Rivista Anarchica Online





Dimenticare il lavoro


Perché lavorare? Per guadagnarsi da vivere, certo, ma come? Per quanto tempo ancora possiamo praticare la politica dello struzzo, quando la maggior parte degli impieghi che ci vengono proposti dall'Impresa sono nocivi per la società o pericolosi per gli stessi lavoratori o inquinanti o, ancora, degradanti – fabbricare armi è un lavoro degradante perché implica il coinvolgimento nella morte di altri esseri umani. La maggior parte dei lavoratori è ridotta a inventarsi giustificazioni che, come sappiamo, non sono veramente tali: lavorano perché hanno una famiglia da mantenere, o perché non sanno fare altro che lavorare. E infatti non è la scuola che ci insegna a sottrarci all'Impresa, ma proprio il contrario, perché questa è sempre di più una specie di centro di apprendistato per futuri adulti, nel quale le opzioni sono scelte dagli allievi in funzione dell'accesso a un lavoro che, così si pensa, tali opzioni possano facilitare in un futuro prossimo (e allora via il greco antico e la geografia, evviva l'informatica e il cinese!). La crisi che sta vivendo questo pianeta e le nostre società non è dunque soltanto la crisi dell'Impresa e del Potere, è anche la crisi del Lavoro che ci porta in un vicolo cieco.

Alle ortiche le false critiche del sistema!

Scriviamo con la maiuscola Impresa perché, come lo Stato, ha diritto a essere scritta così: infatti, è la forma che ben presto prenderà il posto dello Stato, almeno negli auspici dei neoliberisti, tanto più che, impegnati da due decenni in questo senso, ottengono un successo dopo l'altro. Spetta a noi quindi capire la logica dell'Impresa, perché noi sudiamo sangue a lavorare per Lei. Capirla per spaccarla, se non addirittura per portarla alla rovina.
Le cosiddette leggi dell'economia fanno a gara per mostrare che la logica industriale – ivi compresa l'agroindustriale – come quella finanziaria è di andare verso il sempre più: mercato più esteso, lavoratori più produttivi, imprese più redditizie, profitti più consistenti ecc. Non serve a niente discutere questo punto, evidenziato sia dagli adepti al sistema sia dai suoi critici. Il problema si pone con i “falsi critici” del sistema, che si limitano a criticare le forme assunte da questi “più”. Essi si pongono nell'ambito di una critica superficiale, che suppone che le imprese dovrebbero trattare meglio i lavoratori perché rientrerebbe nei loro interessi, in particolare perché i lavoratori sarebbero più felici e in migliore salute, dunque lavorerebbero meglio – un'idea del tutto ridicola in una fase in cui i tassi di disoccupazione sono elevati e in cui un vero e proprio esercito di riserva è completamente a disposizione dell'Impresa, che dunque non ha bisogno di prendersi la briga di vezzeggiare i suoi “protetti”. Queste false critiche fanno appello a una migliore distribuzione delle risorse, tramite diversi tipi di tassazione, le cui percentuali sono talmente ridicole, anche in questo caso, che ci si chiede come una simile polvere negli occhi riesca ancora ad abbagliare alcuni di noi. La Tobin tax è l'incarnazione della inanità di tali proposte, nel momento in cui i debiti accumulati dagli Stati, dalle Imprese e dalle famiglie sono quasi il triplo del prodotto lordo planetario, vale a dire 200.000 miliardi di dollari nel 2014.1 Ebbene, questa cifra, che non osiamo neppure definire astronomica, indica una duplice realtà.

I due segreti del sistema economico

In primo luogo, questo sistema funziona perché la stragrande maggioranza di noi non sa come funziona, e perché coloro che lo capiscono ne sono quasi sempre i beneficiari, i complici o delle persone ciniche – degli “avidi”, direbbe l'economista Joseph Stiglitz.
In secondo luogo, riprendiamo quanto diceva lo storico Marc Bloch:2 questo sistema funziona perché ci sono sempre dei crediti in corso e si sovrappongono gli uni agli altri. Sono questi che fanno vivere l'economia, che fanno vivere l'Impresa, come lo Stato, come le famiglie. Infatti, e prima di tutto, constatiamo che già da decenni le banche centrali non possiedono più le riserve in oro corrispondenti al valore facciale del denaro che emettono; ebbene, esse continuano a emettere miliardi di dollari, di euro o di yen senza che le monete perdano valore, come dovrebbe accadere se la legge “più ce n'è, meno vale” fosse vera. Purtroppo, la Vera Legge è: “Più ci si crede, più il sistema funziona”, e poiché abbiamo tutti interesse a credere nel valore del denaro, allora possiamo indebitarci, inventare della moneta che non ha un controvalore né in oro né in qualsiasi altra cosa, a parte dei pixel su dei monitor. Non dobbiamo far altro che fare affidamento sul nostro... lavoro per rimborsare alla banca i nostri debiti. Le imprese, invece, funzionano su un modello più complesso, perché sono tentate di fare soldi speculando, e qui non possiamo approfondire oltre questa tentazione che pure è decisiva agli effetti delle cause della crisi attuale. Torniamo dunque all'Impresa in rapporto con i lavoratori.
Questi ultimi le sono necessari perché producono e consumano ciò che hanno prodotto. Più contraggono crediti, più si fanno schiavi del proprio lavoro, poiché il lavoro resta l'unica fonte della loro “ricchezza” pecuniaria, e quindi l'unica loro possibilità di rimborsare il loro “debito”. Questo circolo “virtuoso” dal punto di vista dell'Impresa porta a produrre sempre di più per soddisfare sempre meglio dei lavoratori... sempre più alienati dai prodotti che producono e che, in ultima analisi, hanno solo lo scopo principale di applicarsi, mani e piedi legati, alla sopravvivenza del sistema, quindi dell'Impresa, quindi del padrone che fornisce loro il famoso Lavoro... che però li distrugge in quanto esseri umani pensanti, che si ritengono liberi e che dovrebbero adoperarsi per l'emancipazione di tutti gli esseri umani. Il cerchio è, al tempo stesso, vizioso e oliato. [...]

Obiettivo: l'abolizione del lavoro

Non pensiamo che il rifiuto di essere distrutti da un sistema, nel 2015, sia qualcosa di diverso da una tensione, anche se tale tensione potesse sfociare, molto velocemente grazie a un qualche movimento, per reazione a questa o quella evoluzione politica, in un rifiuto del lavoro di ampio respiro – in quello che, in linguaggio politico-sindacale, viene chiamato uno sciopero, e che noi preferiamo definire qui un tentativo di stare insieme.
Il lavoro non è sostenibile e non è costitutivo dell'essere umano. Noi siamo gli unici animali che lavorano – alcuni animali possono dare l'impressione di lavorare, come il castoro, ma in realtà, la sua attività di costruttore ha scopi diversi da quello di trarre profitto... Eppure, la maggior parte di noi affermerebbe che il lavoro è tipico dell'essere umano. Ma perché? Anche l'arte, per fare solo questo esempio, è uno degli elementi “tipici” dell'essere umano. E la creatività vale assai di più del lavoro! Dopo tutto, anche l'estetica è una spiegazione del mondo: potremmo decidere di fare questo invece di quello, perché questo è bello e quello è brutto, anche se quello è più redditizio di questo!
Infine, nel lavoro, ci sono numerose categorie di attività. Non dovremmo far rientrare in questo stesso termine la persona che coltiva il proprio orto per nutrirsi e nutrire la propria famiglia con sistemi naturali,3 e l'agricoltore industriale che coltiva distese immense per trarre profitto, mediante macchine agricole, pesticidi, fertilizzanti... Non bisogna agire contro ciò che ci permette di vivere, è un totale non-senso. Il capitalismo è un sistema produttivo fondato sulla distruzione: tramite le guerre e tramite proprio il suo sistema di produzione.
Questa evoluzione si produce “disobbedendo” alle ingiunzioni dell'Impresa – che, con Lewis Mumford, possiamo anche chiamare la “Megamacchina”. Si rifiuta un po', poi un po' di più e così via. E in tal modo si costruisce la propria liberazione – che, naturalmente, non può essere totale né perfetta nel quadro di questo sistema, ma, di fronte alle catastrofi attuali o future, la costruzione di alternative concrete e credibili, benché modeste, e la riflessione che collega tra loro tutte le pratiche emancipatrici e contestatarie ci permetterà di andare verso il non-agire, nel senso di smettere di agire contro gli altri e contro questo pianeta e, in ultima analisi, contro noi stessi.

Philippe Godard
Francia

Note

  1. Cfr., per esempio: http://www.economiematin.fr/news-dette-mondiale-augmentation-remboursement-pays-PIB-crise-bulle-sannat.
  2. Su questo argomento fondamentale cfr. Massimo Amato, Il luogo dell'economia? Il debito, in “Libertaria”, ottobre-dicembre 2007.
  3. Cfr. l'edificante e magnifica Lettre aux paysans sur la pauvreté et la paix, di Jean Giono, éditions Héros-Limite, Genève 2013; tr. it. Lettera ai contadini sulla povertà e la pace, Ponte alle Grazie, Milano 1997.


Globalienazione/Cancella il tuo prossimo con un click

Una delle caratteristiche più conosciute (e dileggiate) dell'anarchia è che essa presuppone che l'uomo, per costituzione, sia buono, o meglio che sia empatico, che per natura si interessi del benessere degli altri.
Questa sorta di ottimismo connaturato alla teoria anarchica è uno dei motivi per cui l'anarchia viene considerata come utopistica, irrealizzabile. Il tutto sulla base della constatazione che l'uomo non sembra affatto buono per natura, anzi più conosciamo i nostri simili meno affidamento tendiamo a fare sulle loro capacità empatiche.
Eppure...
Un anarchico direbbe però che basta poco per dimostrare la natura empatica dell'uomo.
Pensate di stare uscendo di casa e, dalla porta di fronte, esce un vostro vicino che si sente male. La grande, stragrande maggioranza di noi non volterebbe la faccia dall'altra parte, ma al contrario chiamerebbe l'ambulanza, cercherebbe di portare un piccolo aiuto, quasi certamente rimarrebbe il tempo dell'arrivo dei medici. E cosa ancora più importante, dopo si sentirebbe bene, in pace con se stesso, nella coscienza di avere fatto qualcosa per qualcun altro disinteressatamente.
Quand'è casomai che la naturale propensione all'empatia può venir meno? Immaginate di uscire dalla porta e trovarvi non un vicino che sta male, ma tutti gli abitanti dell'intero quartiere che stanno male. A quel punto vi trovereste in una situazione in cui non potete dare una mano a tutti, anzi addirittura non potete nemmeno dare retta a tutti; in quel caso le reazioni possibili sono varie, dal panico fino all'ostilità nei confronti di tutti i vicini, “rei” di essere malati.

Grandi numeri

Sono i grandi numeri a renderci disumani, come ben sapevano i nazisti. Un malato, uno straniero non suscita il nostro odio, ma tanti malati, tanti stranieri, tanti poveri ci creano diffidenza perché rappresentano qualcosa con cui è difficile relazionarsi singolarmente.
Non è un caso che il rapporto uomo-massa sia stato alla base della riflessione filosofico/politica per un lungo periodo di tempo, diciamo dall'Umanesimo fino al XX secolo, tanto che uno dei principi della democrazia intesa in senso rappresentativo è che la guida della comunità sia scelta in base alle sue qualità nella gestione dello stress di doversi porre in rappresentanza di una massa di individui.
Ma con la globalizzazione lo stesso rapporto uomo-massa è diventato obsoleto, e non sul piano filosofico, quanto su quello reale.
Il “tempo zero” della comunicazione virtuale, priva di vincoli e di confini, ha permesso lo spostamento immediato di enormi quantità di denaro da una zona all'altra del globo, il che – sul piano sociale, nella vita di tutti i giorni per intenderci – ha comportato la possibilità di decidere della vita di un'enorme quantità di individui attraverso un semplice click. Basta un click per fare fallire un'azienda, per distruggere i risparmi di milioni di individui, per mandare sul lastrico l'economia di intere nazioni. Con un click, un atto che ciascuno di noi compie centinaia di volte al giorno.
La globalizzazione ha generato una forma di alienazione, di spersonalizzazione di livello ancora più maestoso dei vari tipi di alienazione studiati nei due secoli precedenti: potere decidere della vita degli individui senza nemmeno doverli mai vedere in faccia, esercitando semplicemente il proprio diritto a spostare dei soldi da un posto all'altro. Se non sai cosa causerà un tuo semplice gesto, di cosa puoi essere accusato? Nell'era della globalizzazione finanziaria, il male non ha le mefistofeliche sembianze di un gerarca nazista, quanto di un impiegato grigio con gli occhi perennemente rivolti ad uno schermo pc: ci aveva visto giusto Hannah Arendt quando parlava di “banalità del male”.

Anche se ci crediamo assolti

Beh, direte voi, chi muove le fila, chi materialmente ha il potere di disporre delle vite di migliaia di individui attraverso un click è soltanto una piccolissima parte della popolazione, quel famoso 1% cui fa riferimento un celebre slogan dei manifestanti di Occupy.
Orbene, non è così semplice.
Guardiamoci allo specchio, guardiamo cosa indossiamo, che prodotti mangiamo, dove lavoriamo. Indossiamo capi “made in China” perché sono tra i pochi che ci possiamo permettere, compriamo generi alimentari prodotti in Puglia e in Campania perché costano meno, lavoriamo per persone e istituzioni ai cui ideali mai e poi mai intenderemmo allinearci. E non stiamo, così facendo, nel nostro piccolo, supportando lo sfruttamento dei lavoratori cinesi o dei migranti schiavi nelle piantagioni pugliesi? Come il Jocker di Full metal jacket – che esponeva sul vestiario sia il simbolo della pace che la scritta “Born to kill” – tutti noi portiamo sul corpo i segni della nostra incongruenza, (in)consapevoli vettori di ideali che dovremmo combattere. Comprare prodotti creati attraverso lo sfruttamento non è come sfruttare direttamente le persone, ma ne siamo proprio certi? Anche operare in borsa non è come espropriare dei beni migliaia di persone, ma per molti versi lo è.

La risposta dell'Anarchia

Le contraddizioni che caratterizzano la realtà odierna, che ci caratterizzano, finiscono per minare la stessa appartenenza ad ideali anarchici “classici”.
Per questo è decisamente avvertita, oggi, la necessità di riconsiderare il pensiero anarchico utilizzando chiavi di lettura della realtà che siano compatibili con la situazione attuale, e che soprattutto permettano di opporsi al sistema dominante in maniera fattiva e proficua.
Non mancano sicuramente studi teorici su tale tematica, e la stessa Rivista che ospita il presente intervento si è fatta spesso carico di affrontare tale tematica; manca casomai un quadro di insieme che permetta di individuare chiaramente le varie ipotesi formulate per dare concretezza all'azione anarchica nel mondo globalizzato. Come dimostra la nuova legge elettorale italiana e le dinamiche attuali che regolano il rapporto tra governo e cittadini, è assai complicato avere un peso tangibile sulla scena politica, e la cosiddetta società civile sembra completamente scollata e ininfluente non solo all'interno dell'agone politico, ma anche su quello che potremmo definire ideologico, o culturale. Non è un caso, quindi, che all'interno del movimento anarchico si rilevino posizioni che intendano affrontare la situazione in modo assai differente: da chi volge gli occhi verso l'ambito internazionale per prendere nota e far tesoro delle nuove forme di opposizione attiva e orizzontalmente organizzata a chi ipotizza la necessità di affiancare, dentro i confini nazionali, quelle forze politiche che in determinate battaglie presentano aspetti affini al pensiero anarchico; da chi, ancora, vuole preservare gli indirizzi del pensiero anarchico classico e intende muoversi lungo quella direttrice; a chi sposta il baricentro della lotta politica sul piano individuale, focalizzandosi più sul comportamento quotidiano che sulla militanza in senso stretto.
Auspicio di questo intervento è, in conclusione, che si possa definire chiaramente tale quadro interpretativo dell'essere anarchici oggi, ed in tal senso si propone quale volano per una discussione chiara, priva di ambiguità (ma anche delle semplificazioni spesso poco efficaci sul piano concreto, quali ad esempio “stare dalla parte degli ultimi”) sull'argomento.
L'Anarchia ha moltissimo da offrire nel mondo contemporaneo, ma perché questo sia possibile è soprattutto necessario che si palesi cosa voglia dire essere anarchici senza ricorrere a frasi fatte o principi ideali che poco si possono accordare con la concreta condizione esistenziale che ci troviamo a vivere.

Igor Cardella
Palermo



Valsusa/Critical Wine No Tav

Nei giorni 8-9-10 maggio, si è svolta a Bussoleno, nel cuore della Valle di Susa, la quarta edizione di Critical Wine No Tav.
È una iniziativa nata quattro anni fa, raccogliendo lo slogan Terra è libertà, che dà il nome alla manifestazione, per coniugare la lotta contro il tav con l'esperienza concreta di piccoli produttori di vino, che vogliono realizzare un rapporto diverso con la terra e la natura che ci circonda. In questo modo, si cerca di portare a conoscenza di un pubblico più ampio le ragioni e le proposte delle nostre lotte; non solo: il ricavato del critical wine no tav, dedicato ad alcuni compagni che non ci sono più, sarà devoluto alla cassa di resistenza per le spese legali.
Quest'anno l'iniziativa ha avuto un grande successo, soprattutto nella giornata di sabato. Erano presenti 22 produttori di vino, provenienti da tutta Italia, accompagnati da stand gastronomici e di piccoli artigiani in proprio; musica di strada, concerti popolari, canzoni degli Anonimi Coristi e del Coro di Micene, mostre fotografiche, teatro per le vie della città, hanno completato la manifestazione in cui erano presenti anche banchetti informativi di vari comitati no tav.
Stiamo già pensando alla prossima edizione, la quinta, che si svolgerà presumibilmente nel maggio 2016, sempre in Valle di Susa.
Invitiamo altri produttori di vino, che condividono le nostre motivazioni, a contattarci, c'è spazio per tutti.
Per informazioni: tlcwbussoleno@gmail.com

Ugo Viretta Usseglio
Giaveno (To)



Primo maggio.1/Alcune considerazioni

“Devastazione e saccheggio”, parole forti, parole da quindici anni di galera per chi viene beccato con la mazzetta in mano, per chi è stato preso nel mucchio del riot cittadino, nei pressi di una vetrina infranta o di un auto in fiamme o, a posteriori, ne verrà riconosciuta la presenza attraverso analisi fotografiche e video. Chi ci sta lo sa.
A chi devasta territori e ambiente, a chi saccheggia le risorse comuni, a chi ci fa morire di amianto, d'inquinamento, di discariche abusive, a chi ha un altro tipo di “mazzette” in mano, sappiamo bene che lo Stato e i suoi apparati repressivi (polizieschi, giudiziari e carcerari) non riserva altrettanto trattamento. E non potrebbe essere altrimenti: Stato e Capitale, nella loro complice e collusa alleanza, non possono certo “accusarsi e arrestarsi” a vicenda. E anche questo noi lo sappiamo.
A Milano, il Primo maggio, una grande manifestazione di oltre trentamila persone, in maggioranza di giovani, donne e uomini, sia del luogo che provenienti da varie parti del paese e d'Europa, ha animato le vie della città percorrendo, in vario modo, i pochi chilometri di strade 'concessi' dalle Autorità locali sotto stretto controllo dei vertici nazionali. L'obiettivo era quello di disvelare il reale significato di quel baraccone fieristico rappresentato da Expo 2015; di denunciare che quanti hanno contribuito al disastro alimentare ed agricolo di paesi e di parti consistenti di interi continenti non possono ora presentarsi come paladini della lotta della fame nel mondo, del rispetto delle biodiversità e della vita e del lavoro di che la terra la lavora; di accusare il sistema di malaffare, di corruzione, di speculazione selvaggia che ha regnato su Expo e che regnerà sulle aree del sito alla conclusione dell'evento; di opporsi ad un modello di sviluppo basato sul lavoro precario, gratuito e sulla pauperizzazione del paese.
Un corteo di meno di quattro chilometri ottenuti a fatica, dopo il divieto, giunto a pochi giorni dalla manifestazione, di passare per il centro città, trasformata in una sorta di zona rossa, una sorta di provocazione in una giornata che è sempre stata simbolo della lotta per la liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato, in una città che ha visto negli anni lo svolgimento di grandi e partecipate May Day.
Un corteo composito ed eterogeneo, che raccoglieva il lavoro svolto nel tempo dai comitati No Expo e lo sforzo organizzativo di rappresentare sul campo le diverse anime e sensibilità che sul terreno della lotta a quel modello di società e di sviluppo si muovono. Un corteo costruito assemblearmente dopo diversi mesi di riunioni, di confronti, di decisioni costruite sul consenso e sull'accordo. In testa più di duecento musicisti, appartenenti a bande di vari paesi d'Europa, reduci dalla cena serale d'accoglienza presso la sede della FAI di Milano curata dalla Banda degli Ottoni, a dare un segnale di festa e di calore, a seguire i comitati No Tav, No Muos, No Expo, la rete 'Genuino clandestino', quelli di lotta sul territorio e per la casa, il sindacalismo di base della CUB e dell'USB, lo spezzone rosso nero con lo striscione 'Expropriamo Expo', dietro cui sfilavano circa duecento compagni e compagne tra FAI, il Circolo anarchico di Via Torricelli 19, l'USI e Iniziativa Libertaria di Pordenone con i loro striscioni, oltre a diverse individualità. A seguire, e a chiudere il corteo, il SI.COBAS, il 'Sindacato è un'altra cosa', e infine vari partiti, da Rifondazione al PCL.
Imponente lo schieramento di polizia, con mezzi blindati e reticolazioni semoventi, a chiusura delle varie possibilità d'accesso al centro città; anche se rimane 'curioso' il fatto di aver lasciato parcheggiare le auto lungo il percorso del corteo, così come il fatto che siano rimasti al loro posto i cestini per i rifiuti ed altre suppellettili cittadine che generalmente vengono rimosse in previsione di cortei 'caldi e vivaci' come ci si aspettava che fosse, soprattutto dopo la campagna mediatica preventivamente criminalizzatrice e le conseguenti perquisizioni e sgomberi delle giornate immediatamente precedenti.
La formazione del corteo è stata lentissima anche perchè si partiva dalla grande piazza di Porta Ticinese per imboccare lo stretto omonimo Corso, ma senza grossi problemi perchè il posizionamento dei vari spezzoni era stata concordato da tempo. Quello che non poteva essere concordato era il posizionamento di quanti, provenienti da fuori Milano e da fuori Italia, non avevano partecipato al percorso organizzativo e che si presumeva si potessero posizionare alla coda del corteo. Nei fatti quello che è successo è che queste realtà si sono posizionate all'interno degli spezzoni a loro più affini, soprattutto nella parte centrale del corteo dove si è evidenziato un comportamento assolutamente refrattario al rispetto degli accordi presi precedentemente. Volontà politiche, sicuramente autoritarie e prevaricatrici, ed in/sofferenze sociali si sono mischiate dando origine ad uno spezzone che ha cercato un suo protagonismo attivistico prima nella contrapposizione con le forze di polizia, poi con quelli che sono stati identificati con i simboli del potere capitalistico. Ma chi cerca di trovare un nesso unico, una regia unica, in quello che è successo sbaglierebbe.
Lasciando alla destra tradizionale e a quella renziana le urla di sdegno e gli editti accusatori, la minaccia di rappresaglie ed i progetti di leggi liberticide, quello che ci interessa mettere a fuoco è come il Primo maggio a Milano si sia messo in scena non tanto una replica di quanto già visto a partire da Seattle in poi, quanto una prima concretizzazione di quello che le politiche di austerità, di impoverimento sociale, di rafforzamento autoritario, di restringimento degli spazi di espressione e di organizzazione, stanno producendo: una espressione, fluida, anche contraddittoria, di un malessere sociale ed esistenziale, che nel conflitto, nelle sue varie forme possibili, cerca uno sbocco.
Così, alcune centinaia di manifestanti si sono misurati prima con la polizia che, con un numero spropositato di lacrimogeni urticanti (si dice più di 400) e con l'uso degli idranti, li ha respinti, per rivolgere poi la loro attenzione alle vetrine di banche, negozi di vario tipo, auto, pensiline dei mezzi pubblici, semafori, ecc., mischiando le banche, simboli classici del sistema di sfruttamento capitalistico con attività generiche (un barbiere, un ottico, un ortofrutta...). Insomma tanto lavoro per assicurazioni ed artigiani mentre Maroni e Pisapia hanno già offerto rimborsi e organizzato manifestazioni: il 2016 con le elezioni della nuova giunta non è poi così lontano.
Trovandosi al centro del corteo il rischio del coinvolgimento dell'intera manifestazione è stato ovviamente molto alto – è stato avanzato anche il sospetto che alcuni all'interno di quello spezzone lavorassero per trasformare tutto il corteo in un terreno di scontro complessivo – ma se così non è stato è grazie alla determinazione delle componenti iniziali organizzatrici della manifestazione che hanno tenuto fede agli impegni presi assemblearmente sia mantenendo le posizioni, sia concludendo il percorso tra i fumi dei lacrimogeni e delle auto incendiate. In questo contesto non si può tacere delle tattiche poliziesche tese da una parte a contenere i danni tra i 'suoi' e dall'altra ad evitare che ci fossero delle vittime tra i manifestanti, tali da 'sporcare' l'inaugurazione di Expo. Del 'buon cuore' ipocrita del Ministro degli Interni non sappiamo che farcene.
Detto questo rimangono sul tappeto alcune considerazioni da fare.
La crisi sta scavando sempre di più nel corpo sociale del paese, le politiche riformistiche non hanno più gambe né fiato né sirene da suonare, la disoccupazione cresce e soprattutto quella giovanile, non c'è uno straccio di politica industriale all'orizzonte, le rappresentanze politiche più o meno tradizionali si sono dissolte, le divaricazioni sociali crescono così come cresce il controllo sociale fino a prefigurare scenari di militarizzazione sociale complessiva, leggi sempre più autoritarie e restrittive sono all'orizzonte sia sul campo degli scioperi dove si vuole imporre un criterio maggioritario alla tedesca, sia nel campo delle manifestazioni di piazza. Non ci vuole molto a capire che, in mancanza di una capacità politica rivoluzionaria in grado di costruire uno sbocco praticabile e condiviso alla situazione che stiamo vivendo e che andrà sempre più aggravandosi, la violenza acefala diventerà l'unica forma di espressione possibile. Esorcizzare quanto è successo non ci aiuta, il moralismo perbenista nemmeno, il settarismo autoreferenziale men che meno. C'è da rimboccarsi le maniche, sempre più e sempre meglio, sulla strada della lotta quotidiana, dell'autorganizzazione, del duro lavoro di costruzione di un movimento libertario che sappia essere agente reale e concreto della trasformazione sociale.

Le compagne e i compagni della Federazione Anarchica Milanese



Primo maggio.2/Le distanze dalla violenza

Ciao, leggo assiduamente A-rivista, su internet.
Ho letto il volantino di No-Expo, e concordo in parte con questo documento. Sono anarchico, individualista. Boicottare l'Expo è giusto, ma la violenza fa soltanto male agli ideali anarchici, mi piacerebbe prendeste le distanze dalla violenza, rispetto molto il vostro lavoro e leggo davvero con interesse la maggior parte di quello che scrivete, credo altresì che anarchia non voglia per forza dire sindacato, che anarchia possa voler dire anche individualismo, con tutto il rispetto per ogni singola individualità. credo sarebbe meglio mostrare che si può coltivare, piantare, fare agricoltura diversamente da come vorrebbe farci credere Expo, e credo che sarebbe meglio farlo all'interno di Expo. È solo la mia opinione certo, ma spaccare un'Audi del 2004 non significa colpire i padroni, ma un povero cristo che se l'è comprata usata, magari a rate.
Ecco solo questo. Un caro saluto.

Maurizio Caggiano
Potenza



Primo maggio.3/Mario Calabresi, i black bloc e la polizia

“Dal G8 di Genova si discute solo delle violenze e degli errori della polizia, mai delle devastazioni dei manifestanti: chiaro il risultato”. Cosa può avere spinto Mario Calabresi a uscirsene con una frase del genere, su Twitter, il primo maggio, dopo le ignobili azioni dei Black Bloc per le strade di Milano? La frase è infelice per diversi motivi, alcuni più attuali, alcuni meno. Lo è, ad esempio, perché offre il fianco a una cupa - e facile - ironia, provenendo da chi ahimè vede il proprio cognome legato a uno dei più terribili casi di “errore” della Polizia nella storia del nostro Paese. Ma lo è anche perché definire “errori” i crimini commessi dai poliziotti in occasione del G8 di Genova, che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha recentemente condannato come gravi violazioni, è una forma sottile di negazionismo: quel negazionismo travestito da moderazione, che modifica la storia piano piano, una parola alla volta, quasi a mezza voce.
Si potrebbe indugiare a lungo sul primo punto. Notare come, al primo tweet (condiviso più di seicento volte), ne sia seguito a stretto giro un secondo, in polemica con coloro che avevano fatto battute richiamando l'affare Pinelli. Notare come a questo secondo tweet (anch'esso condiviso centinaia di volte) siano arrivate risposte cariche di ossequioso sostegno da parte di commentatori di passaggio, di quelli sempre pronti a sedersi dov'è più comodo: “Direttore ... non badi agli idioti ... chissà se l'hanno mai letta davvero, la storia di suo padre”. Notare quindi che “la storia di suo padre”, vittima del terrorismo, scritta proprio dal giornalista e diffusa da un grande editore e quindi da canali di comunicazione di massa, è abbastanza accessibile al grande pubblico, mentre per il ferroviere anarchico nessuno ha davvero spinto la notte più in là.
Si potrebbe indugiare anche sul secondo punto: cosa significa parlare di “errori” della Polizia rispetto ai fatti di Genova? Significa certamente ridimensionarli, e in qualche modo umanizzarli. Difficile però pensare che davvero Mario Calabresi volesse umanizzare gli orrori della Diaz: è un giornalista preparato, intelligente, e anche una buona penna - cosa che non si può dire di tutti i grandi nomi della carta stampata al giorno d'oggi. E allora quale poteva essere lo scopo di un tweet del genere, di una simile dichiarazione, che offriva il fianco a così tante polemiche, facili e meno facili secondo i punti di vista?
Lo scopo era, probabilmente, proprio quello di provocare queste polemiche. Aspettare al varco quelli che avrebbero nominato Pinelli, tacciare di mala fede quelli che avrebbero, con altri argomenti, contestato il lessico e il senso dell'affermazione. Litigare, ribattere, nel limitato spazio di colpi e contraccolpi lunghi 140 battute, dove prolifera lo slogan e non c'è spazio per l'approfondimento che sarebbe necessario quando si commentano cronache di violenza politica e civile. Probabilmente, lo scopo di quel tweet, con le sue più di 600 condivisioni, e le circa 200 risposte (in polemica o in accordo), era esattamente quello di provocare una piccola bagarre. Sembra purtroppo che sia diventato un principio cardine della comunicazione, nella piazza virtuale come in quella reale, seminare un po' di rissa. Altrimenti non ti ascolta nessuno.
A me, leggendo la frase di Mario Calabresi su Twitter, era venuta voglia di rispondere. Ma quello che ho scritto, pacificamente, in queste righe, giusto o sbagliato che sia, in un tweet non ci sarebbe stato. Per farcelo stare, avrei dovuto limitarmi a qualche battuta secca, che sarebbe suonata faziosa, aggressiva, come le parole di tutti quelli che, su quel social, hanno reagito. Insomma, partecipare a quella piccola polemica online mi sarebbe parso un atto di violenza. E allora, anche se non sono certo di potermi definire anarchico, mi sono riletto proprio una frase di Giuseppe Pinelli, tratta da una sua lettera: “l'anarchismo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo subirla”.
Ho chiuso Twitter, e ho scritto questo pezzo.

Federico Giusfredi
Pavia



Primo maggio.4/Il conflitto e la sua rappresentazione

L'agire rivoluzionario, nell'attraversare un percorso di trasformazione radicale delle relazioni politiche e sociali, è, costitutivamente, anche narrazione.
La diffusione e l'accessibilità pressoché universale di strumenti di comunicazione ha enormemente amplificato il carattere discorsivo dell'azione di piazza.
Sottile è il confine tra rappresentazione e rappresentanza. Su questo confine si giocano partite di egemonia, che spesso sfuggono all'analisi e al controllo di chi partecipa alle iniziative, pur avendo contribuito a costruirle.
Il dibattito/scontro sul Primo Maggio milanese si inceppa su una faglia solida ma prismatica, dove si intrecciano più piani.
Uno è quello dei media, che, come cinicamente rilevava qualche amante del “realismo”, fanno la loro partita e contribuiscono a costruire una narrazione difficile da ignorare, perché spesso costituisce e costruisce una parte dell'opinione.
Nel dibattito di queste settimane non è mancato chi – leggete l'ultimo editoriale su infoaut - pur rivendicando il “riot”, lo avrebbe preferito più “civile”, più forte nel proporre una comunicazione dove l'atto distruttivo fosse immediatamente leggibile dal filtro dei media. Pur condividendo l'aspirazione ad una comunicazione che sappia farsi opinione più allargata, dubitiamo che i media siano governabili dai movimenti.
Quest'analisi della giornata mette in scena una rappresentazione della piazza, disegnata da chi vorrebbe farsene “rappresentante”, ben al di là dello spazio di una may day milanese, in cui le anime scisse della post autonomia, si sono contese il monopolio della visibilità.
Al di là della trasparente rabbia di chi pensava di condurre il gioco ma non ha portato a casa il risultato pieno, colpisce che il concetto sensato della chiarezza degli obiettivi, venga delegato allo specchio dei media. Ci permettiamo di immaginare che se il “riot” avesse colpito solo banche e auto di lusso, la narrazione mediatica non sarebbe cambiata.
Parte di chi ha agito il “riot” ha affidato ai graffiti la propria narrazione. Un cuore intorno al foro di una vetrina infranta, una scritta su un negozio aperto il Primo Maggio, allusioni poetiche ad una narrazione rivolta ai propri affini, che raramente riesce a farsi opinione condivisa al di fuori di chi ha la chiave di decodifica culturale del messaggio.
Scartiamo intenzionalmente il concetto di “opinione pubblica”, perché l'epoca in cui la diffusione aurorale della stampa quotidiana produceva “opinione pubblica” è tramontata e i piani su cui si costruiscono le narrazioni condivise sono molteplici, a volte intersecati ma non sempre comunicanti.
La giornata delle spugnette dove la sinistra Mastrolindo è scesa in strada per ripulire la città è frutto della proposizione della tematica del bene comune in chiave nazional-popolare. Quella giornata, ben più degli scontri del Primo Maggio, ha messo in secondo piano la devastazione e saccheggio rappresentati dal modello Expo. L'appannata amministrazione Pisapia ha recuperato punti, l'Expo probabilmente meno.
Nelle prime ore dopo la manifestazione milanese i social media pullulavano di complottisti che ripetevano la noiosa litania sugli infiltrati nero vestiti: fortunatamente in meno di 24 ore questo argomento buono per tutte le stagioni è stato riassorbito in un dibattito meno banale. Il ricorrente comparire di queste tesi afferisce all'incapacità di confrontarsi con pratiche eccedenti la normalità: se c'è la lunga mano della questura tutto va a suo posto, non c'è lacerazione, non c'è divaricazione, non c'è conflitto, non c'è divisione tra buoni e cattivi, perché i “cattivi” sono ridotti al rango di burattini.
È un'interpretazione intrinsecamente rassicurante. Niente dibattito, niente confronto. I buoni sono buoni e i cattivi sono finti. Una favola triste e inutile.
Una favola che fa sempre meno presa sull'immaginario.
La narrazione sconfitta è stata quella delle assemblee che hanno costruito le giornate No Expo, il cui punto di arrivo e ri-partenza avrebbe dovuto essere il Primo Maggio milanese. Un corteo comunicativo e conflittuale era la proposta per una may day che mettesse insieme, nello stesso spazio, una rappresentazione plurale dove l'agire comunicativo fosse condiviso da tutte le anime del corteo. Una scommessa che il “riot” ha fatto saltare, svuotando di senso la giornata dei “blocchi” del 2 maggio e portando alla cancellazione dell'assemblea finale.
Il No Expo proseguirà, ma il momento magico della rappresentazione corale non potrà essere recuperato.
Forse era una scommessa impossibile, forse la rete No Expo ha tentato la quadratura del cerchio. Di certo sullo sfondo c'era un'aspettativa non detta ma sussurrata di bocca in bocca: il primo maggio a Milano il “riot” avrebbe riempito la scena. Forse era una storia già scritta. Forse.
Lo abbiamo messo con le virgolette “riot”. Lo abbiamo scritto in inglese perché se avessimo scritto sommossa, o rivolta sarebbe stata chiara a tutti la distanza tra le parole e le cose.
“Riot” ha invece in se la potenza semantica dell'immagine stereotipa che si riproduce di piazza in piazza, di continente in continente. Ragazzi mascherati, lacrimogeni, polizia, auto in fiamme e banche sfondate. Roba che ritorna a tutte le latitudini, tanto che qualcuno sta teorizzando il ritorno delle rivolte, senza accorgersi, che non hanno mai smesso di esserci.
L'immagine iconizzata del lancio della boccia parla la lingua del conflitto, racconta quello che ogni giorno non accade: è innegabilmente seduttiva per tanti, perché narra l'immediatezza di un agire che non rimanda ad altro, che si concreta nel subito, che ha in se il proprio fine: comincia e finisce con la vetrina infranta. A due passi dagli scontri i supermercati erano aperti, un gelataio spalmava coni con un occhio alla strada, a Rho migliaia di volontari lavoravano per l'illusione di salire il mezzo scalino che divide i sommersi dai salvati.
La stessa retorica sulla distruzione dei simboli del potere e del capitalismo, la narrazione di alcuni settori di movimento, ha una logica debole, vista l'incomparabile distanza tra le infinite macerie del capitalismo e i vetri infranti nel centro di Milano.
La seduzione è nel gesto, non nella sua rappresentazione politica.
Su questo sentire che ha una propria intrinseca onestà c'è chi ha provato a giocare il vecchio gioco dell'egemonia. Ma è una tela dalla trama logora, che gioca sporco con i propri stessi compagni di “riot”, perché nega loro dignità politica, relegandoli nella sfera della spontaneità. Una spontaneità che non escludiamo si sia data in qualche occasionale processo imitativo ma è improbabile che sia appartenuta ai più.
Diciamolo chiaro: Milano non è Baltimora o Istanbul.
A Milano non c'è stata una sommossa ma un settore della piazza che per un'ora e mezza ha messo in scena la sommossa. Lo diciamo con rispetto. Il rispetto dovuto a chi rischia, a chi è stato arrestato, a chi potrebbe perdere la propria libertà per anni. La vendetta dello Stato affina i propri strumenti e sarà segno della maturità dei movimenti che nessuno sia lasciato solo, che chi è nel mirino abbia sostegno attivo, perché nelle Procure stanno tessendo la rete delle prossime operazioni repressive.
Eravamo al corteo del Primo Maggio a Milano. E non siamo pentiti di esserci stati, anche se avevamo creduto alla scommessa di un corteo conflittuale e, insieme, comunicativo. Eravamo in coda. Dietro a tutti, rioter compresi, e siamo arrivati sino in fondo.
Un corteo è un corteo. Doveva essere la rappresentazione collettiva delle lotte che in ogni dove danno corpo al mondo nuovo che vogliamo e che stiamo già costruendo, nel conflitto e nell'autogestione. Non lo è stato. Ci saranno altre occasioni, se sapremo costruirle.
Non ci interessano le vetrine rotte, ci interessa la storia che raccontano. Il fatto, nudo e crudo, è che quel settore della piazza milanese non era lo specchio di lotte reali ma il loro sostituto. Lo diciamo con l'umiltà di chi sa quanto sia arduo un percorso di lotta radicale, un percorso che osi mantenere chiara all'orizzonte l'urgenza dell'anarchia, l'urgenza di un mondo senza servi né padroni. Senza stati, né eserciti.
Lo diciamo con la chiara consapevolezza che quanto avvenuto ci interroga tutti sull'efficacia del nostro agire, sulle prospettive di lotta. Dobbiamo registrare un'assenza. Un'assenza pesante come un macigno, un'assenza che abbiamo visto evocare in questi anni da tanti compagni e compagne, intelligenti e generosi. Un'assenza che non possiamo ignorare. Manca la proiezione rivoluzionaria, manca la tensione a credere possibile un mondo realmente diverso da quello in cui siamo forzati a vivere. La precarietà iscritta nella materialità del vivere quotidiano, diviene condizione esistenziale, chiusura prospettica. Senza tensione ad un mondo altro, senza una rottura quotidiana dell'ordine imposto, il sasso che spezza il vetro, la molotov che brucia il macchinone bastano a se stessi.
Il problema non è il volo ma l'atterraggio: le lotte sui territori solo occasionalmente riescono a coniugare radicalità e radicamento.
Questa continua ad essere la nostra prospettiva, una prospettiva costitutivamente estranea a logiche egemoniche, perché allergica ad ogni forma di potere. E di contropotere.
La strada da fare è tanta. Il conflitto, quello vero, lo agiamo giorno dopo giorno nei territori dove viviamo e che attraversiamo. E ne conosciamo la difficoltà.
Il Primo Maggio sempre più gente va a lavorare.
Questa è la vera sconfitta che noi tutti abbiamo patito quest'anno: pochi hanno scioperato, perché le reti di sostegno a chi lotta sono troppo deboli, perché la divisione tra sfruttati ha aperto solchi profondi, perché la rappresentazione di un altro futuro, come di un AlterExpo deve ancora fare breccia nei cuori e nelle menti di tanti con cui, nei nostri quartieri, facciamo un pezzo di strada insieme.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese



Un nostro adesivo pubblicitario degli anni '70,
realizzato da Fabio Santin e Marina Padovese



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