Rivista Anarchica Online


Racconti

di Giuseppe Ciarallo, Diego Giachetti, Cinzia Piantoni

Da leggere sotto l'ombrellone o dove preferite.


Racconto/1

Cinque minuti

di Cinzia Piantoni


Agata

Aveva gli occhi dell'amore, verdi, come due lacrime d'amore, grandi...”
C'è chi ripete poesie a memoria. Chi recita preghiere. Agata invece fa così, si canticchia una canzone nella testa, e il più delle volte è questa vecchia melodia che le ha insegnato la nonna.
Il caldo le ha appiccicato addosso la camicetta elegante, e lo chignon nel quale ha raccolto i capelli inizia già a somigliare a un soufflé sgonfio. Le calze di lycra poi, le danno una fastidiosa sensazione di prurito. Ha una voglia matta di grattarsi le gambe, ma resiste.
Mentre procede nella fila verso i controlli di sicurezza si fissa la punta delle scarpe, un po' per non dare nell'occhio, e un po' per rispetto dei pensieri altrui, che già nel raggio di un centinaio di metri dalla Sede Centrale iniziano ad apparire sopra le teste di tutti.

Era cominciato tutto molti anni prima che lei nascesse. In una storica conferenza stampa il primo ministro dell'epoca, con sorriso smagliante e aria trionfale, aveva presentato il mindchip.
«Signori, questo è il futuro della nostra sicurezza», aveva detto orgoglioso, «il prodotto di una nanotecnologia certificata, un circuito grande come la punta di uno spillo, che sarà impiantato del tutto gratuitamente e in maniera indolore nel cervello di ogni cittadino.»
A quella frase, dopo un boato di stupore, la mano di ogni giornalista nella stanza era scattata impaziente verso l'alto. Il capo del governo, da consumato uomo di spettacolo qual era, invece di rispondere li aveva lasciati crogiolare nella curiosità mentre si avviava a un palchetto affiancato da un monitor. Lì, col supporto di un filmato in 3D ricco di effetti speciali, aveva iniziato a spiegare nel dettaglio le rivoluzionarie proprietà del mindchip. Il circuito avrebbe captato i pensieri del portatore, per poi proiettarli grazie a un sistema olografico direttamente sopra la sua testa.
«Il mindchip», aveva assicurato, «non invaderà mai e poi mai la vita privata dei miei amati concittadini, ma si attiverà solo in luoghi a rischio terrorismo quali aeroporti, grandi eventi, uffici pubblici, e comunque in tutti gli obiettivi sensibili. Sono certo che, solo ed esclusivamente in quei casi, saremo tutti contenti di sacrificare un po' di privacy in nome della sicurezza.»
Il capo del governo specificò che i mindchip sarebbero stati impiantati e resi operativi in ogni cittadino del continente entro la fine del mese, e che nessuno sprovvisto del circuito sarebbe potuto entrare in Europa, quindi nemmeno in Italia. Nessun anonimo, nessun probabile terrorista con pensieri omicidi sarebbe più passato inosservato. Nessuno straniero.
Questo aveva convinto più o meno tutti, persino l'elettorato dell'opposizione, anche se comunque non ce ne sarebbe stato alcun bisogno, visto che il mindchip era tutto fuorché facoltativo. Anche ai nuovi nati sarebbe stato impiantato il circuito, persino prima di dargli un nome, ma questo il primo ministro aveva evitato di dirlo per non impressionare le sue elettrici in dolce attesa.
Ben presto, proprio come sperava chi l'aveva ideato, il mindchip smise di essere la novità: venne digerito dalla gente e nessuno sembrò farci più caso. Ormai era diventato normale che il tizio di fronte a te in metropolitana potesse sapere che stavi tradendo tuo marito o che al supermercato avevi dimenticato di comprare i cereali.
Per Agata e quelli come lei il mindchip invece era un nemico da fregare. Il modo per riuscirci esisteva, ed era così banale da non essere stato nemmeno considerato dai suoi creatori. Bastava semplicemente occupare la testa con qualcos'altro, proprio come cercava di fare lei in quel momento. Non importava cosa fosse, una canzone, una filastrocca, andava bene qualsiasi cosa purché coprisse temporaneamente tutto il resto.
«Basta», sibilò sottovoce rivolta a se stessa. Se avesse continuato a far vagare la mente qua e là si sarebbe fregata da sola.
Ricominciò a cantare, provando a non concentrarsi davvero su niente.

Hiro

Un raggio di sole filtra tra le sbarre elettrificate, illuminando il pulviscolo nell'aria.
Socchiudo gli occhi e lo osservo in silenzio.
Quanto tempo è passato da quando sono qui? I giorni, le ore, gli anni e i secondi, qui dentro tutto si confonde. Ogni attimo rotola via da me, uguale ma diverso da quello precedente, come impalpabili fiocchi di neve che si sciolgono e svaniscono subito dopo essere caduti.
Passo le mie giornate così, osservando il vuoto, annusando questa morte imminente dall'odore di disinfettante, ascoltando le voci dei miei compagni nelle altre celle che piano piano si spengono.
Ci hanno imprigionati con l'inganno. La mia memoria ormai è andata, ma questo lo ricordo ancora perfettamente.
Sono sempre stati così bravi, a far credere alle persone di agire per il loro bene! Ed è andata così anche per noi. Gli è bastato inventarsi un virus, una malattia che potevamo trasmettere solo toccandoci. Non ne ho mai capito bene il motivo, forse qualche stupida analisi di mercato diceva che non era più conveniente mantenerci, che pesavamo troppo sulle tasche degli italiani. Forse semplicemente si erano stufati di averci qui in mezzo a loro. Così dissero che eravamo sporchi e portavamo malattie... davvero originale. È quasi divertente notare come tutte le loro mosse si riconducano a stupidi luoghi comuni.
Non ci hanno uccisi, ma chiusi qui e in altre prigioni come questa sparse per il paese. Ufficialmente per curarci, in realtà per lasciarci morire.

Agata

È arrivato il suo turno. Agata cerca di non farsi distrarre dal sottofondo di musica da camera proveniente dall'interno, né dall'invitante refolo di aria condizionata che lo accompagna.
Si toglie la giacca del tailleur, solleva la manica destra della camicia azzurra e porge l'avambraccio alla guardia sorridente. È poco più che un ragazzo, potrebbe avere l'età di suo fratello Yuri. Agata a quel punto gli sorride di rimando, mentre in testa ripete le parole della solita canzone. Non può assolutamente permettersi di pensare a suo fratello, non adesso, o manderà all'aria l'intero piano.
La guardia, che dal tesserino risulta chiamarsi Alessandro, le scansiona il codice identificativo, lo stesso gesto che avrà già fatto almeno altre mille volte solo oggi. Il lettore fa un bip strano, segno che qualcosa non va. Il ragazzo lo osserva con espressione stupita, probabilmente non gli è mai successo prima.
«Tutto bene, agente?» Chiede Agata.
«Niente di grave. Non è colpa sua signorina, è che lo scanner non riesce a leggere il codice per colpa di quel taglio», risponde lui facendo un cenno verso il braccio di Agata.
Una linea rossa attraversa di netto il complicato sistema di punti e linee che costituiscono il quadrato tatuato sulla sua pelle.
«Oddio, mi dispiace», esclama lei fingendo di cadere dalle nuvole, «è che ieri ho voluto cucinare come si faceva una volta, sa con pentole, coltelli e roba simile, e questo è il risultato.»
Doveva ammettere che la trovata del taglio era stata geniale. Ling, uno dei suoi compagni della Serra 58, aveva proposto di modificare il codice tatuandovi delle linee in più che avrebbero portato a una pagina d'identità falsa. Anche quella era una buona idea, ma sarebbe stato un procedimento troppo lungo, e la cosa fondamentale adesso era agire in fretta.
«Ora risolviamo subito, non si preoccupi. Ha con sé il suo documento di riserva, immagino.»
«Certo, dovrebbe essere qui da qualche parte», dice Agata fingendo di cercarlo dappertutto nella borsa. Dopo quasi trenta secondi lo estrae esultante come avesse trovato il Sacro Graal.
«Eccolo qua», esclama porgendo alla guardia un tesserino che ha tutta l'aria di essere usato e autentico.
«Bene, signorina Sara», risponde la guardia dopo l'allegro suono di conferma del lettore, «le auguro una buona giornata, e benvenuta alla Sede Centrale!»

Hiro

Tutto quello che riesco a vedere attorno a me è di un pallore asettico quasi accecante. Il neon sul soffitto, acceso giorno e notte, è così forte che sembra mandare piccoli lampi di luce ogni volta che lo guardo. Persino le sbarre sono bianche, credo le abbiano volute di questo colore per trarci in inganno e indurci a pensare che fossero innocue, che non ci sarebbe successo nulla di male se le avessimo toccate. E noi ci siamo cascati tutti, almeno una volta per uno.
Non sono in grado di vedere nessuno dei miei compagni di prigionia, non posso nemmeno sporgere la testa fuori dalla mia cella o sarei stordito dalle scosse. Eppure sono riuscito lo stesso a comunicare con loro, perché per fortuna abbiamo ancora le nostre voci e le nostre orecchie. Sempre che non decidano di toglierci anche quelle.

Dopo un po' di tempo mi sono fatto un'idea abbastanza precisa di dove siamo.
Il corridoio di marmo lucido di fronte alle piccole celle, sempre perfettamente pulito anche se nessuno ci passa più (merito di un macchinario automatico che lo percorre ogni giorno, lasciando dietro di sé un fastidioso odore di detergente al limone), ha due porte alle estremità e tre grandi finestre che danno su un parco trasandato.
Non è un passaggio dritto, ma ha una forma sinuosa. L'ho scoperto perché se mi metto in un punto preciso della mia cella, la prima della fila vicino all'entrata, riesco a distinguerne il finale.
La porta in fondo non è mai stata aperta, mai una volta, nemmeno quando ancora qualcuno veniva a visitarci, perciò ho capito che è l'uscita verso il mondo fuori, e visto che quel parco me lo ricordo so che siamo nella zona più a Sud dell'edificio.
E pensare che quando ero libero mi sembravano dei giardinetti da quattro soldi, ora darei tutto quello che ho per poterci fare una passeggiata.
Il problema, però, è che non ho più niente.

Agata

Dall'esterno la Sede Centrale somiglia a un enorme cappello dalla foggia strana. Attorno a un'alta cupola, composta dai quindici piani dedicati agli uffici Affari Riservati, si dipanano i dieci cerchi concentrici del piano terra, ognuno ulteriormente diviso in quattro sezioni.
Agata cerca di confondersi tra la folla mentre percorre i corridoi luccicanti del settore 10 Nord guardandosi intorno. Da entrambi i lati si susseguono in ordine sparso: uffici di design dalle pareti trasparenti con impiegati dalle facce entusiaste, micro ristoranti esclusivi da massimo dieci coperti, negozi di vestiti all'ultima moda, hotel in versione compatta, fast food, asili per i figli dei dipendenti pubblici, e tante altre di quelle cose che quasi le gira la testa.
L'interno dell'edificio dà la sensazione di essere enorme, sembra persino più grande di come lo si vede in TV. Più che una sede governativa le ricorda un centro commerciale, in una versione super lusso che nella sua vita di tutti i giorni le sarebbe a dir poco inaccessibile. C'è persino un sottofondo di musica classica, interrotto solo ogni tanto dagli annunci promozionali del governo attuale.
Quando incrocia un uomo della sicurezza si gira dall'altra parte, fingendosi molto interessata a una vetrina. D'istinto pensa a una canzone, poi si dà della scema da sola. Qui il mindchip non è attivo, visto che in teoria chi è entrato ha già passato sufficienti controlli.
Al di là del vetro una decina di giganteschi schermi TV trasmette in contemporanea il nuovo spot della stazione Nova, satellite extra lusso dove i ricchi del pianeta sono già emigrati da anni. Ora anche ai cittadini comuni è stata data la possibilità di viverci, basterà solo arrivare a raccogliere cento punti sulla scheda fedeltà. Un punto ogni sei mesi senza commettere reati. Così se va bene tra cinquant'anni si ritroveranno tutti lassù, a fare le stesse cose che fanno qui ma a sentirsi molto più cool. Ovviamente questa scheda è fornita solo ai dipendenti del governo, non certo ai cittadini di serie B che, come lei, lavorano nelle serre o nelle fabbriche. Comunque non è lo spot ad attirare l'attenzione di Agata, bensì l'orario che mostrano i display nell'angolo in basso a destra. Sono le tredici e trenta, ha solo quindici minuti prima del passaggio tra generatori, ed è ancora lontana dal pannello di controllo.
Deve fare in fretta, e soprattutto non deve dare nell'occhio, o sarà la fine.
Libera dall'ansia del mindchip si ripassa nella testa le fasi del piano e la mappa del settore 10. Ora è nella sezione Est, se ne accorge perché come previsto i negozi e gli uffici iniziano a diradarsi, per poi addirittura scomparire verso la fine. In pochi minuti si ritrova a camminare da sola, l'unico suono i suoi tacchi frettolosi sul pavimento di marmo.
Rabbrividisce, l'aria condizionata qui è davvero troppo alta, le sembra di essere rimasta intrappolata in un freezer. Si ritrova quasi a rimpiangere il caldo torrido della città fuori di lì.
Stando alle informazioni dei loro infiltrati, dovrebbe esserci quasi.
«Oh dannazione, non ce la faccio più!» Sussurra tra sé, poi finalmente si decide e si sfila quelle scarpe assassine. Tanto da qui in poi non dovrebbe vederla più nessuno, e se disgraziatamente dovesse succedere il contrario nessuno si curerebbe di cosa indossa ai piedi.
È arrivata. Eccolo lì, il pannello di controllo della sezione Sud. È nascosto dietro una porta, piccola e nello stesso colore della parete, così anonima che potrebbe essere scambiata per un qualsiasi magazzino degli addetti alle pulizie uguale ad altri disseminati per la sede. Non c'è nemmeno una serratura magnetica, ma una semplice maniglia.
Appoggia a terra le scarpe, si guarda intorno, ed entra.

Hiro

Da ieri Rufus non mi risponde più.
Ci hanno portati qui insieme, e l'hanno rinchiuso nella cella accanto alla mia. L'ho guardato negli occhi solo il primo giorno... Me la ricordo ancora la sua espressione scura e triste, così diversa dalla mia. Io venivo da una bella casa in campagna, stavo bene, coi miei fratelli e mia madre. Lui invece aveva l'aria malconcia di chi vive per strada da troppo tempo. Forse pensava persino di trovare una vita migliore, qui dentro. Un'unica occhiata, poi la parete fra noi ci ha divisi senza nessun'altra possibilità di ricorso alla vista. La sola cosa che ci ha dato la forza di andare avanti in tutto questo tempo è stato poterci ascoltare. Quante notti ci siamo fatti compagnia, col semplice suono delle nostre voci.
Stamattina appena sveglio l'ho chiamato, ma lui non ha risposto. Ho provato e riprovato, l'ho chiamato più forte, per la rabbia mi sono persino messo a graffiare questo stupido muro. Ma non è successo niente, accanto a me c'era solo il silenzio.
Così, dopo essermi lamentato fino allo sfinimento, mi sono arreso.
Non c'è niente nella mia cella, a parte un piccolo angolo con l'occorrente per i miei bisogni e un giaciglio costituito da un mucchio di coperte. Mi ci sono sdraiato sopra, immobile, e mentre aspetto che la mancanza di cibo faccia morire anche me, penso alla mia famiglia.
Chissà dove sono. Se sono ancora vivi o se, come il vecchio Rufus, non ce l'hanno fatta.
Di solito mi tormento temendo per loro i peggiori epiloghi. La mia povera mamma era molto anziana già anni fa, è anche cieca, potrebbe persino essere stata uccisa al momento della cattura. A volte mi ritrovo a sperare che la vecchiaia se la sia portata via prima che lo facessero le guardie. E i miei fratelli, così vivaci, così allegri, saranno riusciti a scappare, a nascondersi?
O saranno in una prigione uguale a questa, a farsi le stesse mie domande?
La cosa che mi fa stare male, che mi ha sempre fatto soffrire, è non sapere.
Che ne è stato di loro? Che ne sarà di me?

Agata

Le dita scorrono veloci sulla tastiera. Tredici e quarantuno, solo quattro minuti prima del passaggio tra generatori.
Davanti a lei una sfilza di piccoli monitor trasmette le immagini a circuito chiuso della sezione Sud. Per lo più si tratta di depositi merci e stanze mezze vuote, l'unica che importa ad Agata è la piccola inquadratura in basso a sinistra: la prigione.
Non si è mai interessata di programmazione, di hackeraggio o roba simile, quello è sempre stato pane per i denti di suo fratello Yuri. Ma quando tra i residenti della Serra 58 si era sparsa la voce del progetto, si era subito offerta volontaria per la fase finale.
La memoria è il suo punto forte, perciò le sono bastati un po' d'impegno e di esercizio per imparare la precisa sequenza di codici per sbloccare le due porte della prigione, quella di entrata e quella di uscita.
Ha immaginato così tante volte questo momento, e ora lo sta vivendo sul serio. È tutto così reale: il freddo del pavimento sotto i suoi piedi nudi, le calze che le prudono, la fame.
Presto saranno tutti liberi, deve solo sbrigarsi a completare la sfilza di numeri e lettere. Per un attimo ha il terrore di avere sbagliato una cifra, poi vede il logo della prima porta lampeggiare. Rosso, verde, rosso, verde. E si ferma sul verde. È aperta! Ora tocca alla seconda.
Un segnale acustico dagli altoparlanti annuncia che manca solo un minuto al passaggio, ma in realtà dovrebbero bastarle solo pochi secondi ormai. Si alza già in piedi per guadagnare tempo, mentre continua a digitare.
«Dai! Sbrigati, idiota di un sistema!»
Finalmente anche il secondo logo lampeggia. Prima rosso, poi verde, poi rosso...
D'un tratto un rumore dietro di lei la fa sobbalzare. Agata si stacca dalla tastiera come avesse ricevuto la scossa. Nello stesso momento le luci si spengono, insieme a tutti i monitor, e ai generatori di aria condizionata.
«Signorina Sara», esclama una voce familiare, «cosa ci fa lei qui?»
Agata si gira verso la porta. La luce naturale che filtra dall'esterno illumina Alessandro, la guardia che stava all'ingresso.
«E queste sono sue?» Aggiunge mostrandole le scarpe che deve avere raccolto lì fuori.
In mancanza d'altro Agata decide di recitare di nuovo la parte della finta tonta, dopotutto ai controlli all'entrata aveva funzionato: «Oh mamma, devo essermi persa! Sa, lavoro qui da poco, e quando c'è questo cavolo di passaggio non ci capisco più niente. E quelle scarpe le ho tolte perché sono così strette che ho i piedi doloranti. Le sembro pazza, vero?»
Trascorre una frazione di secondo in cui vede il dubbio passare sul viso del ragazzo, poi le sue labbra si allargano in un sorriso: «Non si preoccupi, le confesso che succedeva anche a me i primi giorni.»
Poi arrossisce e aggiunge: «Intendo il perdermi, non la cosa delle scarpe... Venga, la accompagno nel suo settore.»
Agata finge gratitudine mentre gli si affianca, procedendo nella direzione opposta rispetto a quella della prigione. In realtà si sente il cuore martellare in gola.
Già dalle previsioni aveva poco tempo per far tutto, visto che il passaggio da un generatore all'altro dura solo cinque minuti, almeno da quello che ha detto il loro infiltrato. Cinque striminziti minuti di mancanza totale di corrente su cui in pratica si appoggia tutto il piano d'azione.
Adesso dovrà muoversi ancora più in fretta, ma prima di tutto sbarazzarsi di questo gentile e ingenuo addetto alla sicurezza. Questa proprio non ci voleva.
Inoltre c'è la questione della seconda porta, l'uscita della prigione: anche se l'apertura era quasi completata, non ne ha avuto la conferma prima che il monitor si spegnesse. E se arrivasse fin lì per poi ritrovarsi bloccata a un passo dalla libertà? Non ci vuole pensare.
«E così è nuova, eh?»
«Come? Ah, sì sì... lavoro qui da una settimana.»
«Sta negli uffici del cerchio dieci?»
«Eh sì.»
«E dove, di preciso? Non l'ho mai notata prima.»
Anche se sembra una frase buttata lì per caso, i sensi di Agata all'improvviso sono all'erta. La guardia sarà anche giovane, ma di sicuro non è inesperta, e questa è una classica domanda a trabocchetto. Ripensa al percorso fatto poco fa, e ancora una volta deve ringraziare la sua memoria fotografica: «Sto al reparto multe, quello subito dopo il cinese.»
Alessandro annuisce, a quanto pare se l'è bevuta. Il dettaglio del ristorante ha dato più credibilità alla sua affermazione.
«Le hanno fornito il programma con tutti gli orari dei passaggi? È stata informata che i blackout durano solo pochi minuti, e non interessano mai più di un settore contemporaneamente, vero?»
«Sì, me l'ha detto il mio capo. È colpa mia, sono così sbadata!»
«Non c'è problema, ci mancherebbe. Ora la devo salutare, ma se prosegue in questa direzione arriverà presto al suo ufficio, giusto in tempo per il ritorno della corrente», le dice la guardia prima di sparire dietro una porta senza scritte.
Appena Agata rimane da sola si toglie di nuovo le scarpe e corre dalla parte opposta, verso la prigione.

Hiro

Ho così tanta sete!
A volte mi sveglio di soprassalto perché mi sembra di aver sentito una goccia d'acqua cadere dal rubinetto. Così mi avvicino e lo lecco, senza paura di umiliarmi, che tanto la mia dignità l'ho persa, dimenticata fuori da queste sbarre. Ma il rubinetto è sempre asciutto, e a me pare d'impazzire.
È da molto ormai che non ci danno da mangiare, ma almeno fino a pochi giorni fa continuava ad arrivarci da bere. Ora dal sistema automatico di distribuzione di viveri non esce più nulla, né di solido né di liquido. Siamo giunti alla fine.
Nonostante tutte le privazioni però, non riesco a lasciarmi morire. L'istinto alla sopravvivenza è una cosa che sento ancora troppo forte dentro di me.

Il solito breve rumore si diffonde nell'aria, e dopo poco finalmente tutte le luci si spengono. Rimane solo il bagliore lattiginoso del sole a filtrare da là fuori.
È il momento che preferisco della giornata, pochi attimi senza il fastidioso neon ronzante sul soffitto, senza il rumore di tutte queste maledette cose automatiche, che non hanno occhi né anima.
Mi metto a pancia all'aria e allungo lo sguardo alle sbarre della cella, stendendomi quasi fino a toccarle. Tempo fa, durante un momento come questo, per sbaglio mi ci sono aggrappato mentre cadevo, ma non ho sentito il solito dolore delle scosse. Da allora ogni volta che la luce se ne va vorrei provare a toccarle di nuovo, per vedere che succede. Ma poi mi manca il coraggio, e penso che probabilmente mi sono immaginato tutto, o magari l'ho solo sognato.
Sbadiglio e mi giro a pancia in giù. Questo silenzio tra poco finirà, perciò cerco di godermelo il più possibile.
All'improvviso sento dei tonfi veloci farsi sempre più vicini. No, non può essere.
Stare qui dentro deve avermi scombussolato le percezioni, è impossibile che qualcuno stia arrivando. Siamo solo un deposito di quasi morti, nessuno fa più caso a noi.
E invece sento il rumore inconfondibile della porta che si spalanca, poi il suono di piccoli piedi nudi sul pavimento, che ora hanno rallentato il passo.
È qui, proprio davanti a me.
Deboli raggi di luce disegnano il vago contorno della sua figura, ma io riesco a vederla alla perfezione.
È una ragazza, e sta aprendo la porta della mia cella.

Agata

Non ha il coraggio di chiedersi quanti minuti le siano rimasti, ormai non farebbe differenza. Spera soltanto che la corsa a perdifiato le abbia fatto recuperare l'incidente di percorso dovuto alla guardia.
Di solito le sbarre sono elettrificate, a esclusione di questi blackout da cinque minuti l'uno. Probabilmente è per questo che non ci sono lucchetti, o chiusure a chiave, ma semplici chiavistelli. Sapere tutto questo però non le impedisce di avere paura.
Si avvicina alla cella numero uno e fa un respiro profondo.
Bene, si è aperta, e lei è ancora tutta intera.
«Forza, ci siamo quasi», sussurra facendo segno al primo di uscire. Non sa se lui la stia capendo, per ora si limita a fissarla con gli occhi spalancati. Poi timidamente si affaccia sul corridoio e la segue, mentre Agata continua il percorso liberando man mano tutti gli altri.
Ha le mani che tremano, nell'aprire le ultime porte.
La cosa che la sconvolge è il silenzio. Pensava che il suo arrivo avrebbe provocato un sacco di rumore, di confusione, e invece la guardano tutti senza emettere alcun suono. Alcuni sono spaventati, altri curiosi, altri diffidenti. Ognuno di loro porta gli inconfondibili segni della fame e della sofferenza.
«Venite con me, vi porto fuori. Ce la faremo.»
Ha aperto l'ultima cella, ora tocca all'uscita, quella che dà sul parchetto dove suo fratello la starà aspettando con il furgone.
Agata non è religiosa, non crede in nessun dio, eppure in questo momento si trova a pregare che la procedura sul pannello di controllo si sia completata correttamente, e che la porta si apra senza problemi.
Percepisce un rivolo di sudore ghiacciato scolare tra le scapole, mentre appoggia la mano e prova a girare la maniglia.
È chiusa.
Prova di nuovo, ma niente da fare. All'improvviso le sembra di non riuscire più a respirare, le gira la testa. Riprova, quasi sradica la maniglia a forza di tirare, ma non succede niente.
È finita. Non ci sono scappatoie, nessuna via di fuga.
Come se non bastasse, le luci si riaccendono in quel preciso momento. Il rumore della porta dietro di lei, quella dalla quale è entrata, le gela il sangue. L'hanno scoperta.
Quando si gira e vede Alessandro, la guardia giovane e imbranata di poco fa, quasi le viene da ridere. Uccisa da un novellino dopo mesi passati a studiare il piano in ogni dettaglio, che cosa ironica!
Lo vede avanzare verso di lei, il suo sguardo fino a pochi minuti prima amichevole e aperto trasformato in una smorfia di seria concentrazione. Si avvicina a grandi falcate e nel frattempo si infila la mano nel giubbotto. Agata capisce che questa è la fine, ma stranamente non vede la sua vita passarle davanti agli occhi come dicono nei vecchi film. Sente solo un enorme terrore che le paralizza ogni singolo muscolo.
«Spostati, veloce», le dice la guardia spingendola bruscamente a lato.
«E la pistola?»
«Ma quale pistola?», risponde Alessandro estraendo dalla tasca interna la sua chiave magnetica.
Con un rapido gesto le sblocca la serratura, poi tiene l'uscita spalancata per lasciar passare lei e i prigionieri.
«Sbrigati, o avrò fatto tutto per niente. Dai, andate! Se ne accorgeranno solo stasera, nel frattempo vi copro io.»
Agata non sa cosa dire, poi d'impeto gli prende il viso tra le mani e gli stampa un bacio sulle labbra.
«Grazie», sussurra con un sorriso smagliante, «e comunque mi chiamo Agata, non Sara.»
Poi corre a infilarsi nel furgone di Yuri, fermo ad aspettarla a pochi metri coi portelli spalancati.
Dietro di lei, tutti i gatti e i cani finalmente liberi.

***

«Bravo fratellino, sono così scema che non avevo pensato al cibo», si complimenta Agata allungando un braccio a scompigliare i capelli ricci di Yuri.
Sul retro del furgone i cani e gatti ex prigionieri si stanno gustando i croccantini e l'acqua che suo fratello ha preparato per loro. Finalmente sembrano anche aver ritrovato la voce, l'abitacolo è un concerto di latrati felici e miagolii in vari toni.

Ormai sono lontani abbastanza da poter considerare il pericolo scampato.
Agata si è sciolta i capelli e ha allungato i piedi sul cruscotto. Di solito Yuri la rimprovera quando lo fa, ma oggi è talmente di buon umore che si limita a un affettuoso sguardo di ammonimento.
Agata sta quasi per lasciarsi andare al sonno, ma un peso improvviso sulle gambe la fa sobbalzare. Quando spalanca gli occhi si ritrova con un gattone nero in braccio. Nonostante la prigionia ha ancora un bel pelo, anche se in alcuni punti è più rado e opaco.
Agata rimane immobile, e il gatto fa lo stesso. La fissa con uno sguardo immensamente serio, per un momento che le sembra infinito. Poi si acciambella sulle sue gambe e lascia partire un brontolio basso.
«Mi sta facendo le fusa!» Esclama rivolta a Yuri.
«Eh sì, e direi proprio che te le sei meritate.»
Agata sorride e accarezza il micio cercando di ricacciare indietro le lacrime, di commozione e di sollievo. Finalmente sente sciogliersi tutta la tensione.
«Si chiama Hiro», dice sfilandogli il collare dove sono incisi i suoi dati e gettandolo nella borsa dei rifiuti.
Al suono del suo nome il gatto alza la testa e la guarda di nuovo. Agata vede qualcosa che non riesce a definire, nascosto in quelle iridi dorate. Gli accarezza il manto morbido e chiude gli occhi. Ha ancora molto da fare, ma almeno per oggi pensa di meritarsi un po' di riposo.
Appoggia la fronte al finestrino e si assopisce.

Cinzia Piantoni

dedicato alla gatta Emma



Racconto/2

Estate extraparlamentare

di Diego Giachetti


Ancora oggi non sa dire di preciso dove l'avesse imparato. Non certo dai libri che vennero dopo a parlargli di inchiesta, di conricerca, di lavoro di porta davanti ai cancelli delle fabbriche. Forse aveva colto qualche suggestione nelle sporadiche riunioni studentesche alle quali aveva partecipato nella vicina cittadina. Forse era lì che aveva sentito parlare di intervento davanti alle fabbriche. Forse era stata la lettura di qualche articolo di un quindicinale che fin dal titolo era tutto un programma: Lotta Continua. Per l'appunto: lotta continua che, tradotto nel suo giovane linguaggio, voleva dire fare qualcosa, non perder tempo, agitarsi, muoversi.
Fatto sta che quell'estate, a scuole chiuse e quindi inattivo, con altri due come lui decisero che non era il caso di stare dormienti in attesa del nuovo anno scolastico. A pochi chilometri da dove vivevano c'era un fabbrica nella quale lavorava una forza lavoro composita, proveniente dai paesi vicini. Visto e considerato si passò subito al fare. Inizialmente presero contatto con un piccolo gruppo di giovanissime operaie che lavoravano in quella fabbrica. Appresero dai loro racconti veloci della fatica che riscontravano, del senso di oppressione che veniva dalle otto-nove ore che dovevano trascorrere nel reparto. Scrissero un manifesto murale in tre-quattro copie che riportava quanto loro detto e lo affissero nelle piazze dei paesi di provenienza delle giovani lavoratrici. Decisero poi di allargare l'area di questi timidi contatti recandosi davanti ai cancelli della fabbrica nell'ora della pausa pranzo dei lavoratori per parlare con loro e con loro denunciare quelle che sembravano essere (ed erano) condizioni di sfruttamento.
Per due giorni di seguito si recarono al cancello. Pochi avevano voglia di parlare con loro. I più li ignoravano. Qualcuno li apostrofò anche pesantemente: «andate via!», «che volete?», «da chi siete pagati?», «fannulloni, andate a lavorare!». Tre-quattro li stavano a sentire in silenzio, intimoriti dalla reazione negativa degli altri lavoratori. Erano ragazzi e ragazze al primo impiego, disorientati, frastornati, succubi di quell'ambiente e di quei loro compagni di lavoro appena un po' più vecchi che manifestavano tutta la loro impermeabilità e chiusura. Altro che la classe operaia della Fiat di Torino e l'incontro col movimento studentesco di cui avevano letto le gesta epiche sul giornale. Lì era dura. La realtà veniva loro incontro per travolgerli.
Discussero di cosa fare e di come fare. Esporsi direttamente al cancello era controproducente, rischiava di bruciare i pochi contatti che avevano col gruppo ristretto di giovani operaie, timorosissime di esporsi pubblicamente. Si decise per un ultimo tentativo davanti al cancello, fatto con maggior determinazione, tesi al confronto anche aspro, con la parte più retriva dei lavoratori, quelli che li osteggiavano al limite dell'insulto. Ciò nella convinzione che se si fosse incrinato quel muro di ostilità, si poteva aprire un discorso con gli altri, quelli che, senza andarsene, assistevano muti al confronto-scontro tra gli studenti e quegli operai.
Fissato il giorno, all'ultimo momento, per sopraggiunte e improrogabili impegni, una delle tre avanguardie politiche non poté andare. Si recarono così al cancello solo in due a bordo di una Vespa 50. La giornata estiva, calda e limpida, aveva trascinato fuori dalla fabbrica, nel cortile un gruppo più numeroso del solito di lavoratori. Davanti al cancello furono subito coinvolti in un aspro battibecco col solito gruppo diffidente e critico, composto da operai più anziani. Una discussione inutile e sterile, così sembrò loro, che impediva solo il contatto con gli altri che stavano dentro il cortile della fabbrica. Dopo uno scambio di battute salaci li lasciarono e si diressero verso il gruppo più folto e numeroso che sostava seduto all'ombra.
Si avvicinarono e iniziarono una serie di dialoghi sporadici, ma meno tesi e avversi dei precedenti. Anche il piccolo gruppo di lavoratori che li aveva apostrofati prima entrò nel cortile e si frappose tra loro e gli altri lavoratori. Uno di loro, più esagitato, che si qualificò come membro della Commissione Interna, cercò di prendere in mano la situazione con battute volgari e dileggi. Ne nacque un battibecco salace:
- Ma tu rappresenti i lavoratori o il padrone?
- Che ne sai tu di padroni e lavoratori
- Senti, chi ti ha eletto a rappresentare il lavoratori? Lo ha deciso il tuo sindacato?
- Qui non c'è sindacato e non si fa politica
- Allora ti ha nominato il padrone, non c'è altra spiegazione.
Poi entrambi, rivolgendosi agli altri che ascoltavano ammutoliti e un po' divertiti, dissero:
- Dovete decidere voi chi vi rappresenta. Fate un'assemblea, confrontatevi sulle vostre condizioni di lavoro, stabilite quali sono le vostre richieste, poi eleggete i vostri delegati, solo quelli saranno i vostri rappresentanti. Si chiama Consiglio di fabbrica, è previsto dallo Statuto dei Lavoratori appena approvato dal Parlamento.
- Ma sentili i professorini, gli studenti perditempo, ciancionava incazzato quello della Commissione Interna.
Poi si diresse verso un ufficio. Lo videro telefonare, poi sorridere soddisfatto. Si rivolse loro e disse: «adesso vedrete!».
Passati pochi minuti un'auto grigio-argento entrò nel cortile. La portiera si aprì e scese un signore alto, ben vestito, giacca, cravatta, grosso e panciuto, coi capelli rossastri, la faccia rubizza.
«Chi siete? Che volete?», disse subito e proseguì con tono abituato al comando: «venite con me». Si diresse verso l'ufficio vicino alla portineria. In quell'attimo capirono chi era quel signore, era il padrone. Finalmente! Non più un concetto astratto. Ora l'avevano davanti, una persona in carne e ossa. Non ci pensarono, lo seguirono. D'altronde non potevano, davanti ai lavoratori intimoriti da quell'arrivo improvviso, abbandonare il campo, andarsene, ritornare sui propri passi, riprendersi la moto e dirigersi magari verso il lago che era lì a pochi chilometri, a cazzeggiare - come facevano volentieri - con altri giovani.
L'avessero fatto! E invece no. Il padrone entrò scazzato nel suo ufficio. Si sedette pesantemente sulla sedia girevole, distese le gambe. Senza guardarli negli occhi chiese cosa volessero nella sua fabbrica. Senza dare tempo di rispondere proseguì. «questa è una proprietà privata, voi l'avete violata entrando. Ora chiamo i carabinieri». Detto fatto, prese il telefono, compose il numero, spiegò al piantone cosa voleva e chiese di intervenire subito.
La stazione dei carabinieri era vicina, neanche un chilometro. Il furgoncino dei caramba arrivò immediatamente. Dopo essersi presentato, rigido nella sua divisa, l'appuntato invitò i due a seguirlo e ad accomodarsi sui sedili posteriori dell'autoveicolo. Sbigottiti, stralunati, sorpresi non ebbero neanche tempo di rendersi bene conto di quanto stava accadendo che il furgoncino era già nel cortile della caserma.
- Scendete, disse l'appuntato
- Falli accomodare nella stanza, disse a un altro carabiniere.
Furono condotti in una stanzetta, guardati a vista. Si sedettero. Passarono pochi minuti. Ricomparve l'appuntato e disse a uno dei due, quello più giovane, «mi segua nell'ufficio del Maresciallo». Dopo una ventina di minuti fece ritorno nella stanza. Toccò all'altro. Il Maresciallo impettito e burbero lo ricevette e dopo averlo fatto sedere cominciò: -«generalità, dove abita, cosa fa, quanti anni ha?». Espletata la procedura proseguì.
- Chi vi ha mandato davanti alla fabbrica?
- Nessuno. È stata una nostra decisione.
- Non è possibile. Qualcuno vi ha pagato per farlo?
- No, nessuno ci paga.
- Siete iscritti a qualche partito?
- No.
- Frequentate riunioni di partito?
- No.
Irritato da tanta verità che non voleva forse sentire cambiò all'improvviso tono facendosi minaccioso: «Attento, non fare lo strafottente, io ti posso sbattere in cella. Ti posso denunciare, finisci nelle grane». L'interrogato non rispose. Si guardava attorno. Nell'angolo l'appuntato era alla macchina da scrivere, indietro, ancora a battere sui tasti con due dita, nome, cognome, ecc. dell'interrogato. Tutto il resto era silenzio. La lampada della scrivania era accesa e illuminava poche carte sparse, qualche biro, un posacenere. Il Maresciallo si riposizionò sulla sedia, prese una sigaretta e l'accese. Poi disse:
- Frequenti riunioni politiche?
- Sì, faccio parte di un collettivo operai-studenti
- Chi è il capo? Come si chiama?
- Non ci sono capi, siamo un gruppo, un collettivo
- Ho capito. È un po' strano però. Nessuno ti ha mai dato dei soldi per portare una bandiera rossa in una manifestazione?
- No.
- Fai attenzione, sei giovane, cominci male. Lascia stare la politica, dimmi chi ti ha insegnato o istigato a fare quello che hai fatto.
- Che cosa ho fatto?
- Le domande le faccio io. Perché andavate alla fabbrica?
- Volevamo discutere e confrontarci con gli operai, i lavoratori, capire la loro condizione e, possibilmente, cambiarla tutti assieme.
- Non sono cose per voi, è la politica, è il sindacato, statevene alla larga. Avete commesso un reato.
- Quale?
- Violazione della proprietà privata.
- A sì! La proprietà privata è già di per sé stessa una violazione, un reato che spiega e anticipa tanti altri reati....
- Taci giovanotto. Qui non si fa propaganda. Ora ti sistemo per bene. Sentiamo il Magistrato.
Alzò la cornetta, compose frettolosamente un numero. Stranamente subito si mise a parlare col Magistrato. Spiegò il caso succintamente:
- No, non c'è denuncia, ripeté due volte
- Sono giovanissimi, di un paese qui vicino, incensurati, studenti
- Va bene, sì, allora niente... Buongiorno
Raccolse le carte sparse sul tavolo. Spense la sigaretta, poi disse: «Può andare. Buongiorno». L'appuntato lo accompagnò, rivide il suo compare che lo aspettava. Scesero nel cortile, il portone si aprì. Camminarono veloci, era ormai pomeriggio inoltrato. Tornarono al cancello dove tutto aveva avuto inizio. La Vespa 50 c'era ancora. Partì al primo colpo. Tornarono da dove erano venuti.

Diego Giachetti



Racconto/3

Mom and Dad

di Giuseppe Ciarallo


Mama, Mama
Someone said they made some noise
The cops have shot some girls and boys
You'll sit home and drink all night:
They looked too weird
It served them right

Mamma, Mamma / dicono che ci sono stati dei disordini / La polizia ha sparato a dei ragazzi e a della ragazze / Tu stai in casa a bere tutta la sera: / Sembravano degli sballati / Ben gli sta! /

Per l'ennesima volta lo schermo mandò in onda le drammatiche immagini degli scontri. Le fotografie scattate in sequenza scandivano con forza devastante la tragedia in atto.
Un gruppo di giovani circonda una jeep delle forze dell'ordine rimasta misteriosamente isolata; nell'angolo in alto a sinistra del teleschermo due agenti poco distanti sembrano chiamare rinforzi. Dall'interno del mezzo, attraverso il finestrino posteriore in frantumi qualcuno scaglia verso l'esterno un estintore, che rimane lì, sospeso, come se galleggiasse a mezz'aria. I manifestanti assaltano la camionetta. Un ragazzo a petto nudo e col volto coperto, con un asse di legno cerca di sfondare il finestrino sul lato destro del veicolo. Un altro giovane in canottiera e sottocasco blu a coprirgli il viso, si china per raccogliere l'estintore poc'anzi scaraventato fuori dall'abitacolo. È a tre, quattro metri dalla camionetta. Dal finestrino posteriore infranto spunta una mano. La mano impugna una pistola. La pistola fa fuoco. Il ragazzo in canottiera e sottocasco blu si accascia al suolo colpito in pieno volto.
Pozza di sangue. Confusione. Fuggi fuggi generale. La camionetta fa retromarcia per disincagliarsi da quella posizione di stallo divenuta a quel punto molto pericolosa, anzi, dopo il ferimento del manifestante addirittura esplosiva. Le gomme del pesante mezzo passano per ben due volte sul corpo esanime del ragazzo. Il gippone riesce a fuggire. Dalla sinistra dello schermo giungono decine e decine di agenti in tenuta antisommossa i quali, dirigendosi verso i dimostranti che vanno ricompattandosi ai lati della piazza, superano il cadavere del ragazzo, perché oramai è chiaro, inequivocabile, non può esserci più vita in quel corpo ch'è oramai tutt'uno con l'asfalto scarlatto.

Ever take a minute
Just to show a real emotion
In between the moisture cream
And velvet facial lotion?
Ever tell your kids
You're glad that they can think?
Ever say you loved 'em?
Ever let 'em watch you drink?
Ever wonder why
You daughter looked so sad?
It's such a drag to have to love
A plastic Mom and Dad.

Hai mai trovato il tempo / per mostrare un'emozione sincera / sotto la crema detergente / ed il tonico astringente? / Hai mai detto ai tuoi figli / che sei contenta abbiano un cervello per pensare? / Hai mai detto / che gli vuoi bene? / Gli hai mai detto che bevi? / Ti sei mai chiesta perché / tua figlia è sempre così triste? / È una tale noia dover amare / una Mamma e un Papà di plastica /

Il padre, con una smorfia di disgusto disegnata sul viso, distolse lo sguardo dall'apparecchio televisivo, guardò il suo piccolo, seduto di fronte a lui, poi la moglie, alla sua destra.
Lei teneva gli occhi fissi sul teleschermo anche se era facile indovinare quanto la sua mente stesse vagando lontano anni luce dalle immagini violente appena trasmesse. Lui le afferrò la mano e lei ricambiò la stretta, poi, come tornando improvvisamente in sé, girò la testa verso l'uomo e gli sorrise. Il posto alla sinistra del padre era vuoto e non apparecchiato.
“Dov'è andata esattamente Valeria per questo weekend?”
“In montagna con Barbara, la sua compagna di università. I suoi affittano per l'estate una casetta di quelle in legno, tipo baita.”
Il figlio distolse lo sguardo. Temeva vi si potesse leggere che la sua sorellina era sì con Barbara, ma da tutt'altra parte.
La madre sorseggiava nervosamente vino rosso da un bicchiere colmo fino all'orlo. Fece un cenno del capo verso la TV dove un cronista al limite della necrofilia continuava a mostrare, compiaciuto, le spoglie del ragazzo mimando le fasi concitate che avevano portato a quella morte assurda.
“Be', non si può proprio dire che quel ragazzo non sia andata a cercarsela!” esclamò il padre.
La donna non mosse un solo muscolo del viso. Il figlio alzò gli occhi che fino a quel momento aveva tenuto fissi nel piatto senza però avere il coraggio di dire quello che effettivamente aveva in animo.
“Certo, dispiace vedere una giovane vita spezzarsi in quel modo. E poi perché? Per che cosa? Queste manifestazioni io le vieterei tutte e risolverei in questo modo il problema alla radice. Perché queste proteste non possono che sfociare nella violenza, in quanto dietro questi giovani, ingenui esaltati, si nascondono persone senza scrupoli, che restando nell'ombra li plagiano e dirigono come soldatini di piombo. Li illudono che si possa cambiare il mondo, che la giustizia possa essere affermata come diritto universale, che possa essere debellata la fame e la povertà nei paesi in via di sviluppo, che l'ultimo degli ultimi su questa terra debba e possa avere lo stesso peso e la stessa dignità di un potente. Balle! Solo balle! Ignobili e sporche bugie! Il mondo ha sempre girato in questo modo e sempre girerà così. Nella preistoria c'erano i ricchi e i poveri. C'erano i cacciatori e le schiappe, quelli che si impegnavano per procurarsi il cibo e gli scansafatiche. I primi sopravvivevano, gli altri soccombevano. Né più né meno che adesso. Questa è selezione naturale, cari miei. Nell'antica Roma c'erano i patrizi e i plebei, nel Medio Evo c'erano i feudatari e i servi della gleba, oggi ci sono borghesi e proletari e domani li chiameranno in qualche altro modo, ma sia ben chiaro che se non è zuppa è pan bagnato. Non cambierà mai niente!”
L'uomo, visibilmente alterato parlava, anzi urlava come al cospetto di un'invisibile platea.
La moglie, forse in un attimo brevissimo di coscienza, aveva pensato alla madre del ragazzo ucciso continuando a guardare inebetita lo schermo, infine aveva deciso di scacciare definitivamente i pensieri molesti che avrebbero potuto mettere in crisi la sua intera esistenza. Preferì concentrarsi su più piacevoli occupazioni quali la palestra, il solarium, il drink con le amiche, le partite di canasta.
Il ragazzetto invece, arguto quindicenne cresciuto a libri, dischi e fumetti della sorella maggiore, fingendo il candore più disarmante chiese: “Ma scusa papà, stai dicendo che siccome la povertà esiste da sempre, sia giusto che milioni di persone, soprattutto bambini, muoiano di fame ogni anno?”
Il padre, colto di sorpresa da quell'inaspettata sortita, per poco non si strozzò nel trangugiare una lunga sorsata di vino.
“Non ho detto questo, perdìo!” urlò battendo rumorosamente la mano sul tavolo e rovesciando la bottiglia che era andata a inzuppare la tovaglia col suo rosso contenuto. Continuò cercando di riprendere il controllo di sé. “Non ho detto questo. Dico solo che guerreggiare con le forze dell'ordine non è il modo consono per affrontare questi problemi che comunque, questa è la mia opinione, io credo siano irrisolvibili. Vedi caro, la nostra civiltà ha permesso a un gran numero di persone di poter vivere una esistenza dignitosa, di poter avere accesso oltre che allo stretto necessario, anche ad alcune cose superflue che rendono la vita più piacevole. La mia auto, il motorino di tua sorella, il tuo computer. Tutte queste cose consumano energia, quindi per farle funzionare ci servono elettricità, petrolio eccetera. E il petrolio bisogna andare a prenderlo dove c'è, con le buone o con le cattive. Altrimenti la nostra società è destinata a regredire all'età della pietra.”
Il ragazzo, che oramai ci aveva preso gusto a stuzzicare il padre, buttò un altro sassolino nello stagno.
“Papà, cosa vuol dire con le buone o con le cattive?” disse. Guardò per un istante la madre che stava versando nel suo bicchiere le due gocce di vino che non erano finite a macchiare la tovaglia, quindi rivolse nuovamente tutta la sua attenzione al padre.
“Vedi, figliolo, un altro cavallo di battaglia di questi grandi ipocriti è proprio la pace” nemmeno si accorse del prodigioso ossimoro or ora pronunciato. “Ma la pace non può essere un dogma. La pace, per non sfociare nel suo contrario, la guerra, deve camminare perennemente sul filo del rasoio, necessita di un continuo equilibrio che non sempre è possibile mantenere. L'ipocrisia dei comunisti, come appropriatamente ancora li chiama il nostro primo ministro, sta proprio nel fatto che nascondendosi dietro al paravento del pacifismo più becero, vogliono celare la guerra che il terrorismo internazionale ha dichiarato e sta già combattendo contro la nostra civiltà...”
“Sì, papi...” lo interruppe il piccolo figlio di puttana “ma anche don Angelo, il nostro insegnante di religione dice che un vero cattolico non potrà mai essere a favore di una guerra, così come dovrebbe opporsi alla pena di morte per riaffermare in ogni istante la sacralità della vita. Allora anche il nostro sacerdote è un pericoloso comunista?”
Il padre, cianotico, in bilico tra il cominciare a urlare come un invasato e il continuare a rispondere pazientemente a quelle che sembravano normali domande ingenuamente poste da un'anima candida, non seppe far altro che battere nuovamente il palmo della mano sul tavolo e nuovamente rovesciare la bottiglia del vino per fortuna oramai vuota.
“Basta! Vai a letto! Questi sono discorsi da grandi. Buona notte!”
Con l'anima sorridente di scherno contrapposta a un'espressione del viso insondabile, il ragazzetto si alzò e si diresse verso la sua camera da letto. Prima di chiudere la porta alle sue spalle esclamò tra i denti: “Borghese guerrafondaio del cazzo!”
Senza troppa convinzione l'uomo continuò rivolgendosi alla moglie. Sembrava però che le parole uscissero dalla sua bocca per convincere sé stesso, più che gli altri, che lo stile di vita trasmessogli dai genitori, che aveva deciso di fare suo e di tramandare ai figli, fosse effettivamente quello giusto. Mormorò: “Il nostro dovere è quello di comportarci onestamente, di dare un'educazione ai nostri figli nel rispetto della parola di Dio, di impegnarci nel lavoro e...”
“Vado a prepararmi per la notte” tagliò corto la moglie alzandosi di scatto, non prima di aver scolato d'un fiato il mezzo bicchiere di vino avanzato.

Mama! Mama!
Your child was killed in the park today
Shot by the cops as she quietly lay
By the side of the creeps she knew...
They killed her too*

Mamma! Mamma! / La tua bambina è stata uccisa oggi nel parco / le hanno sparato i poliziotti mentre era sdraiata tranquillamente / vicino agli sballati amici suoi... / Hanno ucciso anche lei.

Lo stanzone era buio e freddo. La fioca luce era data da una nuda lampadina che penzolava sinistramente dal soffitto come un impiccato.
Il corpo steso sullo spoglio lettino era inerte, silenzioso, di un pallore spettrale; la testa era leggermente sollevata da un cuscino lurido.
Entrando nello squallido locale la scena si presentava in una strana prospettiva che ricordava vagamente il Cristo morto del Mantegna, ma ancor più carica di angoscia e strazio, se possibile.
Quella figura minuta pareva cera sciolta sul materasso, le manine delicate e le dita affusolate a sfiorare la tela ruvida del lercio lenzuolo. La faccia era deformata da colpi inferti visibilmente senza pietà e con una violenza inaudita, l'occhio sinistro era chiuso e cerchiato di un nero sporco; la fronte appariva gonfia e bluastra e sotto i capelli appiccicati al cranio si indovinavano bozzi dovuti a violente bastonate. Sul viso e sul labbro spaccato, rivoli di sangue rappreso e una ragnatela di graffi sembrava una macabra decorazione lungo braccia così magre da fare impressione.
Sulla narice sinistra, la carne lacerata faceva pensare a un anellino strappato via con furia cieca.
Quel macello era riassunto, tra i tanti, in un pacco di fogli compilati in tutta fretta senza badare troppo a forma e contenuto e soprattutto senza soffermarsi sul fatto che ogni burocratico verbale si riferiva a esseri umani in carne, martoriata, ed ossa, rotte.
Il foglio di ricovero recitava freddamente: Ricoverata la sera del 21 luglio. Paziente femmina di circa vent'anni. Nessun segno particolare. Al momento del ricovero presentava politrauma grave e commozione cerebrale. Le lesioni sembrano essere state causate da ripetute percosse inferte con oggetto contundente. Prestate le prime cure al pronto soccorso di chirurgia. Attualmente in stato di coma, sottoposta a un periodo di osservazione. Alimentata per via endovenosa. Prognosi riservata.

Due poliziotti fecero il loro ingresso nella stanza e si fermarono davanti al corpo della ragazza.
“Anche questa è una di quelle della scuola?”
L'altro annuì continuando a fissare quello sfacelo.
“Sappiamo come si chiama?”
“Sì, Valeria nomiricordoché, anche se ufficialmente risulta non identificata. Abbiamo fatto sparire i documenti in modo da non dover dare comunicazioni alla famiglia... almeno per qualche giorno.”
“Dici che se la caverà?”
“Tu che ne pensi?” rispose l'altro con un sorriso simile a una smorfia sul volto.
Il primo poliziotto scosse la testa. “Se ne fosse stata a casa sua a studiare, ora non si troverebbe in questa condizione. Se l'è andata proprio a cercare!”
“Andiamocene, va'. E non stare lì a farti troppi scrupoli. Noi abbiamo fatto solo il nostro dovere.”
Spensero la luce e il mondo intero piombò nel buio.

Giuseppe Ciarallo

*Frank Zappa, Mom & Dad, 1968