevitabilmente ridotto gli spazi di conversazione ed interrotto drasticamente il tempo della riflessione. Così piegato, l'animale uomo, mercificato ed alienato a dismisura, ha ormai addirittura dismesso le proprie pulsioni desideranti e trasformato il suo potenziale sessuale ed erotico in forza lavoro o nel suo valore di scambio equivalente.
Date queste condizioni, in un mondo in cui il dominio capitalistico superata la sua fase spettacolare viene sempre più ad assumere una dimensione biopolitica totalizzante, si fa più urgente la necessità della costruzione e predisposizione di necessari antidoti che siano all'altezza della sfida attuale.
Il nemico è lo stesso di sempre, il Potere con la P maiuscola, quello che condiziona il nostro modo di mangiare, di vestire, di pensare, e che da nemico esterno si è ora trasformato anche in nemico interno introducendosi subdolamente nelle nostre menti. È quindi soprattutto verso noi stessi che dobbiamo rivolgere ora lo sguardo se vogliamo veramente sradicare la malapianta del dominio neoliberista e statalista. A questo appuntamento di certo gli anarchici non arrivano totalmente impreparati, tutt'altro.
La nostra vecchia cara Idea, piantata saggiamente dalle fervide menti che ci hanno preceduto, è ora capace di germogliare frutti inaspettati proprio quando le contraddizioni del capitalismo finanziario vengono oggi sempre più alla luce. Occorre però rivolgere lo sguardo nella giusta direzione e in tempi difficili come questi, aguzzare l'ingegno. “Malatempora currunt”... gli oligarchi a capo di Amazon, Apple, Nestlé, Facebook, Google, ecc... stanno inventando il nostro futuro plasmandolo a misura dei loro interessi. In conseguenza di ciò, lo stesso famigerato “conflitto di interessi”, da fenomeno episodico diventa così elemento endemico e costitutivo della macchina amministrativa, a tal punto che oggi non si dà governo se non in conflitto di interessi.
I consigli di amministrazione delle sempre più voraci multinazionali, in combutta con i burocrati di governo che assecondano sfacciatamente i loro propositi, monitorano ogni aspetto della nostra vita; sanno tutto del nostro passato e valutano alla perfezione i nostri gusti e le nostre debolezze, sanno dove siamo ed a cosa stiamo pensando. Alcune multinazionali si spingono addirittura a studiare i comportamenti dei giocatori dei cosiddetti “massively multiplayer on-line games”, utilizzati come banco di prova per esperimenti sull'impatto di possibili politiche sociali.
Ma allora se di biopolitica oggi si tratta, cioè del dominio totalizzante dell'Impero neoliberista su ogni fase della nostra vita, il nostro sforzo e il nostro sguardo dovranno essere principalmente indirizzati verso la sfera morale e pedagogica nell'accezione da sempre esemplificata dalla gran parte delle dottrine anarchiche e libertarie di tutto il mondo. Coloro che non hanno mai avuto dimestichezza con questi ideali troveranno qui uno strumento utile e propedeutico per districarsi in questo caotico e meraviglioso mondo dell'Idea anarchica. Chi invece si è sempre nutrito di tali letture vi troverà non solo una panoramica riassuntiva dei principali concetti che hanno caratterizzato la storia del pensiero morale e pedagogico anarchico, ma anche possibili spunti per affrontare le sfide attuali con nuove parole/idee e soprattutto con nuove azioni.
In fondo questo libro avrebbe anche potuto chiamarsi: “Guida all'edificazione dell'uomo libero”, perché tali sono i presupposti ideologici che da sempre animano il pensiero anarchico, dove per uomo libero, si deve intendere una persona che sia veramente maestra di se stessa e che non sia ammaestrabile da qualsivoglia autorità esterna, sia essa di tipo materiale (Stato, Chiesa, Partito, Esercito) sia essa di tipo spirituale/metafisico (religioni, ideologie astratte, superstizioni varie).

Paolo Zapparoli



Vivere come i nomadi/
Il movimento anarchico milanese prima del fascismo

“Gli anarchici, nella vita, sono dei nomadi. Non seguono quella tale strada, ma la loro strada; a piacere della loro natura, del loro modo di pensare, del loro temperamento, anche.” (Leda Rafanelli, L'Eroe della Folla, 1920). Questa frase dell'anarchica toscana dà il titolo al volume di Fausto Buttà (Living like nomads. The milanese anarchist movement before fascism, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne, 2015, pp. 299, £ 47,99), un ricercatore italiano che lavora all'Università del Western Australia. Il libro è in lingua inglese ed è arricchito da citazioni, note, fotografie di anarchici e mappe di Milano. La pubblicazione è diretta principalmente al mondo accademico anglo-sassone e ha lo scopo di colmare una lacuna storiografica. E' infatti la prima volta che la storia del movimento anarchico a Milano viene narrata in modo comprensivo e dettagliato, a partire dalle sue origini fino all'avvento del fascismo.
La storia comincia nella Milano della fine degli anni sessanta dell'Ottocento ed esplora gli eventi, i personaggi, le attività e le idee che diedero vita ai primi gruppi internazionalisti. Emergono personaggi come Vincenzo Pezza, seguace di Bakunin, e Theodor Cuno, un ingegnere tedesco, emissario di Engels a Milano, i quali fondarono, il giorno della vigilia di Natale del 1871, il Circolo Operaio, ovvero la sezione milanese della Prima Internazionale. Le relazioni e i contrasti tra i seguaci di Bakunin e i socialisti legalitari contribuirono, negli anni successivi, a delineare un'identità anarchica che presentava molteplici sfaccettature e che abbracciava diverse classi sociali e professioni. Una ricerca sociologica qualitativa degli anarchici presenti a Milano nel periodo in questione dimostra la natura interclassista del movimento anarchico. Fu questa una caratteristica che sopravvisse negli anni successivi, e che non combacia con l'idea che gli anarchici milanesi fossero solamente degli intellettuali piccolo borghesi. L'altra caratteristica principale, che dà spunto al titolo del libro, risiede nella nomadicità dei membri del movimento, ovvero il fatto che molti dei militanti anarchici a Milano non solo non erano nativi del capoluogo lombardo ma qui sostarono solo per un po' di tempo prima di trasferirsi altrove, prima di “essere trascinati al Nord”, come scrisse in un'altra occasione Pietro Gori. Se da un lato va riconosciuto che essi giocarono un ruolo importantissimo per il movimento anarchico in città, dall'altro ne costituirono anche una debolezza, poiché il continuo ricambio dei militanti impedì che i gruppi si radicassero sul territorio, nei quartieri e nelle fabbriche, in modo stabile e duraturo.
Fu così che parecchi anarchici italiani vennero a Milano e poi se ne andarono, per varie ragioni tra cui, soprattutto nel caso dei militanti più attivi e carismatici, la repressione. Tra queste figure vanno ricordati i nomi già conosciuti di Pietro Gori, Giovanni Gavilli, Ettore Molinari, Nella Giacomelli, Luigi Molinari e Leda Rafanelli. A questi nomi il libro di Buttà affianca quelli di altri militanti sconosciuti, nomi di personaggi che sono caduti nell'oblio e che costituirono il grosso del movimento anarchico a Milano. A tal fine, l'autore si è servito sia delle fonti di polizia e di prefettura conservate all'Archivio Centrale di Roma e all'Archivio di Stato di Milano, sia della letteratura specializzata, da Masini a Cerrito, da Antonioli a Berti, a Mantovani, compreso il Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani.
S'intrecciano così le vite di uomini e donne in continuo movimento, come quella di Ernesto Cantoni detto “Risott”, perseguitato dalla questura che lo riteneva capace di atti violenti, costretto a viaggiare e a cambiare nome parecchie volte. Vite spezzate, come quella di Angelo Galli, ucciso durante uno sciopero e il cui funerale fu immortalato da un dipinto di Carlo Carrà. Vite da militanti, come quella di Aida Latini, donna forte, sempre presente e in prima fila negli scioperi e nelle iniziative anti-militariste di inizio secolo. Vite brevi, come quella del fornaio Sante Caserio da Motta Visconti, prima fondatore e membro di un circolo anarchico in Porta Genova, e poi uccisore del presidente francese Sadi Carnot; o come quella di Bruno Filippi, vittima della propria dinamite preparata per i clienti facoltosi del Caffè Biffi in pieno centro a Milano. Vite spese per l'ideale libertario, come quelle della maestra Maria Rossi, della tipografa Leda Rafanelli, dell'educatrice Nella Giacomelli, del commerciante in rottami di ferro Ricciotti Longhi, dell'elettricista Carlo Gelosa, e di tanti altri sparsi tra i vari capitoli del libro.
Ne esce un quadro dettagliato, un ritratto sociale particolareggiato del movimento anarchico nel capoluogo lombardo, dove le vicende italiane e i continui rimandi all'anarchismo in Italia fanno da sfondo alle biografie dei militanti, ai loro dibattiti, litigi, cooperazioni, alle loro idee, al loro attivismo e in particolare ai loro giornali. Il materiale pubblicato dagli anarchici a Milano è vasto e, secondo Buttà, costituisce il loro lascito principale, l'eredità culturale del movimento libertario. Attorno a testate giornalistiche come Il Martello, Tito Vezio, L'Amico del Popolo, Il Grido della Folla, La Protesta Umana, Sciarpa Nera, Umanità Nova e altri, si riunirono individui, militanti, reti sociali di persone che si conoscevano e che sostenevano campagne politiche contigue e complementari. Gli anarchici milanesi furono coinvolti in numerose iniziative: diedero vita a una Scuola moderna, si schierarono con i lavoratori negli scioperi delle fabbriche milanesi di inizio secolo, condussero battaglie anti-militariste, parteciparono alla Settimana Rossa del giugno 1914, si opposero alla prima guerra mondiale, nel biennio 1919-1920 s'illusero che la rivoluzione sociale fosse a portata di mano e invece si ritrovarono a combattere contro l'avanzata di Mussolini e del fascismo. L'ultimo capitolo del libro racconta i fatti successivi alla strage del Teatro Diana nel marzo 1921, la quale segnò l'inizio di un declino sempre più rapido del movimento anarchico, non solo milanese ma in tutto il paese. Come tutte le voci dissenzienti, il regime fascista finì per mettere a tacere anche quella degli anarchici grazie alle leggi sulla stampa del 1926.
Una delle tesi dell'autore del libro è che Milano non fu solo il centro principale dell'anarchismo individualista in Italia, ma offrì l'opportunità a diverse correnti dell'anarchismo di svilupparsi e di confrontarsi. La storia del movimento anarchico locale conferma così la natura del capoluogo lombardo come un laboratorio di idee e di pratiche sociali e politiche. Milano rappresentò un terreno fertile per un movimento dinamico, spesso disorganizzato, ma organico perchè fatto di strette reti di relazioni basate sulla solidarietà tra i militanti. Un movimento che, nel 1891, Luigi Galleani poeticamente definì “una concorde irrequieta attivissima schiera di giovani esuberanti di fede ed energia d'un anelito di battaglia irresistibile”.

Giovanni Carletti



L'amore?
È l'anarchia nel cuore

“Mi sono sentita tanto in colpa di essere di nuovo felice, nonna. Era come se tutti mi dicessero: come puoi partire per una vacanza, bere un bicchiere di vino, amare un uomo, farti amare nel piacere, dormire dopo. Come puoi essere ancora viva, insomma, e aver voglia di stare ancora nel mondo. Hai dimenticato le bambine? Vergognati. È come se mi dicessero che sono morta anche io, e che è uno scandalo che mi ribelli.”
L'ultimo libro di Concita De Gregorio Mi sa che fuori è primavera (Feltrinelli, Milano, 2015, pp. 128, € 13,00) dà voce a una donna, Irina, oggi cinquantenne, che ha vissuto una tragedia immane, un dolore che non si può raccontare, e che ha trovato la forza di affrontarlo e il coraggio di ribellarsi per continuare a vivere, per non accontentarsi di sopravvivere alla catastrofe.
I fatti sono noti, la cronaca racconta una storia terribile: nel gennaio del 2011, il marito di Irina – la coppia è separata e sta divorziando – sparisce dal suo domicilio di Saint-Sulpice presso Losanna in Svizzera con le figlie Alessia e Livia, due gemelline di sei anni. Dopo diversi spostamenti, da Marsiglia, alla Corsica, al sud Italia, l'uomo si butta sotto un treno a Cerignola, in Puglia; delle bambine, di cui lui ha lasciato scritto “riposano in pace”, “non hanno sofferto”, “non le rivedrai mai più”, non si è più avuta traccia. La madre, Irina Lucidi – italiana, che vive e lavora come avvocato a Losanna da diversi anni – appare più volte sulle reti televisive centroeuropee con i suoi appelli sobri, determinati, strazianti. E vani.
Non è mia intenzione soffermarmi sui terribili fatti che hanno stravolto e lacerato la vita di Irina, la vita di una madre e delle sue bambine, né esprimermi sull'opera giornalistica e letteraria della De Gregorio, ma piuttosto rilevare quanto i pregiudizi e il moralismo possano caricare sulle spalle di una donna, vittima di una tragedia oltre l'immaginabile, l'ombra pesante di una o più colpe e un'ulteriore condanna.
I pregiudizi, subdoli ma rassicuranti per chi li ha e se li coltiva, non certo per chi li subisce. I primi contro cui Irina ha dovuto far fronte sono quelli classici: donna indipendente, italiana in Svizzera, avvocato, parla cinque lingue, guadagna meglio e, all'interno della stessa ditta, è più riconosciuta professionalmente del marito; a volte è lontana da casa, per lavoro, non sarà certo dunque né una moglie né una madre ideale. Si è ribellata alla pena di un matrimonio oppressivo, ha chiesto il divorzio, si è dunque caricata della colpa di aver distrutto, lei per prima, la famiglia. Sì perché il fatto che il marito non fosse né ideale né psicologicamente equilibrato non entra un granché in linea di conto prima della tragedia.
Contro questi pregiudizi, positivi nei confronti del marito e negativi nei suoi confronti, Irina ha dovuto lottare da subito, non solo con l'entourage famigliare e domestico, non solo nel corso delle pratiche di separazione e divorzio ma soprattutto nelle fasi di denuncia della scomparsa delle bambine. Pregiudizi, moralismi e sentenze terribili che gettano ombre di sospetto a cui è difficile sottrarsi e che marchieranno Irina come vittima non innocente.
A questa sentenza sottaciuta di parziale colpevolezza, alla condanna “a vita” della scomparsa, della morte non accertata, senza un dove, un come, un quando delle sue bambine, sulle spalle di Irina si aggiunge un'altra colpa, quella di voler continuare a vivere, di volersi riappropriare di una vita degna di essere vissuta. Sì perché questo suo ostinato attaccamento alla vita malgrado la tragedia, questo suo opporsi alla morte viva senza possibili sconti di pena, destino segnato per una giovane madre sopravvissuta, si scontra violentemente contro un moralismo anche maschilista, contro il perbenismo di una società più benpensante che solidale. In questo senso la sua tenacia è vista come una scandalosa disubbidienza. Forse è un non detto, ma è un pensiero così denso da pesare più di una sentenza scritta.
Il racconto di Concita De Gregorio disegna il profilo di una donna coraggiosa, forte, lucida anche nello strazio vuoto e opprimente e disarmante della scomparsa e traduce e trasmette bene l'energia e le fatiche, razionali ed emotive, necessarie non solo per resistere alla morte nel cuore ma anche per opporsi appunto alle condanne silenziose di un ordine simbolico e di un moralismo malato, ritrovati sia nel contesto e nella famiglia acquisita in Svizzera, sia nella sua famiglia italiana.
L'anarchia nel cuore, che è poi capacità di ascoltare innanzitutto sé stessi, l'amore che sgorga a rivendicare il diritto di vivere ancora, di essere quello che vogliamo, che sentiamo di essere, senza calpestare gli altri ma senza lasciarci calpestare; è una forma di libertà che sento e ammiro profondamente, di cui percepisco la purezza, la dolorosa fermezza e la paradossale, inevitabile fragilità. Perché siamo tutti pieni di pregiudizi, troviamo tutti scorciatoie e strade comode e ribellarsi è una fatica immane che non sempre, anzi, decidiamo di intraprendere. “Toglierci dal posto che gli altri ci assegnano, possiamo”, dice Irina, “gli altri non sono il destino”. È con questa determinata leggerezza che Irina riesce a sollevare anche il cuore di chi legge, ad infondere forza, a regalare energia vitale capace di opporsi ostinatamente e serenamente ad ogni corrente.
“Ferite d'oro. Quando un oggetto di valore si rompe, in Giappone, lo si ripara con oro liquido. È un'antica tecnica che mostra e non nasconde le fratture. Le esibisce come rinascita. Anche per le persone è così. Chi ha sofferto è prezioso, la fragilità può trasformarsi in forza. La tecnica che salda i pezzi, negli esseri umani, si chiama amore.”
L'amore di Irina per le sue bambine, per la vita, la sua e quella di altre madri, di altri bambini, altri famigliari, ha vinto sul dolore. A partire dal 2011, ha fondato “Missing Children Switzerland”, una ONG inserita in una rete europea che assiste le famiglie e le autorità in tutte le fasi degli eventi legati alla scomparsa di minori.
Nell'immaginario di oggi, che fa della positività un valore supremo, la grande resistenza di Irina, questa sua intraprendenza e capacità di trovare le risorse per far trarre profitto ad altri dalla sua tragedia, è senz'altro guardata con ammirazione. È così anche per la sua non-docilità, per la sua ferma capacità di dissentire e di distanziarsi dalla corrente morale di una collettività? Non sarebbe più facile compatirla se avesse ceduto ad altri, all'insieme di norme civili democraticamente riconosciute, la capacità di scegliere tra il bene e il male invece di ostinarsi a seguire il nocciolo duro della sua coscienza? Non so quanti pesi e quante misura abbiano le nostre incoerenze, ma fa sempre bene chiederselo.

Paola Pronini Medici



La fine della scuola
e le alternative libertarie

È recentemente uscito il volume del nostro collaboratore Francesco Codello sulla scuola. Si intitola La campanella non suona più. Fine dei sistemi scolastici e alternative libertarie possibili (Edizioni La Baronata, Lugano, 2015, pp. 208, 17,50). Per richieste: Edizioni La Baronata, Casella postale 328, CH-6906 Lugano (Svizzera), www.anarca-bolo.ch/baronata.
baronata@anarca-bolo.ch
baronata@bluemail.ch
Ne ripubblichiamo l'introduzione.

«Vaso, creta o fiore? Né riempire, né plasmare ma educare». Questa metafora coniata da Colin Ward (Talking Schools, 1995) sintetizza in modo esemplare il possibile significato di educazione libertaria. I fondamenti che stanno alla base di un'autentica educazione antiautoritaria possono, infatti, sostanziarsi in questa definizione: educare non è riempire (il vaso), non è neppure plasmare (la creta), ma promuovere il naturale sbocciare del fiore. Tutto questo, apparentemente semplice, comporta alcune considerazioni e mette in luce una varietà di problematiche davvero importanti.
Che cos'è l'educazione libertaria, in che cosa si differenzia da una autoritaria, come può realizzarsi concretamente, qual è il ruolo dell'insegnante nella relazione educativa, e quello dei genitori, la Scuola (il sistema scolastico) che soprassiede alla formazione attuale può essere modificata? Queste, e molte altre domande, ricorrono sistematicamente in quanti hanno a cuore la realizzazione di un'educazione libertaria.
Occorre innanzitutto ritornare al significato originario della parola “educazione”, riflettere sull'etimologia e analizzare poi la sua evoluzione di significato (semantica). Capire perché, da un concetto di educare sorto per significare il “tirar fuori” (ex-ducere), si sia transitato nel corso del tempo a un'idea diametralmente opposta (riempire, plasmare, ecc.), è molto importante. Questa operazione di genealogia filosofica è indispensabile per capire i meccanismi che il dominio, nelle sue varie espressioni, mette in atto per far apparire consolidato e vero un concetto che all'origine aveva altri significati. Infatti, educare sta proprio a significare l'azione che il soggetto compie nel trarre da sé il suo pensiero, in relazione con gli altri e con la mediazione dell'ambiente. Se questo è il concetto originario, appare del tutto evidente quanto si sia venuto formando un pensiero diametralmente opposto nel corso dei secoli, tanto da far perdere completamente questa realtà e imporre una visione educativa profondamente autoritaria, fondata sulla negazione di questa relazione e sull'inaugurazione di una gerarchizzazione dei rapporti educativi.

La metafora della levatrice
Pressoché tutte le concezioni pedagogiche, tranne pochi esempi, hanno, nel corso della storia, manipolato la concezione originaria sostenendo una relazione educativa a-simmetrica, gerarchica, autoritaria. In questo modo si è passati da un'idea di soggetto auto-educantesi a una di oggetto dell'intervento sistematico, voluto, programmato di educazione e istruzione. Questo è avvenuto perché le teorie e le prassi educative che si sono imposte storicamente, si fondano su un'idea antropologica a priori, su una concezione filosofica, o religiosa, o politica o economica, ecc., in sostanza si ispirano a una visione teleologica della storia, inverandosi in pratiche educative che hanno come fondamento della propria giustificazione e realizzazione, il dover essere del bambino e della bambina, in generale dell'altro da sé. Allora, come diceva Mark Twain, l'educazione è divenuta la difesa organizzata degli adulti contro la gioventù, si è imposta cioè quella che Paulo Freire ha efficacemente definito una visione “bancaria” dell'educazione, cioè una sorta di dono che i sapienti (così si considerano) fanno agli ignoranti. Le caratteristiche di questa tradizione educativa si possono cogliere nell'insieme di informazioni e abilità del passato da trasmettere alle nuove generazioni, nelle regole e norme di condotta a cui addestrare la gioventù, nel complesso dell'organizzazione su cui basarsi fatta di programmi, valutazioni, classificazioni, regole disciplinari, rituali, gerarchie, ecc. L'educatore (insegnante o genitore) diviene una sorta di funzionario-agente di questo processo in una relazione autoritaria con l'educando. Se, dall'avvento del cristianesimo e soprattutto a partire dall'età medioevale, la pedagogia era considerata ancella della teologia, oggi il complesso sistema educativo e le teorie che lo inverano, sono al servizio della logica del consumo e dell'interiorizzazione di falsi bisogni e false verità.
La visione dell'educazione dominante è comunque, ieri come oggi, una concezione depositaria, cioè una rappresentazione dell'idea educativa fondata su una separazione sostanziale, magari talvolta non facilmente manifesta, tra chi detiene le conoscenze e ha il diritto-dovere di tramandarle, e chi è l'oggetto di questa trasmissione. Da queste premesse deriva la centralità che il complesso sistema educativo (scuola, famiglia, altri soggetti) assegna alla formazione. Formare è divenuta la parola “magica” e simbolica che dà voce alla necessità, sempre più impellente, di garantire un consenso diffuso, una pratica consumistica ma, soprattutto, di creazione di un nuovo modello antropologico che abbia interiorizzato quei valori e quei comportamenti, ritenuti necessari per mantenere un consenso generalizzato a questa visione del mondo. La formazione, dunque, diviene sempre più sinonimo di educazione, capovolgendone il significato, e sostituendosi alla più coerente istanza della liberazione. Liberazione che invece si accomuna con un'idea di educazione libertaria e recupera una caratteristica originaria propria del significato vero della parola “educare” e che rievoca la metafora della levatrice, di quell'azione reciproca che compie, da un lato la donna che partorisce e, dall'altro, la persona che sta per venire al mondo. Questa prospettiva educativa libertaria è dunque un educare a essere, a divenire ciò che si desidera partendo da ciò che progressivamente si è. Non solo, pertanto, non dover essere secondo un disegno predefinito da altri, ma neanche un essere ciò che si è secondo una concezione riduzionista e genetica della vita umana. Compare nella concezione libertaria, un'idea educativa dell'essere che si realizza progressivamente nella relazione con l'altro e con l'ambiente, un individuo che afferma la sua peculiare diversità e costruisce il suo futuro su un atto libero e autonomo di volontà, attraverso le inevitabili mediazioni con il contesto esterno alla sua soggettività.

L'azione educativa per la trasformazione sociale
La libertà diviene dunque autodeterminazione individuale, ma necessariamente intrecciata con le altre diversità, altrettanto rilevanti, e con l'adesione libera e autonoma a un insieme di relazioni sociali ugualmente indispensabili e vitali. Così il sapere, la conoscenza, la novità, è su di sé e non “utili” o per servire a qualcosa. Allo stesso modo la libertà, come ci ha dimostrato Bakunin, non è quella della concezione liberale (la mia libertà finisce, dove inizia quella dell'altro), ma è quella anarchica (la libertà individuale si realizza solo a condizione che gli altri siano altrettanto liberi). Gli altri non sono dunque un limite ma un presupposto imprescindibile per permettere al mio essere di realizzare la sua, propria, specifica, libertà. Appare evidente, in questa prospettiva filosofica, il recupero della filosofia di Parmenide, nutrita della sensibilità cosmocentrica, propria dei cosiddetti filosofi pre-socratici. Se l'essere è, non può non essere, sosteneva il filosofo nato nella Magna Grecia (presumibilmente nel 540 a.C.), così come il non essere non è e non può in alcun modo essere. Il percorso educativo è allora quel cammino che conduce alla consapevolezza di se stessi, nel seguire in ogni istante l'essere, così come il mutare presenta sempre nuovi eterni innanzi a ciascuno di noi. Ciò è indispensabile se si desidera che ciascuno sia in grado di capire e di avere coscienza della situazione in cui ci si trova. La cultura del nostro tempo invece nega un senso fondamentale al mondo e all'esistenza, poiché il pensare dominante è quello che si interessa della singola parte, è il pensare specialistico, che ha estromesso la dimensione olistica dell'esistenza.
Qui ci arrivano alla mente i versi di Thomas S. Eliot: «In my beginning is my end. In my end is my beginning» e la concezione greca del tempo circolare e non lineare. Il mio inizio è la mia fine, la mia fine è il mio inizio, vale a dire proprio che l'essere, anche quando apparentemente diviene, è sempre l'essere che è in quel momento, dunque provvisoriamente ma continuamente assoluto.
Ciò che è indispensabile allora apprendere è seguire se stessi, non cercare nell'altro da sé la verità e la via. Come ci ricorda mirabilmente Nietzsche, in Così parlò Zarathustra: «Voi non avevate ancora cercato voi stessi: ecco che trovaste me. Così fanno tutti i credenti; perciò ogni fede vale così poco. E ora vi ordino di perdermi e di trovarvi; e solo quando mi avrete tutti rinnegato io tornerò tra voi». Nella relazione libertaria l'educatore diviene accompagnatore, non passa al tuo posto ma viene con te. I pellerossa aspettavano di vedere chi era il bambino, impiegavano il tempo necessario prima di dargli un nome, per conoscere la risultante psichica e psicologica che lo caratterizzava, prima di chiamarlo con un nome. L'obiettivo principale, pertanto, non è il risultato, ma l'enfasi è posta sul processo, l'attenzione è al rispetto di ciò che continuamente si è, né su ciò che si vuole che l'altro divenga, né su quello che si ha stabilito a priori che deve necessariamente essere.
Persino Kant, nella sua opera più importante e culminante la sua ricerca filosofica (Critica della facoltà di giudizio), dissertando sul bello e sul sublime, si lascia andare alla convinzione che sia necessario contemplare le cose belle senza chiedere loro di corrispondere ai nostri canoni estetici. Educare a essere dunque si può ritenere come il presupposto fondativo di un'educazione autenticamente libertaria perché pone al centro il soggetto singolo e lo sostiene nella relazione sociale. Il fulcro allora del rapporto educativo è veramente l'educando (bambino/a) e non l'educatore (l'adulto).
La centralità è fissata sull'apprendimento e non sull'insegnamento e da questo presupposto devono essere declinate sia le azioni, sia progettate e realizzate le organizzazioni, in grado di mantenere coerentemente questa prospettiva.

Alcune esperienze concrete
Tutta la tradizione libertaria, a partire dalle pagine illuminanti di Godwin (The Enquirer, 1823), si è collocata nel solco di pensare l'azione educativa come uno dei mezzi fondamentali per poter promuovere un cambiamento radicale della società. L'idea di un uomo nuovo, antropologicamente diverso, in grado di desiderare e poi vivere una realtà relazionale libera da ogni forma di dominio, è stata un obiettivo costante degli anarchici. Ma, i più acuti e attenti, hanno anche rilevato come l'enfasi sul nuovo non avrebbe garantito una piena liberazione dell'individuo. Occorreva affiancare l'oggettiva novità (rispetto alla tradizione) con la sottolineatura della libertà necessaria e imprescindibile che deve accompagnare questa trasformazione. In fin dei conti molti altri pensatori e movimenti hanno pensato di generare un uomo nuovo nel corso della storia e questa novità non ha sempre rappresentato una vera liberazione. Ecco che dunque la tradizione libertaria deve sottolineare con forza la priorità della dimensione dell'autonomia e della libertà rispetto a quella della novità. Perorare l'ideale di un uomo nuovo non caratterizza completamente un'educazione libertaria poiché si fonda comunque su un'idea (seppur diversa) di modello antropologico definito pertanto a priori e caricato, arbitrariamente, di valore positivo. Si ritorna dentro lo schema dell'educare al dover essere e poco importa (in questo senso) che si ritenga questo dover essere migliore dell'attuale.
Educare significa, per la tradizione libertaria, liberare, sciogliere, portare alla luce, quanto di più profondo, autentico, intenso, vi è in ciascuno di noi nel momento in cui si compie la relazione educativa. Pertanto non vi può essere educazione senza auto-educazione, senza quella libertà e quell'autonomia che caratterizzano una relazione dialogica che si sviluppa per larga parte sull'incidentalità come presupposto dell'istruzione e dell'educazione stessa. Paul Goodman ripeteva che ai bambini non bisogna insegnare, bensì permettere di scoprire. Essi devono essere incoraggiati a indovinare e a usare il cervello, invece di venir esaminati sulle giuste risposte. L'educazione e l'apprendimento incidentale sono naturali, spontanei, inevitabili, non così invece quelli formali e istituzionalizzati, che sono deliberati, programmati, definiti, valutati conseguentemente.
Le esperienze storiche caratteristiche dell'anarchismo militante, quelle di Cempuis (Paul Robin), La Ruche (Sébastien Faure), Escuela Moderna (Francisco Ferrer), Jasnaja Poljana (Lev Tolstoj), le scuole di Madeleine Vernet e Louise Michel, solo per ricordare quelle più note, sviluppatesi tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, cresciute anche grazie alle intuizioni di Stirner, Bakunin, Kropotkin, Reclus, e molti altri militanti e pensatori libertari, sono lì a testimoniare della vitalità di un pensiero educativo autenticamente antiautoritario.
Questo filone di scuole ed esperienze si collega idealmente a quel movimento, così forte e presente oggi nei diversi continenti, di scuole “democratiche” che trovano la loro primaria fonte nella scuola di Summerhill, in Inghilterra, fondata nel 1921 (dapprima in Germania e poi dal 1924 nel Suffolk inglese) da Alexander Neill. Le scuole libertarie presentano, seppur così variegate e diverse anche geograficamente, alcuni tratti comuni che le differenziano radicalmente dalla scuola tradizionale. La centralità, essendo posta sull'apprendimento e non sull'insegnamento, mette a fuoco l'educando e le sue esigenze, i suoi tempi, le sue attese, le sue curiosità, le domande, ecc., in una concezione dello sviluppo della conoscenza che non sia lineare e rigidamente consecutiva ma pensata come una spirale, per permettere un processo infinito che va dalla non conoscenza alla conoscenza, per poi ritornare alla non conoscenza, e così all'infinito. Errori, tentativi, sperimentazioni, devianze, creatività, ricerche, costituiscono l'humus sostanziale del processo di apprendimento. La motivazione è intrinseca, liberata cioè da una valutazione giudicante e classificante, non fondata su premi e castighi, quindi non estrinseca. La gestione delle comunità educanti è improntata a una reale democrazia diretta che determina un processo decisionale paritario tra bambini e adulti. La frequenza alle lezioni è facoltativa e concordata, grazie anche a una relazione fortemente empatica che deve intercorrere tra educatori ed educandi. Le metodologie didattiche sono fondate sulla massima varietà, comunque tutte costruite su quell'attivismo didattico indispensabile per coniugare esperienza vera e conoscenza profonda. L'educazione è dunque integrale e armonica, per corrispondere all'esigenza di uno sviluppo della personalità completo e ricco di specificità individuali, pertanto la diversità e l'originalità sono stimolate e incoraggiate. Bambine e bambini, insomma, sono liberi di imparare e autonomi nell'esprimere se stessi globalmente, mettendo al centro di questo percorso il corpo vero e reale, le molteplici intelligenze, le variegate curiosità.
Su questi presupposti educativi si fonda la critica ai sistemi scolastici, che in questo libro vengono analizzati, e in nome di questi principi e di queste pratiche sono presentate alcune esperienze concrete di un modo radicalmente diverso di fare scuola, con lo scopo di dimostrare che non solo un'altra educazione è possibile, ma è quanto mai urgente praticare.
Raccogliendo le suggestioni che ci provengono da Albert Camus possiamo dire che educare significa toccare ciò che esiste di più vivo e vitale in ogni essere umano, è contagiare e accendere il fuoco della passione. Per consentire a questa contaminazione di svilupparsi, per permettere quella che l'anarchico individualista E. Armand definiva iniziazione, è indispensabile assumere una postura diversa, muoversi come ci si muove quando si cammina sulla sabbia e si cerca l'equilibrio, consci che ogni piccolo spostamento modifica l'equilibrio stesso. In altre parole, prendendo a prestito dei versi di Janusz Korckzak (educatore libertario polacco ed ebreo morto assieme ai suoi bambini nel campo di concentramento di Treblinka), è indispensabile mettersi di fianco, trovare il vero senso della parola rispetto, amare senza se e senza ma, in sostanza permettere a ciascuno di essere ciò che è:
«Dite: è faticoso frequentare i bambini. Avete ragione. Poi aggiungete: perché bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. Ora avete torto. Non è questo che più stanca. È piuttosto il fatto di essere obbligati a innalzarsi fino all'altezza dei loro sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi. Per non ferirli.»

Francesco Codello



La repubblica dell'immaginazione/
La dittatura dell'indifferenza

Credo di dire un'ovvietà affermando che il grado di civiltà di un paese vada misurato prima di tutto attraverso l'osservazione del suo sistema scolastico e poi, subito conseguente, nel rapporto che intrattiene con la cultura.
Nel libro di cui sto per parlare si dice: “La vocazione del maestro è tra le più elevate che l'uomo conosca. Né la politica né la religione ci conferiscono una missione più elevata di questo precipuo mestiere di dispiegare e rafforzare le potenzialità dell'animo umano”.
E inoltre: “Se i nostri figli non hanno imparato a pensare in maniera critica, non è perché vengono imbottiti di troppa poesia e storia. Al contrario, è colpa di una cultura che rende costoso e irrilevante l'accesso al pensiero libero. È colpa dei docenti stracarichi di lavoro e sottopagati, della mancanza di fondi pubblici per l'istruzione, della carenza di disciplina o di rispetto per l'apprendimento e per gli insegnanti: è colpa di una cultura troppo incentrata sui soldi, sul successo, sull'intrattenimento, sul rendere la vita più facile che significativa”.
Uscito lo scorso mese di agosto per quelli di Adelphi, il libro in questione è La repubblica dell'immaginazione (Milano, 2015, pp. 288, € 19,00) della scrittrice iraniana Azar Nafisi, resa famosa a livello internazionale da Leggere Lolita a Teheran, il suo primo libro, pubblicato in traduzione italiana nel 2004 (vedi “A” 398 - maggio 2015).
Azar Nafisi ha insegnato letteratura anglo-americana in varie università del suo paese fino a quando le restrizioni del governo degli ayatollah non gliel'hanno impedito. Dal 1997 vive negli Stati Uniti e dal 2008 è cittadina americana.
Oggi prosegue la sua riflessione spostando l'attenzione sul rapporto che il paese che la ospita intrattiene con la libertà, domandandosi se non sia forse possibile che la letteratura occidentale si rivolga più alle anime bramose di cultura della repubblica islamica dell'Iran che agli abitanti della terra dov'è nata. Chiedendosi se non sia per caso vero che chi affronta la censura, la tortura e il carcere per poter leggere libri, ascoltare musica, guardare film e conoscere opere d'arte vede tutto questo sotto un'altra luce. È possibile che nelle democrazie il bisogno di leggere non sia poi così impellente e perché?
Dice Scout, la bambina protagonista di Il buio oltre la siepe (romanzo di Harper Lee e bellissimo film diretto da Robert Mulligan nel 1962): “Leggere non mi è mai piaciuto tanto, finchè non ho avuto paura di non poterlo più fare. Non si ama respirare”.
Significa che per comprendere davvero la necessità vitale di una cosa è necessario arrivare al punto di perderla?
La scrittrice fa ruotare le circa trecento pagine del libro intorno a questi interrogativi e per farlo racconta storie, quelle dei protagonisti dei testi di cui parla, che si intrecciano alla sua che a sua volta si intreccia con quella di altre persone, in un fitto legame tra storie immaginate e storie vissute che non perde mai di intensità.
Parte dall'Ottocento, alla ricerca dei fondamenti dell'identità americana che si trova proprio nel carattere meticcio della sua popolazione, magistralmente narrata in quello che spesso è considerato un classico solo per ragazzi - Huckleberry Finn di Mark Twain - in realtà romanzo epico del primo ribelle americano e ancora attuale atto d'accusa verso la nostra coscienza sociale, in quanto ben documenta come le persone cosiddette normali o perbene, ma anche gli emarginati, possano smettere di ascoltare la propria interiorità e scegliere la più facile via che adotta i peggiori pensieri e pregiudizi sanciti dalla società. Tanto che, suggerisce la Nafisi, attraverso la lettura di Huck Finn possiamo arrivare a chiederci se atrocità come lo schiavismo e l'olocausto sarebbero potute accadere senza la complicità – o cecità volontaria – di tanta gente “perbene”.
Huck è un eroe ordinario, che sa scegliere tra quello che gli viene detto di fare e quello che invece ritiene giusto - forse esempio dell'individualismo americano nella sua forma migliore – figura molto più complessa del classico cowboy solitario che arriva in città, fa fuori i cattivi e se ne va in sella al suo cavallo.
Di quanta America siamo fatti anche noi italiani? Dagli sbarchi alleati di fine guerra, alla cinematografia, alla musica, all'immigrazione, l'Italia così com'è, nel male e nel bene, è l'Italia che siamo e il mito americano, costruito su una lunga schiera di piccoli eroi, anche noi l'abbiamo guardato e in qualche misura ci ha influenzato. E se Huckberry Finn possiamo trovarlo tra i compagni che hanno formato la nostra preadolescenza, Babbit vive di riflesso in tutto quel mondo governato dal vendere e dal comprare che ha imperversato, imperversa e ora vacilla.
George Babbit è il protagonista del libro più famoso di Sinclair Lewis: il classico americano che si è fatto da sé, che ha sgobbato per arrivare dove è arrivato e che vive in un mondo governato dal business. Ha successo, una famiglia, una buona posizione sociale, ricchezza e un futuro sorridente. Ciò nonostante Babbit si chiede il perché? Perché malgrado questo si sente insoddisfatto? Domanda che lo accompagna per tutta la storia.
Dopo Twain e Lewis, attraverso autori come William Faulkner e Carson McCullers - per citarne solo due - la scrittrice cerca di ripercorrere la storia del carattere e della realtà statunitense. Ci mostra le tante facce di un mito che ormai non sta più in piedi, che traballa insieme a tutto l'Occidente, perché la crisi, che affligge anche quel paese, non è solo economica o politica, ma “qualcosa di più profondo che sta sconquassando il paese: una visione mercenaria e utilitaristica insensibile al vero benessere della gente, che taglia fuori l'immaginazione e il pensiero, che marchia come insignificante la passione per la conoscenza.[...] Tutti gli stati – anche quelli totalitari – offrono lusinghe e tentazioni. Se cediamo, il prezzo che paghiamo è il conformismo: ci abbandoniamo ai dettami del gruppo. La letteratura è un antidoto, un memento sul potere della scelta individuale. Al centro di ogni romanzo c'è una scelta compiuta da almeno uno dei protagonisti, la quale ricorda al lettore che anche lui può scegliere di essere indipendente, di opporsi alle cose che i genitori, la società o lo Stato gli dicono di fare, e seguire il debole ma essenziale palpito del suo cuore”.
Con questo ottimo libro Azar Nafisi continua a portare avanti la sua battaglia in difesa del valore sovversivo della letteratura, di questa cosa meravigliosa che - come tutta l'arte, quando è vera - lascia libero il lettore di pensare e di sentire, di prendere le proprie decisioni riguardo ciò che sta leggendo. Che ci permette di osservare le storie degli altri, le loro scelte e, se vogliamo, sinceramente, porci la domanda: “E io? chi sono io?”.
Viviamo in una società che tende ad anestetizzarci, a non mostrare l'interezza di un esistere fatto di gioia, dolore, vecchiaia e morte, salvo poi ridurre le atrocità più feroci a quotidiano spettacolo televisivo senza emozioni. Siamo arrivati al punto che, invece di insegnare ai giovani come nella vita non esistano luoghi sicuri, che la sicurezza è illusoria e la sola possibilità che abbiamo è vivere, sentire la vita nella sua totalità anche dolorosa - perché questo è l'unico modo col quale possiamo preservare la nostra umanità -, siamo arrivati al punto di voler mettere le avvertenze sui libri laddove si raccontano gesti di violenza (perché questo è ciò che sta accadendo nelle università americane), così che le giovani anime degli studenti non vengano turbate e possano evitare di leggere, ad esempio, quei passi di Dante troppo trucidi o quel Tolstoj troppo realistico.
In fondo censurare la letteratura o rifiutarla equivale a rifiutare il dilemma che ci accompagna e che chiamiamo vita.

Silvia Papi



Per un'urbanistica
in chiave autogestionaria

Contro l'urbanistica (Torino, 2015, pp. 158, € 12,00) è il titolo di un saggio di Franco La Cecla, apparso quest'anno per i tipi della Giulio Einaudi che ho letto di recente. Prima di questo avevo letto il suo romanzo “faustiano” Falsomiele, il diavolo a Palermo (2014, pp. 224, € 13,00), edito nel 2014 da :duepunti edizioni.
Ho provato ad intrecciare le mie impressioni su questi due testi che parlano in realtà, sotto forme diverse - un approccio disciplinare il primo, romanzo il secondo - degli stessi argomenti.
Contro l'urbanistica il primo, si ma a favore dell'urbanità, o meglio contro la attuale disciplina urbanistica così come è venuta configurandosi dopo i suoi inizi libertari. Inizi che come ci ricorda La Cecla in un capitolo dedicato affondano le loro radici nella collaborazione in Inghilterra alla fine del XIX secolo tra Peter Kropotkin e Patrick Geddes, che attraverso la rielaborazione di Lewis Mumford, Ebenezer Howard e altri arrivano in Italia nel secondo dopoguerra attraverso le figure di Carlo Doglio e Giancarlo De Carlo, questi ultimi maestri miei e di Franco alla facoltà di Architettura di Venezia negli anni Settanta. Per La Cecla l'urbanità è “quella produzione di città che la gente fa normalmente vivendoci” citando Henry Lefebvre nel suo Il diritto alla città del 1967.
L'ineluttabilità della crescita illimitata dell'ambiente urbano a scapito di quello agricolo è un fantasma agitato per il proprio profitto dalle teorie neo-liberali oggi dominanti che tendono a distruggere ogni forma di partecipazione dal basso e ogni forma di autogestione e democrazia. Se la disciplina urbanistica oggi si affida principalmente alla promozione di smart cities e segue il mito della sostenibilità, confidando nello sviluppo tecnologico e nei supporti informatici, per La Cecla “la democrazia è la possibilità di circolare fisicamente in una città (non come veicoli ma come corpi) tra altri individui conosciuti e sconosciuti” come afferma Rebecca Solnit.
Il proliferare di modelli quali le smart city, le creative cities, resilient cities, open source cities ecc non sono altro che formule per l'omogeinizzazione di ogni insediamento sul territorio, la morte della città e il tentativo definitivo di por fine ad ogni forma di intervento dal basso per la creazione di insediamenti di collettività che possano contribuire a modellare il proprio ambiente. Oggi “Le città [...] promettono di essere puri hub dell'ubiquità, porte di accesso a una geografia smaterializzata.”
Contro l'urbanistica è anche la riflessione di un architetto-antropologo sul concetto di “Ubiquità” sotto forma di saggio, così come Falsomiele, lo è sotto forma di romanzo.
La Cecla ama la città, o meglio qualsiasi contesto urbano, dal piccolo villaggio alle gigantesche megalopoli asiatiche passando per Ragusa di cui fa una splendida apologia nel suo saggio.
Architetto non praticante, passato all'Antropologia Culturale, in realtà nelle sue opere migliori parla sempre di città, così come un altro architetto mancato, Orhan Pamuck, che dopo tre anni di architettura abbandona e si dedica alla scrittura.
Una sindrome diffusa quella dell'architetto che nella vita fa tutt'altro ma finisce sempre per cantare la città, i luoghi urbani e le persone che determinano gli spazi, quelli che stanno, come li definisce La Cecla. Ad esempio gli abitanti degli slums che praticano la logica dello “stare” e dell'immanenza che sfugge spessissimo a chi pianifica ma anche a chi lavora nelle Ong”.
Quasi tutti i romanzi di Pamuck parlano di città, della sua città, Istambul, e ne descrivono gli spazi attraverso i corpi che la abitano e la definiscono. Pamuck ha realizzato il suo “Museo dell'innocenza” a Istanbul come omaggio alla sua città, La Cecla da buon antropologo ha cercato ovunque la sua città, conscio che “l'antropologia è la filosofia che ha il coraggio di vivere fuori” citando da Tim Ingold. L'antropologia ha da insegnare molto all'urbanistica, sostiene La Cecla, e forse la frase di Ingold in trasparenza si potrebbe leggere come: “l'antropologia è l'urbanistica che ha il coraggio di vivere fuori”.
E La Cecla vive sempre fuori, come ne danno testimonianze le belle descrizioni di città intercalate al testo più propriamente di critica all'urbanistica. Città che pur essendo concrete e ben vive nelle sue descrizioni, da Yojakarta a Taskent o Shangai, passando per Istambul e Milano riecheggiano le atmosfere delle Città invisibili di Calvino o spesso come in maniera più trasparente in Falsomiele un affinità con la mitica città di Kalhesa del Progetto Kalhesa bellissimo racconto che ha pubblicato Giancarlo De Carlo con lo pseudonimo di Ismé Gimdalcha. Nel Progetto Kalhesa alla fine Ismé si chiede: “dove mai è Kalhesa? [...] Kalhesa non c'è, e anche che è dappertutto. Forse come tutte le città di valore inestimabile, Kalhesa ha la prerogativa di essere allo stesso tempo unica e universale”.
Khalesa, in modo trasparente è Palermo, la città di Franco La Cecla, la città dalla quale non esce mai nel suo Falsomiele pur intrecciando rapporti e avventure in tutto il mondo. La sua dannazione e la sua salvezza sta in una frase finale del libro: “che senso ha perdersi se poi uno torna sempre indietro”. Perdersi, sottotitolato l'uomo senza ambiente è a mio parere uno dei libri più belli di Franco insieme a Mente Locale, lo stare in un luogo col corpo e l'essere altrove pienamente, i due poli tra i quali La Cecla continua a oscillare e che tenta, ubiquamente di conciliare attraverso tutti i suoi libri e i suoi innumerevoli viaggi di studio. Franco venderebbe l'anima - o l'ha già fatto? - per poter essere contemporaneamente in tutte le città del mondo che ama o che desidera ancora scoprire, di persona, con il proprio corpo, mentre prende un gelato nella sua Palermo, “al Foro Italico, sul fronte di una Marina in cui il Mediterraneo è invisibile”, per avere il dono dell'ubiquità, come candidamente confessa nel suo romanzo Falsomiele. Franco sa benissimo che “Le guide mentono: I veri posti non ci sono mai.” Come recita l'incipit di Falsomiele. “E poi nelle guide di Palermo, Falsomiele non c'è mai. Nessuno che ci sia mai andato: No Falsomiele non c'è ed è per questo che Caruso ci va.”
Caruso alter-ego dell'autore finirà per accettare il dono del misterioso Gaetano Volpes, novello Mefistofele che regala la merce più preziosa oggi, l'ubiquità, l'essere ovunque, la “reductio ad unum” di un pianeta che il neo-liberismo vuole trasformare in un'unica enorme “città furbetta”, traduzione letterale di smart city, in realtà un'unica omnicomprensiva mart's city, luogo in cui trionfa il mart, un bel centro commerciale.

Franco Bunuga



Antispecismo e pensiero queer/
Percorsi per un'autodeterminazione

Se d'improvviso immaginassimo di trovarci al centro di uno dei capannoni in cui si allevano polli broiler, o di venire catapultati a bordo di un peschereccio industriale al termine della sua giornata di strascico, di fronte a quelle distese di innumerabili forse un brivido ci suggerirebbe che cosa significa per un corpo non contare nulla.
Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (Mimesis, Milano, 2015, pp. 108, € 10,00) è un titolo che può essere letto in molte direzioni. Gli animali “da reddito” nella nostra società sono corpi che non contano. Ed è per questo che molto spesso i loro cadaveri sono tanti che non si contano. Ma è anche un modo per interloquire con una delle più importanti filosofe del nostro tempo, Judith Butler (che ha scritto un testo famoso dal titolo Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”), e provocarne il pensiero verso nuovi orizzonti di senso.
Butler negli ultimi venti anni ha offerto alcuni dei contributi più interessanti per la filosofia contemporanea, in cui l'analisi della performance di genere e il riconoscimento del lutto come questione intrinsecamente biopolitica articolano una riflessione sui processi di costituzione del soggetto e sul suo posizionamento nella struttura simbolica della nostra società. Butler ha risposto con interesse alla provocazione con cui i curatori Massimo Filippi e Marco Reggio la intervistano a proposito della questione animale. E ciò è forse potuto accadere perché il pensiero queer e femminista, in quanto tenacemente fedele alla problematica dei corpi, ha per lunghi anni affilato gli strumenti più efficaci a decostruire la violenza strutturale su determinate categorie di viventi, e i binarismi normativi che sono capaci di “tagliarli fuori” dalla comunità morale.
I contributi che accompagnano l'intervista rafforzano il ponte con il pensiero antispecista e ci aiutano a rileggere, radicalizzandolo, il dibattito contemporaneo sul biopotere, sulle “vite precarie” e sulla vulnerabilità intesa non come limite ma come fondamento della comunità dei viventi. Filippi, Stanescu, Reggio, Iveson e Zappino partono dal confronto, appassionato e irriverente al tempo stesso, con i testi di Butler per parlare della necessità di riconoscerci “vite precarie”, corpi vulnerabili, “carne del mondo”, insomma in definitiva animali.
Al termine della lettura l'animalità si delinea come la soglia imprescindibile per capire i processi di distribuzione del potere, del privilegio, del riconoscimento morale, finanche della vita e della morte. Come suggerito da Massimo Filippi nell'Introduzione, «la definizione ontologica di che cosa sia una vita non può essere sganciata da una discussione squisitamente biopolitica». Impianto teorico che ci permette di individuare chiaramente nella questione “che cos'è la vita?” il problema fondamentale della nostra epoca, problema che non a caso è allo stesso tempo d'ordine metafisico, scientifico e politico.
È a partire da qui che si può cominciare a rintracciare, attraverso i diversi autori della raccolta di saggi, una tessitura nuova sul tema della vita e dei viventi, che sfida il paradigma moderno della Persona e della Vita, sacre e continuamente sacrificabili, e sviluppa arditamente tutte le possibilità dei concetti butleriani. Segue dunque al momento decostruttivo l'immaginazione di nuove forme etiche e sociali, «indispensabili per una politica che si fondi sulla corpeazione condivisa, una politica capace di metterci nella condizione di affrontare la realtà violenta della contemporaneità». Il lutto è il perno su cui si articola questo movimento in avanti: la consapevolezza della comune vulnerabilità dei viventi è portatrice di intenzionalità politica nel momento in cui, per dirla con le parole di Marco Reggio, «desidera che il proprio dolore per un evento ormai passato si rivolga al presente e al futuro, nella forma di una rivendicazione politica radicale».
Ecco dunque che quello tra pensiero antispecista e pensiero queer si fa uno scambio assolutamente biunivoco di strumenti concettuali. Se la “norma eterosessuale” sarà uno strumento utile agli animalisti per capire come funzionino i dispositivi di naturalizzazione delle performance sociali, è la questione animale che, secondo Federico Zappino può inquadrare anche il regime politico dell'eteronormatività in un dispositivo più ampio e che egli definisce “norma sacrificale”.
Ed è infine grazie a questa nuova amicizia che il movimento per la liberazione animale può abbandonare una volta per tutte la posa virile del protettore e quella eroica del salvatore, e interpretare il proprio agire politico come una forma di sostegno a una resistenza che viene innanzitutto dagli animali stessi, veicolo quindi di “solidarietà politica” alla loro autodeterminazione, in quella che «è già una società multispecifica».
Intorno alla voce di Butler i curatori costruiscono così un canto a più voci, che è quasi un requiem perché testimonia del lutto per gli esclusi, e quasi un canto di protesta attorno a cui si raccolgono le forze per sfidare il potere.

Benedetta Piazzesi



La bambina
invisibile

L'infanzia possiede risorse segrete per superare le difficoltà della vita. Lo testimonia una bambina senza stella, che conosce fin dalla nascita la disperazione dell'abbandono. Ma imparerà prima degli altri a fare ricorso alle proprie risorse interiori.
Silvia Vegetti Finzi, (Una bambina senza stella, Rizzoli, Milano, 2015, pp. 229, € 18,50) padre ebreo e madre cattolica, appartiene alla generazione di famiglie e bambini travolta, il secolo scorso, dalla catastrofe della guerra.
“La nostra vita non è tanto quella vissuta, quanto quella narrata, che non cessa mai di ricercare il senso del nostro destino”, scrive nella sua memoria autobiografica.
L'autrice guarda alla grande storia dal basso, con gli occhi dell'infanzia. La prospettiva sulla realtà si arricchisce dello sguardo di bambina. Mette al centro bambine e bambini, da sempre esclusi e muti. Un'infanzia invisibile, taciuta anche nella famiglia, insieme a molte altre testimonianze.
La bambina, ora adulta, raccoglie frammenti di ricordi per intravvedere un ordine. Vince il pudore della parte più intima e segreta, spesso sepolta sotto i sedimenti della memoria, là dove si dischiude il nocciolo dell'identità di ognuno. Così, allo stesso tempo, infrange un'omertà che ha impedito a generazioni di ricordare. La scoperta delle fotografie dei campi di sterminio nascoste sotto una pila di lenzuola rivelano il “non detto”, pesante più delle parole. Nomi di luoghi lontani e sconosciuti come Mauthausen, Auschwitz, origliati dietro la porta, insieme alla storia del nonno e degli zii scomparsi, emergono dal silenzio e infrangono un'omertà che ha impedito a una generazione ferita di ricordare.
Portata ad un precoce pensiero introspettivo a disvelare le proprie forze interiori, trarrà dal limite e dalla sofferenza per l'abbandono motivazione in età adulta per dedicarsi, come psicoterapeuta, proprio a quei problemi dell'infanzia, sofferti in prima persona. La narrazione autobiografica - a tratti una prosa poetica - si alterna a un'altra voce dialogante, più riflessiva. Questo bel libro dalla lettura piacevole rappresenta il frutto del sapere donato all'autrice, nella sua professione, dall'ascolto e dalla cura dei bambini.
Lasciata a venti giorni ad una giovane balia, proprio quando nel '38 in Italia vengono emanate le leggi razziali, la bambina conoscerà la mamma e il fratello maggiore cinque anni dopo. Per sfuggire alle persecuzioni che investono anche i figli di genitori misti, infatti, raggiungeranno il padre in Abissinia. Lo conoscerà solo dopo sette anni, al rimpatrio.
Accudita da bonari anziani parenti a Villimpenta, tra le risaie mantovane, nell'autunno del '43, proprio quando la campagna antisemita passa dalla discriminazione alla persecuzione, sarà costretta a trasferirsi in treno con la mamma-maestra a Manerbio, nella bigotta provincia bresciana. La bambina dall'identità espropriata e mai consolidata non sarà marchiata con la stella gialla cucita sugli abiti. Così, proprio durante il viaggio, dovrà pronunciare all'ufficiale nazista un nome e cognome che non le appartengono. E nel suo ulteriore peregrinare dalla campagna bresciana alla città, senza che nessuno le spieghi le ragioni, si percepirà come un'apolide, una senza luogo, lontana senza sapere da dove. Loro sono “i forestér”. E la conferma: il non esserci corrisponde alla sua collocazione nel mondo.
La bambina invisibile, non esistendo, si sente al sicuro. Sceglierà l'esilio volontario nel pianeta dell'immaginazione. Altera, corpo asciutto, zeppe di sughero, labbra rosso carminio, un aspetto da cinema, antifascista e miscredente, vedrà la mamma per la prima volta con gli occhi del paese, con la stessa estraneità e la stessa diffidenza.
La sente del resto come una non-mamma, dal cuore secco, nervosa, aggressiva, maschile. Fuma, legge il giornale, viaggia, ascolta i comunicati di radio Londra. Tuttavia, garantisce alla famiglia il necessario: spezza la legna per la stufa, fa il pane, il burro, prepara il sapone, tratta con il padrone di casa e i carabinieri.
Nell'autunno del '44, l'inizio della scuola con la mamma-maestra, ancora più rigida con la figlia per dimostrare a tutti che non le concede preferenze, toglie alla piccola ogni speranza di rinnovamento: non completerà la quinta elementare, per accudire la sorellina.
Intanto, gli stereotipi ingabbiano l'infanzia. Vaga, imprecisa, distratta, dicono assomigli alla nonna.
Una spilla in regalo con raffigurata un'oca - invece per il fratello geniale un libro - le varrà l'epiteto di piccola guardiana d'oche. Il burattinaio e l'asino stampati sulla cartella di cartone annunciano il suo insuccesso scolastico, mentre comincia a sentirsi cattiva come Pinocchio ed esposta alla vergogna come l'asino.
Ma la bambina con le antenne annusa il pericolo incombente. In assenza di presenze affettive, anche se dimenticata, scopre il bisogno di essere accudita e si cura da sé. Ama il bambolotto brutto, non piace a nessuno, e perciò le assomiglia: l'accudimento alla bambola è un accudimento di sé. Esce dall'autoesilio nel quale si è rifugiata con l'immaginazione. Capisce che il gioco solitario in presenza di un'amica comprende la solitudine. Così si apre agli altri.
A Brescia, la maestra non sarà più la mamma. Per la bambina, l'occasione di riprendere gli studi interrotti è l'inizio di una rivoluzione interiore. La vera accoglienza da parte della nuova insegnante, l'apprezzamento della sua intelligenza, l'orgoglio di imparare, il gusto della lettura dischiudono una vitalità tenuta troppo a lungo compressa. La bambina ha scoperto la sua stella, e si apre alla vita.
“Senza rischi non si cresce e chi non ha mai affrontato il dolore non ha potuto produrre anticorpi che difendano dallo sconforto e dalla disperazione”.
Un invito a leggere e ascoltare il bambino che è in noi, per capire, con partecipazione empatica, chi ci sta accanto, ma senza impedire a bambine e bambini di confrontarsi con le difficoltà del mondo reale.
Come in una lunga lettera rivolta a lettrici e lettori, l'autrice sollecita gli adulti a guardare all'infanzia come un'opportunità: nonostante tutto, sa trovare le risorse interiori per rafforzarsi e crescere forte e libera. Bambine e bambini sanno capire come attrezzarsi per sfidare la precarietà del vivere. E questa, per gli adulti, è proprio una bella confortante notizia.

Claudia Piccinelli