Rivista Anarchica Online


società

Stanze di vetro

di Francesca Palazzi Arduini


Fantascienza, anti-utopie, distopie del Novecento. Un confronto con oggi.


Ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi. E verrà il giorno in cui saremo in grado di ricordare una tale quantità di cose che potremo costruire la più grande scavatrice meccanica della storia e scavare, in tal modo, la più grande fossa di tutti i tempi, nella quale sotterrare la guerra.
(Ray Bradbury, 1953)


Zamjatin e gli altri: umanità senza potere tra passato e presente

La recente notizia1 che il governo russo possiede una centrale operativa della propaganda, allo scopo di riscrivere e commentare le notizie in modo favorevole a Putin, e che per questo impiega giovani laureati in veste di “troll” dello spazio web, ha riportato alla mente di tanti di noi una delle opere più note di Eric Blair, alias George Orwell, “1984”.
Si tratta di una conferma ad un'ipotesi che certo l'autore avrebbe colto con poca soddisfazione, poiché sottolinea quanto grande e inossidabile sia il fascino per la costruzione delle opinioni.
Scriveva Orwell: “Ho notato che mai nessun evento è correttamente riportato sui giornali, ma in Spagna, per la prima volta, ho visto servizi giornalistici assolutamente privi di ogni rapporto con i fatti, privi persino di quel rapporto implicito in qualsiasi menzogna ordinaria. [...] e ho visto giornali a Londra riprendere queste menzogne ed erigere costruzioni intellettuali, sovrastrutture emotive su fatti mai accaduti”2
Frasi che oggi ci paiono sia attuali che inattuali, perché da un lato siamo attualmente del tutto sicuri della nostra capacità di scavalcare i mass media principali, da credere di poter svelare ogni bufala, dall'altro l'impero della comunicazione è così pervasivo da annichilirci, condizionare i modi, e infiltrare qualsiasi terreno noi si bonifichi dalla propaganda, innanzitutto la nostra mente, più sensibile, irragionevole e permeabile di quanto noi si pensi.
È su questa debolezza che si basa la somiglianza con i racconti distopici del passato, immersi come siamo oggi in una serie di “distopie deboli” e frammentate, tanto che vale la pena confrontare e rileggere sia gli autori che hanno immaginato imperi collettivisti distopici nei quali l'educazione del cittadino avviene col castigo, come Orwell, Zamjatin e Rand, sia quello in cui la società distopica è amministrata con il premio, come Huxley e Bradbury. Questi modelli somigliano ancora ai nostri sistemi sociali e di governo, seppure in maniera “soft”, negli angoli ad esempio dell'amministrazione della giustizia, nelle biopolitiche come nella costruzione della socialità. Rileggere può servirci a capire dove questi modelli siano un po' troppo vicini alla realtà, e a farci delle domande su argomenti chiave affrontati da questi autori per primi, come la comunicazione di massa, l'impoverimento del linguaggio, l'educazione civica al conformismo, la proprietà statale sul corpo.

Il potere è meglio di fottere

Interessante, del grande racconto distopico di Orwell (1949), in cui la sparizione e riscrizione delle notizie avveniva metodicamente, è stato in quegli anni non solo il prefigurare una anti-utopia quale grido di allarme per il futuro, raffigurando una società in cui l'individuo non ha alcun potere/sapere, ma descrivere una oligarchia alla quale interessa più il dominio, il gusto del dirigere, che il denaro o l'agio.
“Il potere logora... chi non ce l'ha” diceva qualcuno, per esso si rinuncia a ogni altro accessorio e persino allo sfoggio della ricchezza... possiamo dire che l'inquietante segnale dell'esibita frugalità, dell'austerità propria di questi prototipi politici delineati nei racconti distopici, tutti impegnati a dimostrare il proprio disinteresse per sé e la propria dedizione al bene della collettività, è tuttora rintracciabile nella comunicazione politica, usata come alibi per il grado di democrazia di un sistema di governo. Il gioco consiste nello scambiare il vero problema politico, la partecipazione di tutti alle scelte, con la virtuosità della scelta di uno o di alcuni, giusta in quanto disinteressata a sé e fatta solo nell'interesse “comune”.
Quante volte sentite ancora dire che in politica il tal dei tali si è comportato bene quale “un bravo padre di famiglia”? E quante volte in Italia, in questi anni di attuazione di un governatorato “europeo”, abbiamo letto elzeviri e veline su quanto erano borghesi ma frugali e semplici nei costumi i nostri nuovi governanti - governatori? Si tratta di una traccia distopica “debole” in uno scenario teatrale abituato alla lotta politica condotta sulla base dello scandalo per corruzione.

Dai Padri allo Spread

Proprio ora, alle prese con la nuova figura di “Preside” nella “buona scuola”, possiamo notare come nei racconti distopici dei primi decenni del Novecento si stagli chiara la figura patriarcale del più potente, il Benefattore nel romanzo “Noi” (1920) di Evgenij Zamjatin, o il Governatore in “Il mondo nuovo” (1932) di Aldous Huxley, figura colta e bonaria che, come il portavoce del Grande Fratello di Orwell, legge libri vietati all'insaputa ovviamente di coloro che governa. Costoro usano il potere per far rispettare delle regole che loro stessi hanno scelto essendo però, al contrario della massa, consapevoli del fatto che le regole vanno applicate e seguite per opportunità e utilità ma non perché siano più soddisfacenti della trasgressione.
Tranne che in “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, romanzo che già rappresenta la società televisiva degli anni Sessanta, nel quale le autorità di riferimento per il sapere sono gli speaker televisivi, è sempre presente in questi testi un Vertice del sapere e del potere che dirige e addirittura officia, come in “Noi” di Zamjatin, delle vere e proprie liturgie di massa.
C'è però un legame tra queste società distopiche molto reggimentate e nelle quali è acclamato un Superuomo, anti-tributo letterario agli esperimenti sociali di Hitler e di Stalin, e quella descritta da Bradbury, nella quale invece, come oggi, l'obbedienza a regole già scritte e il conformismo passano attraverso i media e la scuola. Già in Zamjatin, ad esempio, nel 1920, è presente la riflessione sulla “ricerca di ordine”, sulla “mente matematica” che ritroviamo poi nella famosa trascrizione cinematografica del libro di Bradbury compiuta da F. Truffaut: sono le tabelline quelle che recitano i bambini a scuola e che reciterà sarcasticamente anche la signora della “casa-biblioteca” data alle fiamme dai solerti pompieri. Si tratta della ripetizione di verità semplici basate sull'aritmetica.
È la matematica la linea di riferimento del protagonista di “Noi”: “Sento le guance ardermi mentre scrivo. Sì: integrare la grandiosa equazione dell'universo! Sì: rettificare la curva selvaggia, raddrizzarla lungo la tangente – l'asintoto – la retta! Giacché la linea dello Stato Unico è retta. Una retta grande, divina, precisa e saggia: la più saggia delle linee”.
L'uniformità della retta è certo il contrario di tutti i simboli grafici internazionali che vogliono rappresentare unione, solidarietà, alleanza: il circolo stellato dell'UE, la corona di ulivo o di lauro, la forma stessa del nostro pianeta. Ma non è forse la retta una perfetta rappresentazione del governo dei numeri di oggi? La retta, che nel suo procedere verso una direzione potrebbe tendere al raggiungimento di un numero, di un tasso di Spread, è forse il simbolo ideale della politica che ci propongono oggi quotidianamente i mezzi di comunicazione, con le loro scarne tabelle di numeri che rappresentano la nostra situazione economica, ed è il Numero ciò che Governa nel nostro capitalismo, che di nuovo recupera l'idea kennediana della “felicità interna lorda” ma in realtà governa su di un unico dato: la cifra del profitto.
Come scrive Huxley nel 19583, e come vediamo purtroppo con l'evoluzione strutturale dell'Unione Europea, il governo dei numeri si afferma in modo che “tanto è più vasto l'elettorato, tanto minore il valore del voto”. Il potere attuale renziano si basa su questo assunto razionale: il numero parla, e anche predice. È l'indice del nostro benessere, e tutto ciò che si sacrifica per il profitto prima o poi farà discendere dall'alto i suoi frutti anche sulle masse. Renzi promette benessere cercando di rivestire i panni di quell'Unico tipico dei racconti distopici, quella figura alla quale si guarda perché ci dica cosa sentiamo e pensiamo. In questo egli interpreta un ruolo post-berlingueriano perfetto: oggi come allora è nell'Unico e solo che si ha fiducia, e quando questo scompare possono suscitarsi episodi isterici di massa, quando l'Unico scompare se ne va anche il Partito. Siamo dunque alle soglie di un crollo definitivo della forma partito personificata nel nostro Paese anche dal Pci ed ereditata sin nelle sue frange.

Emozioni e antipolitica

“Nuovo Ulivo? Uno sbadiglio ci seppellirà. Mandiamoli tutti a casa questi leader tristi del PD. [...]non è mica solo una questione di ricambio generazionale. Se vogliamo sbarazzarci di nonno Silvio, io così lo chiamo e non caimano, dobbiamo liberarci di un'intera generazione di dirigenti del mio partito [...] basta, è il momento della rottamazione. Senza incentivi.” Così esclama Renzi nel 2010 all'inizio del suo percorso di anticorpo al sempre più schiacciante successo del Movimento a 5 stelle. Si tratta di un discorso completamente fondato sul colpo di scena e sull'emotività, il messaggio non è il programma ma il modo. Ancor più di Berlusconi, che Renzi ammira per la capacità mediatica pervasiva, l'aspirante attore dell'One Man Show si appella alla giovinezza, all'ageismo, proponendo un vestito giovane per il Partito come se questo non contenesse le stesse linee programmatiche di genuflessione al capitalismo che proponeva un Monti.
E riguardo alla competizione con il M5S, delle cui contraddizioni abbiamo ampliamente parlato4, viene alla mente la descrizione orwelliana dei Due Minuti d'Odio, che in questo caso divengono di rito comune sui social media italiani contro la figura di Grillo, controverso padre-patron di un movimento che esprime un tentativo “civile” di riorganizzazione dal basso alieno ad ogni tipo di eredità politica definita.
Descrive così il Nemico del Popolo, Goldstein, verso il quale, regolarmente, sono organizzate sedute televisive collettive che finiscono con l'espressione libera e violenta di odio viscerale: “Winston avvertì una stretta al diaframma. Non riusciva a guardare la faccia di Goldstein senza provare un miscuglio di emozioni che gli davano sofferenza. Goldstein aveva uno scarno volto da ebreo, incorniciato da un'ampia e crespa aureola di capelli bianchi e da una barbetta caprina: un volto intelligente e però in qualche modo spregevole, al quale il naso lungo e sottile, su cui poggiava un paio di occhiali, conferiva una certa aria di demenza senile. Sembrava la faccia di una pecora, e anche la voce somigliava a un belato”.
L'odio verso colui che dice il vero ma è alieno dal Sistema, che oltretutto con la sua stessa esistenza contraddice e rende meno credibile una utopia (quella dell'autorganizzazione dal basso), è salito esponenzialmente scatenando un linciaggio mediatico, virale, sino alla vittoria di Renzi. Le polemiche sui social sono il segnale di crescita di una antipolitica sterile, priva di capacità, in una società le cui classi sociali sfruttate perdono sempre più memoria strategica del fare.5

Le “dieci” regole nelle stanze di vetro

Intanto la comunicazione politica somiglia sempre più a quella del Ministero dell'Abbondanza di Orwell, che annuncia sempre che il prezzo della cioccolata sta vittoriosamente diminuendo rispetto al passato.
Ciò che crea la sensazione di felicità, la cioccolata come la velina sui legami tra Prodotto interno lordo e benessere, è tema cardine per Aldous Huxley, nel romanzo distopico dal titolo anch'esso emblematico: Brave New World, capolavoro tra le fantasie sul controllo sociale.
Basta dare un numero, in questo caso “dieci”, per dare l'impressione di avere qualcosa da dire di solido. Di controllo sociale ne parlava già a fine Settecento, quando l'idea di un controllo visivo totale, in questo caso sui soli carcerati, veniva sviluppata tecnicamente. Si ampliano poi nei regimi totalitari raffinate tecniche di spionaggio del cittadino e tra cittadini6. Si giunge alle costruzioni informatiche delle Intelligence mondiali con i satelliti spia e la raccolta di dati dalle comunicazioni private. Si è aggiunta alla denuncia di progetti quali “Echelon”, di cui in realtà si sa poco e nulla, anche lo scandalo della costruzione e cessione di rapporti sulle attività degli utenti da parte di Google e Facebook, da parte dei provider web e dei gestori della telefonia... tutto coincide con le famose dieci regole, in realtà il numero varia, fumosamente attribuite a Noam Chomsky, ma già prefigurate proprio da Huxley nel suo saggio “Ritorno al Mondo Nuovo”, nel 1958, a quasi trent'anni dalla stesura del suo romanzo. In questo saggio Huxley rivede tutte le tematiche della sua distopia che ritrova nella società di allora: il culto dell'organizzazione tecnologica, la propaganda attraverso la pubblicità, l'uso di sostanze chimiche, la ripetizione metodica di frasi “ipnopediche” attraverso i media, tante considerazioni alcune delle quali sono veggenti anche oggi, come nel caso della “persuasione chimica”, che ora potremmo rivedere in quel “Manicomio chimico” descritto da Piero Cipriano, il quale denuncia come l'uso di psicofarmaci possa sostituire quello delle droghe e viceversa, in una società nella quale ogni comportamento pare essere un sintomo ed ogni sintomo va curato solo come tale7.
Il “soma”, la musica associata a odori e colori, la sollecitazione sessuale dissociata dalla vita in comune ed il culto della forma fisica erano già sarcastiche parafrasi ne “Il Mondo Nuovo” di una società della Performance edonista e infantile. Già, nel 1932. Capire che la descrizione delle “10 regole del controllo sociale” attribuite a Noam Chomsky, sono solo una miscellanea, evidenzia quanto l'anonimato e la liquidità del web, sul quale ormai fondiamo il nostro sapere, siano pericolosi. Queste “dieci” regole sono valide: la distrazione dal argomenti importanti in favore di scandali, la creazione di falsi problemi per coprirne dei reali, la gradualità per far accettare ciò che non è gradito... il problema è che non abbiamo un vero autore né individuale né collettivo e che non c'è un soggetto di questo elenco, o meglio il soggetto è forse lo Stato, o il Potere, ma non ha un nome.
Questa incapacità di conoscere i nomi, o di agire su chi li porta (se, come Pasolini, si “sanno i nomi”), va di pari passo con la possibilità di vedere, atomizzato nella sua nuda individualità o riunito in un insieme identitario, chi ci sta accanto, come vivesse in una “stanza di vetro”, la finta trasparenza invocata dell'inventore di Facebook, che è prefigurata invece come realtà materiale nel romanzo di Zamjatin ove le case hanno muri trasparenti: “Il resto del tempo lo trascorriamo fra le nostre pareti trasparenti, come intessute d'aria scintillante: viviamo sempre in vista, in un perenne bagno di luce. Non abbiamo niente da nascondere gli uni agli altri: Per di più, ciò agevola il lavoro oneroso ed elevato dei Custodi”. Come in Zamjatin la nostra società è ‘trasparente' ma vive di anonimato.

Scie chimiche per persone invisibili

Collettivo 0-0009, Fraternità 9-3452, Democrazia 4-6998, Unanimità 7-3304...i nomi dei protagonisti del romanzo “Anthem” di Ayn Rand ironizzano sulla società sovietica, nella quale chi decide parla sempre per il “Bene comune”, quanto diverso per lei, acerrima individualista scappata dall'URSS, era il valore di questo termine che ora invece tutti stimano come estremamente positivo di fronte all'aggressione del Capitale.
Nei racconti distopici di allora torna spesso l'uso di sigle come nomi individuali, nella realtà di oggi l'individualità accentuata sui social media è come allora fasulla, perché corrisponde ad una costruzione artificiosa del sé quanto “Democrazia 4-6998”. Hanno “Nick name” anche quei folletti di cui accennavo all'inizio, coloro che, siano militari statunitensi o “impiegati” di Putin, sono impegnati a indirizzare l'opinione pubblica che sfugge ai media principali scorrendo invece nelle conversazioni online.
Le nostre società producono comunque uomini e donne invisibili: perché artefatti, clonabili, perché virtuali, con la memoria nei Cloud, con un sapere che poggia sui motori di ricerca e sulle piattaforme, strumenti gestiti dai “Custodi”. Anche per questo la diffusione di notizie Top Secret, di materiali scottanti hackerati, non ha alcun uso reale e concreto se non quello di confermare con maggiori, se vere, informazioni, l'impotenza collettiva.
Vediamo dunque come la frammentazione del discorso e la distrazione disinneschino ogni possibilità di concentrarci, come massa, su temi radicalmente differenti e rivoluzionari8. Immaginiamo una diversa versione della scena della scimmia alle prese col femore in “2001 Odissea nello spazio”: la scimmia non gioca col femore ma con una quantità tale di ossa e ossicini che non troverà mai quel gesto cui ispirarsi per capire uno strumento. Distrazione, mancanza di concentrazione e di memoria, quindi, sono depotenziamento delle nostre capacità. La sensazione di essere depotenziati ha causato fenomeni come quello delle “scie chimiche”, nel quale milioni di persone credono, come discesa “dal cielo”, ad opera dei governi, di sostanze dannose per la lucidità psichica. Senza ricorrere a Jung e al suo “Cose che si vedono nel cielo”, basterebbe pensare alla burocrazia, a piccole cose come il 730 precompilato9, o grandi come la non applicazione dei basilari diritti umani, per capire che l'impossibilità di “processare” tutte le informazioni e di ottenere le informazioni giuste dia alle persone la sensazione di essere in trappola. Cosa meglio di una “scia”, di un “segno” celeste per far comunicare l'inconscio?
E come escono dalla gabbia i personaggi delle distopie del Novecento? La Rand li porta nella Foresta, Zamjatin vorrebbe portarli al di là del Muro Verde, Orwell nella periferia verde della città, nei sobborghi dove però vengono anche spiati ed acchiappati, Huxley nella riserva ove vive il Selvaggio. Bradbury porta gli Uomini Libro lungo la ferrovia, oltre le città, esuli, ribelli tra i boschi dai quali vedranno radere al suolo la città nella guerra. “Ogni tanto siamo fermati e frugati, ma non abbiamo nulla sulle nostre persone che possa incriminarci. La nostra organizzazione è flessibile, molto elastica e articolata... Ora abbiamo un compito orribile a cui attendere: aspettare che la guerra cominci ad essere combattuta e con la stessa rapidità giunga alla sua consumazione. Non è piacevole, ma d'altra parte noi siamo il governo, noi siamo la minoranza degli strambi che gridano nel deserto. Quando la guerra sarà finita, forse potremo essere di qualche utilità al mondo”.
Se questo è il nostro destino, non so voi ma io preferirei provare altre incruente e più ambiziose soluzioni.

Francesca Palazzi Arduini

Note

  1. “Nella fabbrica della propaganda” in Internazionale n. 1103, maggio 2015, traduzione da The Guardian di un articolo di Shaun Walker.
  2. George Orwell. “All Propaganda Is Lies”, Opere, 1941-1942.
  3. Nel saggio “Ritorno al mondo Nuovo”, ripubblicato poi in appendice alla riedizione del romanzo.
  4. Anche nell'articolo “Berlu is a Virus” pubblicato su “A” n.362 nel maggio 2011.
  5. Il tema della memoria è centrale anche nel romanzo di Bradbury “Fahrenheit 451” nel quale sulla memoria degli Uomini Libro si basa la possibilità di ritrasmettere il sapere.
  6. Le stesse rivisitate ora dall'ISIS nella sua campagna porta a porta di infiltrazione.
  7. A proposito di memoria: non è forse Erich Fromm, ben prima di Massimo Recalcati, a denunciare come i sintomi del disagio psichico vengono curati in quanto tali e non come segnale di un problema più profondo?
  8. Elias Canetti ricorda, nel suo fondamentale “Massa e potere” (1960), la differenza tra forza e potere, il potere si esercita nel tempo se si ha la forza ma anche la velocità di prendere e lasciare il topo, di poterlo ghermire, cosa per cui è utile la visione dall'alto, e il rilevamento delle informazioni che dà la possibilità di decidere su chi e quando sia utile l'esercizio della forza o quello dell'attesa.
  9. Su Fisco e controllo sociale vedi “Kafka contro Serpico”, “A” n.373, estate 2012.