Rivista Anarchica Online




Ognuno a casa sua

Voglio parlare anch'io del bambino di Bodrum. Ne voglio parlare perché credo che dobbiamo essere consapevoli del fatto che, nel momento in cui l'immagine del suo corpo è stata fatta rimbalzare sui social, quel bambino ha smesso di essere un bambino, una identità definita, portatrice di un universo privato e personale, con una sua individualissima originalità. È diventato l'icona alla quale agganciare una indignazione furiosa ma, temo, passeggera, e ha consentito a noi europei di spostare il dibattito dalla risoluzione concreta di un'emergenza alla poetica universale – e pertanto inoffensiva – della guerra che uccide i bambini. Non la guerra “che ha ucciso quel bambino lì” e questo è tragico, ma la guerra “che uccide i bambini” e questo è un dato che proprio in quanto universale rischia di perdere ogni peso politico (e ricordiamoci sempre che io uso il termine “politico” col suo significato etimologico, ovvero: ciò che pertiene all'economia di relazione della comunità).
Nel 2000, cioè ormai 15 anni fa, un sociologo inglese di origini caraibiche, Paul Gilroy, esprimeva il profondo disgusto per alcune, ricorrenti forme di assolutismo etnico in grado di consentire, attraverso svariate semplificazioni, l'identificazione e il successivo isolamento di tipologie di “migranti”, proponendo tassonomie in vari modi rassicuranti, o al meglio, orientate dalla facile pseudo-solidarietà alla quale la cultura italiana (e non solo) è tristemente propensa.
Le immagini hanno un ruolo importantissimo in questo processo. Come scriveva Virginia Woolf in Le tre ghinee, qualunque fotografia di un massacro dovrebbe rendere autoevidente il fatto che la guerra, e ciò che ne consegue, è una barbarie. Il fatto è che nel 1938, quando Woolf scriveva il suo appassionato rifiuto di ogni forma di sostegno alla guerra, lo statuto della fotografia era molto diverso da oggi. Si riteneva, cioè, che essa fosse mimetica e oggettiva, e che dunque, diversamente da un quadro o da un testo in parole, potesse restituire la verità dei fatti.
Il tempo ha insegnato che le cose non stanno affatto così e che ci sono mille modi per fotografare uno stesso soggetto. Le innumerevoli opzioni delle quali l'autore della fotografia può fruire determinano scelte rappresentative che non sono meno soggettive di un atto pittorico o della descrizione letteraria di un massacro. Chi scatta la foto, cioè, mette in quello scatto la sua scelta espressiva, traducendo anche, almeno in parte, se stesso. Sempre di rappresentazione soggettiva si tratta.

La società dell'immagine

Il secondo fatto rilevante è che questa rappresentazione ha oggi due elementi in più che van tenuti in conto. La tecnologia necessaria per scattare una bella foto è alla portata di tutti (e la Apple ci sta sfrantumando gli zebedei nello sforzo di ricordarcelo ogni momento con gigantografie di foto scattate con l'iPhone). Questo significa che chiunque può documentare con una foto una tragedia, e non è detto che sappia cosa fare con quella fotografia, proprio perché non è che faccia il fotografo di mestiere (ora più di sempre “fare il fotografo di mestiere“ significa avere un cervello funzionante dietro l'obiettivo della macchina fotografica, non semplicemente scattare fotografie). Il secondo elemento, forse ancora più importante, è che chiunque scatti una fotografia può rendere pubblica l'immagine in un nanosecondo, sottoponendola alla decodifica di un pubblico che si raduna immediatamente intorno all'icona che viene fornita e offre le sue interpretazioni.
È successo questo, appunto, sulla foto famosa del bambino di Bodrum. Il popolo della rete ha fornito le sue interpretazioni, e in una colossale nevrosi collettiva ci si è anche accapigliati sull'opportunità di pubblicare e ripubblicare una foto del genere. Così il casus belli ha almeno in parte coperto il problema reale: cosa vogliamo fare per fare i conti con i problemi dei rifugiati? Perché credo che fatichiamo un po' di più a ricordare che la stragrande maggioranza di chi arriva alle nostre coste in questi giorni starebbe volentieri a casa sua se non ci fosse un conflitto in corso. L'allontanamento e l'esilio sono già un lutto, senza che ad esso si aggiungano morti inaccettabili e rifiuti ancora più inaccettabili.
Mentre scrivo, mi pare di stabilire l'ovvio. Però capisco anche che vi è una diminuita consapevolezza dell'altro come soggetto, “persona” portatrice di una differenza che non è e non deve essere solo etnica, ma articolata su più piani e soprattutto potentemente individuale. E se non riusciamo a capire questo, temo che non capiremo mai nulla di quel che sta accadendo ora in materia di richiesta d'asilo.

Nicoletta Vallorani