Rivista Anarchica Online





L'Abbreviazione eufemistica

1.
“Prof, buongiorno, glielo preparo subito”. È la prima frase che mi ha rivolto un essere umano questa mattina. Un cameriere, volendo essere più precisi, un cameriere del bar dove di solito faccio colazione (quando sono in trasferta, perché “di solito” la colazione me la preparo da me). A leggerla attentamente è una frase ricca di impliciti – le cose non dette ma presupposte sono tante. Per esempio, non si dice cosa mi preparerà, ma lui lo sa e io, a quanto pare, non ho alcun bisogno di dirglielo. Si noti: usa il verbo “preparare” e non il verbo “fare” – presumibilmente, quindi, non è il “caffè”, perché quello, di solito, “glielo faccio subito”. Mi chiama “prof”, non “professore”, e non aggiunge il nome – pertanto, si può presupporre una certa familiarità ormai instaurata. Il “prof” viene prima del “buongiorno” – c'è l'esito di un riconoscimento immediato e viene un po' meno la convenzionalità, quella convenzionalità che vorrebbe il “cameriere” dover innanzitutto mostrare la sua subalternità al “cliente”.
2.
Il “prof”, comunque, fa parte di uno sterminato catalogo di abbreviazioni che abbiamo imparato a governare. “Dr.” sta per “dottore”; “dr.ssa” sta per “dottoressa”, “Ing.” Sta per “ingegnere”, “Arch.” Sta per “architetto”: molte professioni hanno maturato questa sorta di diritto all'abbreviazione, mentre ai mestieri ciò non è stato concesso – nessuno scrive “Idr.” per “idraulico” o “Fal.” Per “falegname”. Nell'evoluzione dei linguaggi, abbreviare ha un senso – risponde al principio di economia. Nel parlato come nello scritto, le parole più usate si accorciano (e sarà per questo loro ricorrere con frequenza che le parole designanti gli organi sessuali sono fra le più corte nella maggior parte delle lingue) e, nei casi di gruppi di parole, si giunge all'acronimo. La Fabbrica Italiana Automobili Torino diventa Fiat.
Queste operazioni di “limatura”, tuttavia, hanno da essere condivise dai parlanti perché, in caso contrario, la comprensione di un messaggio risulterebbe difficile se non impossibile. In un negozio, faccio un esempio, leggo questo cartello: “Sch.ine”. Cosa vendono ? Se aggiungo l'informazione che il negozio si trova a Firenze e che si tratta di una panetteria – se introduco, cioè, qualche elemento del contesto della comunicazione – aumenta la probabilità che qualcuno riempia i vuoti, ovvero recuperi le lettere alfabetiche che, in base ad un principio di economia che in questo caso veniva applicato alle dimensioni del cartellino, sono state sacrificate e lasciate alla competenza del cliente lettore.
3.
Sul “frontespizio” dei tram di Milano, da molti anni a questa parte, stanno due informazioni: il numero e il nome del capolinea, ovvero dell'ultima fermata – raggiunta la quale, il tram fa il percorso inverso. È così, per esempio, che il tram “1” garantisce il viaggiatore di giungere, prima o poi, in “Pz. Castelli” o il “2” in “p.le Negrelli”, dove la prima abbreviazione sta per “piazza” e la seconda per “piazzale”. Tutto chiaro o abbastanza chiaro: ogni processo di comunicazione d'altronde, per compiersi, ha bisogno dell'apporto di entrambi gli interlocutori – all'implicito occorre saper sopperire con quel minimo di cultura diffusa senza la quale non riusciremmo a sopravvivere nella mutevole jungla delle relazioni umane. Il problema è il “14”.
I capolinea di ogni tram sono ovviamente due. Ma se “Lorenteggio” come capolinea del “14” non pone particolari problemi di disambiguazione – con “Lorenteggio” si può intendere sia un viale che il quartiere intero tagliato da questo viale -, “C.Maggiore” – l'altro capolinea – di problemi ne pone eccome. Lasciato a se stesso, “Maggiore” è un aggettivo, svolge, cioè, la funzione di aggiungere qualcosa a qualcos'altro, ovvero ad un nome. In teoria “maggiore” potrebbe caratterizzare uno dei tanti, tantissimi, nomi che in italiano cominciano con una “c” – inclusi alcuni che solitamente vengono considerati scurrili e che, certamente, non sono quelli cui l'Azienda Tramviaria Milanese e i suoi specialisti in comunicazione vogliono alludere. Di fronte ad un'informazione del genere, insomma, il viaggiatore resta disarmato. L'abbreviazione è così drastica che finisce con l'informare pochissimo, quasi nulla. Il milanese, ovviamente, sa e, sapendo, sopperisce per proprio conto all'implicitezza della comunicazione. Il “14” fa capolinea di fronte al “Cimitero Maggiore”, quella “C.” misteriosa sta per “Cimitero”; il non-milanese, quello che non sa, dovrà arrangiarsi – non solo per salire sul tram che lo porti alla destinazione voluta, ma dovrà arrangiarsi anche nelle mille altre pratiche quotidiane che la pubblica amministrazione con sagacia degna di miglior causa gli rende particolarmente ardue da espletare.
Svelato l'arcano, tuttavia, resta da spiegarne il perché. “Cimitero Magg.” Avrebbe occupato poco spazio in più, “Cimitero M.” un po' meno, entrambi avrebbero comunque designato la destinazione del tram con un discreto grado di chiarezza – il nome c'è, ed è quel che conta, l'aggettivo c'è un po' meno ma è facilmente deducibile. Perché, allora, in luogo di una comunicazione ridicola e indecodificabile non si è fatto ricorso ad una soluzione del genere? Sorge, legittimo, il sospetto che la questione riguardi la designazione del nome: “cimitero”. Che non stia bene, che non sia elegante nominarlo? Che, essendo il capolinea di tutti noi, vada rigorosamente taciuto? In tal caso ci troveremmo di fronte ad un caso di abbreviazione eufemistica – uno squallido caso di pudore sociale –, esattamente come in quei romanzi in cui vengono nominate certe altre parole che iniziano con la “c”, ma scrivendone soltanto l'iniziale e facendo seguire i canonici tre puntini di sospensione.
4.
“Sch.ine”, ahimé – incredibile, a volte, il coraggio degli abbreviatori -, sta per “schiacciatine”, al plurale, e la cosa che mi prepara il cameriere è un “the”. È il modo con cui, in trasferta, faccio colazione: bevo un the al bar e poi vado dal panettiere a comprarmi una schiacciatina.

Felice Accame