Rivista Anarchica Online





Uniti, ma divisi

testo e foto di Santo Barezini


Hear me white brothers
black brothers, hear me:
I have heard the words
They set (...) to divide you:
Dirty nigger, poor white trash,
Brothers listen well to me:
The same voice spoke them.
(da: “Speech”, Robert Hayden, 1939)

L'iniziazione con la burocrazia made in USA l'ho avuta circa un anno fa, quando varcai la soglia della Social Security Administration, una tappa indispensabile per il nuovo arrivato. Alle 8 di mattina la sala d'attesa già cominciava a riempirsi e si avvertiva nell'aria una certa tensione.
Il massiccio poliziotto all'ingresso, con l'aria annoiata di chi ha davanti a sé un'altra giornata senza storia, mi indirizzò con lo sguardo verso il distributore di numeretti. Accanto stazionava una pila di moduli celestini. Un scritta in inglese e spagnolo recitava: “mentre attendete il vostro turno compilate il formulario”. Così feci, ma quando giunsi alla domanda numero 6 andai nel panico.

6. Etnicità. Sei ispanico o latino? (risposta facoltativa).

Si capisce. È già abbastanza complicato orientarsi in un paese nuovo, comprendere una burocrazia diversa da quella con cui sei cresciuto. Figuriamoci quando la domanda a cui devi rispondere è inusitata. In questi casi comincio a sudare, faccio fatica a ragionare.
Ispanico o latino? Domanda elusiva. Lì per lì la differenza fra i due aggettivi mi sfuggiva.
Forse sono latino, mi dissi con l'ansia crescente, in fondo parlo una lingua neolatina. Ma poi mi resi conto che la lingua non c'entrava. Chi aveva predisposto quel modulo pensava ai latinoamericani: sono loro i “latinos” di New York. Apposi la crocetta sul no. Ma la domanda mi aveva colpito. Un pugno allo stomaco. Che significato poteva avere “etnicità” in quel contesto? Mi trovavo lì per una procedura burocratica, mica per partecipare a uno studio sociologico. E perché l'unica alternativa riguardava la popolazione di lingua spagnola? Perché un cileno o un messicano dovevano indicare la propria presunta “etnicità” mentre un danese o un italiano ne erano esentati? Mistero.
In altri paesi dove ho vissuto la domanda di rito normalmente riguardava la lingua madre o quella parlata fra le mura domestiche. Una domanda pulita, facile, apparentemente priva di implicazioni negative, pensata magari per conoscere il retroterra culturale, aiutare i figli in un percorso di integrazione scolastica.
Perplesso, continuai a scorrere il modulo, mentre il bip dal cartellone luminoso segnalava l'avvicinarsi del mio turno. Ma la domanda successiva era un altro pugno allo stomaco.

7: Razza. Selezionarne una o più di una (risposta facoltativa).

Provai a stropicciarmi gli occhi e a rileggere la domanda, ma non c'era da sbagliarsi, nel campo celestino le quattro lettere nere spiccavano inequivocabili: race, razza. Non cittadinanza, etnia, lingua, al limite colore della pelle. Ero incredulo.
Ho passato tante frontiere, avuto varie residenze sulla Terra. Ho sorseggiato il té nelle tende dei beduini in Cisgiordania, gustato l'hummus nei campi profughi in Libano e in Giordania, mangiato nelle baracche di fango e latta dei pobladores cileni. Ho percorso il corno d'Africa sconvolto dalla guerra e la Jugoslavia in fiamme. In tanti mi hanno chiesto chi fossi, cosa volessi, quali fossero la nazionalità, la lingua, la professione, lo scopo. Mille volte ho dovuto mostrare i documenti, rispondere alle domande di dubbiosi doganieri alle frontiere e minacciosi militari ai checkpoint. Ma anche nei luoghi più drammatici nessuno mi ha chiesto mai di che razza fossi.
Mi è capitato solo qui, nel paese del politicamente corretto e delle affirmative actions, il luogo dove ogni parola viene soppesata, dove un editore ha cambiato persino il testo originale dell'Huckleberry Finn di Mark Twain affinché la parola nigger, la parola che è anatema e non può più essere pronunciata in pubblico, scomparisse anche dalle pagine di un capolavoro, e i giovani non avessero occasione di incontrarla nelle letture scolastiche.
Questo paese ha eletto un presidente dalla pelle nera (l'uomo più potente del mondo) e mi ero illuso che avesse così sconfitto una volta per tutte i mostri del passato. Ma quel passato l'ho subito incontrato, nei moduli di un'assurda burocrazia che ancora oggi ti chiede di che razza sei. Se la civiltà si misura anche dalle parole, preferirei che i giovani potessero leggere e capire il testo originale di Twain, ma non crescessero ritenendo normale che l'amministrazione pubblica divida e conti i suoi cittadini secondo un astruso concetto razziale.
Comunque il modulo, implacabile, mi stava davanti. Dovevo compilarlo.
Avrei dovuto avere la lucidità e il coraggio di Albert Einstein che amava, sì, gli Stati Uniti, ma considerava il razzismo la loro piaga storica e alla domanda sulla razza di appartenenza rispondeva invariabilmente: “umana”. Ma il formulario, a risposta multipla, non prevedeva questa possibilità. Le alternative, anzi, viravano sull'assurdo:

nativo delle Hawaii, nativo dell'Alaska, asiatico, indiano americano, nero/afro-americano, altro isolano del Pacifico, bianco.

Strano miscuglio, senza capo né coda e senza senso apparente. Secondo quel bizzarro elenco un bengalese, un uzbeko e un cinese ricadono tutti nella “razza” asiatica; maliani, angolani, etiopi, neri americani, aborigeni australiani, a dispetto delle enormi differenze culturali e linguistiche, sono classificati secondo il colore della pelle in un unico gruppo razziale. Gli indigeni delle Fiji o di Samoa non sono conteggiati assieme a quelli delle Hawaii, pur essendo tutti isolani del Pacifico. I circa 100.000 individui che costituiscono la minuscola popolazione indigena dell'Alaska hanno il dubbio privilegio di un campo tutto per conto loro mentre apache, sioux, navajo, mohawk, arapaho, spokane e via dicendo sono tutti, genericamente: “indiani americani”. E tutti gli europei, i canadesi, gli australiani, i neozelandesi e ovviamente gli americani di pelle più o meno chiara sono accomunati sotto un'unica “razza” bianca che non credevo esistesse.
La risposta è facoltativa, c'è scritto. Sì, ma provate voi a trovarvi a vivere in un paese nuovo, entrare in un ufficio dove devono rilasciarvi un tesserino indispensabile per lavorare, aprire un conto in banca o firmare un contratto di affitto. Provate ad essere migranti alle prese con la burocrazia di un luogo conosciuto solo dai film, intimiditi dagli impiegati severi dietro agli sportelli, confusi in una folla di facce preoccupate, guardati a vista dal poliziotto che sembra uscito da un telefilm, grasso nella sua divisa blu, col distintivo sul petto e le manette che pendono dalla cintura accanto alla minacciosa pistola a tamburo. Provate a immaginarvi impauriti dalla possibilità di un rifiuto, dalla prospettiva di dover rifare i bagagli e andarsene. Decidete voi cosa avreste fatto. Io quel giorno misi la mia crocetta sulla casella che indicava la razza bianca, terminai in fretta di compilare il formulario e, quando finalmente apparve il mio numero sul tabellone luminoso, mi avviai preoccupato allo sportello.

Esseri estranei

Quando, poco dopo, guadagnai la strada, l'aria fresca di una bella mattina autunnale mi rasserenò un poco e cercai di riflettere sull'episodio, arrabbiato con me stesso e meditabondo. Forse proprio in quel momento cominciai a pormi la domanda che mi divora da un anno: “Che ci faccio, io, qui?”. Perché ho vissuto in luoghi dove mi sono sentito a casa e altri che mi hanno fatto sentire straniero ma per la prima volta mi sono sentito davvero estraneo.
È di quegli stessi giorni un altro episodio che mi capita di raccontare, confrontandolo con la vicenda del formulario, per evidenziare le strane contraddizioni di questo paese.
Nella difficile ricerca della casa capitammo a Washington Heights, un quartieraccio a nord di Manhattan, con strade anonime fiancheggiate da palazzi senz'anima. Percorrendo quei marciapiedi ci si sentiva improvvisamente trasportati in un altro mondo, come se non fosse più New York ma il barrio di una metropoli a sud del Rio Grande. Si spandeva nell'aria densa il profumo delle tortillas, dalle radio dei venditori ambulanti eruttavano ritmi latini e ovunque si sentiva parlare spagnolo, in un allegro miscuglio di accenti.
Ci accompagnava una giovane texana, lei stessa mezza messicana, un'agente immobiliare che per poter vivere e lavorare a New York doveva aver curato il suo accento, che aveva perso le asprezze a denti stretti del Texas.
Le chiesi se il quartiere fosse abitato in prevalenza da latinoamericani. Rispose che non poteva darmi quell'informazione: nella sua professione era vietato fare riferimenti di tipo etnico o razziale, a rischio di perdere la licenza. La guardai incredulo, la mia domanda era di genuino interesse, ma lei fu irremovibile, non intendeva rischiare il posto di lavoro.

Dettaglio del formulario per chiedere la Social Security Card
Un male da estirpare

Aveva ragione Einstein: la questione razziale attraversa tutta la storia degli Stati Uniti come un male difficile da estirpare. Un virus che si nasconde nelle pieghe della società, muta, resiste al tempo e alle cure, si riaffaccia di frequente e miete le sue vittime.
Basti pensare che alla fine del 2014 si contavano 930 gruppi fondati sui principi della “supremazia bianca”1, con un aumento esponenziale registrato a partire dall'arrivo di Obama alla Casa Bianca. Alcuni di questi gruppi si ispirano al tristemente famoso Ku Klux Klan, con circa 15.000 membri. La scrittrice nera Toni Morrison sostiene infatti che l'elezione di Obama ha peggiorato le cose per la comunità afro-americana, per la reazione di un'inferocita minoranza bianca che non vuole essere governata da un presidente nero.
La storia americana ci rimanda quest'immagine in chiaroscuro: dalla corte suprema che nel 1896 giudicò costituzionale il segregazionismo, ai giudici che negli anni 70 del novecento imponevano il “busing”2 per desegregare le scuole; dal fenomeno del “White flight”3 degli anni ottanta ai tentativi del Texas di aggirare le norme istituendo scuole “integrate” ma destinate alle sole minoranze.
Ancora oggi per chiedere una “licenza matrimoniale” in Alabama e in altri stati i futuri sposi devono dichiarare la propria “razza” e la risposta non è facoltativa. La razza è spesso indicata nei certificati di stato civile e, se nelle scuole è vietato utilizzare un linguaggio che possa in qualche modo agitare le acque delle differenze razziali, sulle guide ufficiali, per ogni scuola, accanto al programma di studi, è indicata sempre anche la composizione etnica degli studenti che la frequentano.
Dal medico, dal dentista, dal ginecologo, nelle cartelle cliniche lo spazio per indicare la razza del paziente non manca mai.
L'elenco potrebbe continuare. E pensare che questo è il melting pot. Tutti insieme, ma tutti divisi. Bisogna decidere a quale gruppo si appartiene.
A volte mi pare di essere il solo a trovare tutto questo angoscioso e mi assale lo sconforto. La gente che incontro, i colleghi al lavoro, trovano normale questo sistema, non si fanno domande. Sono assuefatti, abituati a pensare la società in termini di razza e colore della pelle.
“Se vai a vivere in quella zona sarai in minoranza nel quartiere”, mi disse uno che voleva consigliarmi nella ricerca della casa, “ma se hai abbastanza da spendere non sarai una minoranza nell'edificio dove abiterai”. Lo guardai attonito.
“Sono il nero con la posizione più elevata nella mia azienda”, sentii dire da un tizio in una conversazione fra amici captata al ristorante, “in tutto ci saranno tre neri che hanno raggiunto la mia posizione”. Non nascondeva l'orgoglio. Si capiva che, essendo nero, più in alto di così non sarebbe potuto arrivare. Rimasi allibito.
“Una realtà così complessa, con gente di tante culture e religioni, deve essere tenuta sotto controllo”, mi disse una collega, “altrimenti diventa ingovernabile”. La guardai, incerto su come rispondere. Il melting pot è una ricchezza o un problema?
Un'amica del Michigan, brillante antropologa e linguista, bianca, avulsa da qualsiasi sospetto di razzismo, mi spiega che questo sistema è necessario perché con una storia segnata dal pregiudizio, il sistema classificatorio consente di monitorare la situazione delle minoranze svantaggiate, verificare progressi e fallimenti di un percorso difficile e accidentato verso una vera uguaglianza. Non riesce a convincermi. Il sistema era in vigore anche prima della desegregazione, serviva a dividere, perché oggi dovrebbe aiutare ad unire?
Non riesco ad abituarmi, anche se, purtroppo, mi sono assuefatto e quando entro in uno studio medico non sussulto più quando arrivo alla casella in cui devo dichiarare la mia razza. Forse l'assuefazione è il primo passo.
Davanti a un piatto di cous-cous profumato di menta e cumino ho chiesto ad un vicino di casa algerino anzi, berbero, anche lui da poco negli USA, che casella avesse barrato lui quando si è trovato davanti il formulario del Social Security. Mi ha confidato sornione di aver messo la crocetta su white. “Sono andato per esclusione”, ha concluso con una gran risata. Meno male, ho pensato. In questa follia posso sentirmi un po' berbero anch'io.

Santo Barezini

Note

  1. “White Supremacism”: una forma di razzismo basata sulla convinzione che, possedendo i bianchi determinate caratteristiche superiori, dovrebbero imporre il loro dominio sulla popolazione non bianca.
  2. “Busing”: istituzione di trasporti obbligatori per studenti forzatamente assegnati a scuole anche lontane dalla zona di residenza, al fine di accelerare l'integrazione. Una pratica ancora in uso in alcune zone, origine di ricorsi, contestazioni e proteste anche violente.
  3. Negli anni ottanta del novecento un vasto numero di famiglie bianche migrò da zone miste a zone etnicamente più omogenee, per sfuggire a istituzioni quali il “busing”.