Rivista Anarchica Online


pedagogia

Il tramonto di una cultura educativa

di Eletta Pedrazzini


L'odierno malfunzionamento della scuola si rivela sintomo di una generalizzata crisi della visione educativa che nel tempo si è cristallizzata, dando vita a una cultura molto forte all'interno della nostra società.
Un'analisi critica dell'istituzione scolastica esistente è il punto di partenza per dare vita ad esperienze educative alternative, nell'ottica di un cambiamento sociale.
In queste pagine pubblichiamo stralci da una tesi di laurea inedita.


La scuola è l'agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com'è.
Ivan Illich

“Pedagogia libertaria” risulta un'ampia denominazione che accosta e riassume gli sforzi teorici e pratici di molti autori, che nel corso dei secoli e in diverse parti del mondo hanno cercato di tracciare in ambito educativo una via alternativa a quelle già esistenti, un sentiero altro rispetto a quelli tradizionali e comunemente accettati, cercando così di mostrare un volto dell'educazione normalmente tenuto in ombra, volutamente nascosto o infangato. Da William Godwin ad Alexander Neill, passando per Lev Tolstoj, Louise Michel e Francisco Ferrer Y Guardia, sono molti gli autori dalle idee e pratiche controcorrenti, che ancora oggi rappresentano guide o riferimenti per coloro che intendono continuare a percorrere questo sentiero alternativo, spesso più lungo, incerto e meno spianato di quelli tradizionalmente esistenti. Queste ultime caratteristiche ne rendono complicato l'attraversamento e fanno della pedagogia libertaria un oggetto di studio più sfuggente e difficilmente incasellabile: a partire da alcuni macroprincipi fondanti, quali antiautoritarismo, libertà – concetto peraltro più volte problematizzato e chiarito dai diversi autori in questione – e costruzione di relazioni e percorsi basati sul consenso, ogni teoria e progetto libertario può infatti assumere particolari specificità; ciò avviene sulla base del periodo storico e del contesto socio-culturale in cui essi si sviluppano – principio valido tanto per le teorie quanto per le esperienze –, a cui poi si aggiunge il fatto che, soprattutto nel caso di progetti esperienziali, i generali principi teorici possono trovare diverse applicazioni, dando vita a percorsi che non fanno così riferimento a un unico modello né si limitano a mettere in pratica istruzioni già definite e pronte all'uso.
Tale discorso è in generale valido per qualsiasi forma di lavoro educativo ma è ancora più calzante nel caso delle esperienze libertarie. Queste ultime, fondandosi sulla necessità di partire dalle personalità dei soggetti che vi partecipano, risultano in costante decostruzione e ricostruzione, quindi chiunque intenda prendervi parte come accompagnatore dei bambini/ragazzi coinvolti non può che fare i conti con l'incertezza che esse comportano e dare vita a un'assidua riflessione su di sé, mettendosi in discussione, modificandosi, riposizionandosi o ricalibrando il progetto stesso; senza questo aspetto infatti verrebbe meno la maggior parte di quei macroprincipi su cui poggia l'esperienza, che cesserebbe di esistere o si trasformerebbe in una degenerazione fuorviante. Nella scuola tradizionale invece ciò può anche non avvenire e il mancato adattamento dell'istituzione ai soggetti che vi prendono parte sembra non intaccarne in alcun modo il progetto educativo, ma anzi rafforzarne la struttura.
Si tratta di una delle molte discrepanze insite nelle concezioni educative che emergono da queste diverse esperienze: nelle scuole libertarie l'adattamento alle caratteristiche dei soggetti è avvertito come un valore fondante, mentre in quella tradizionale di oggi – e probabilmente anche del passato, a detta degli autori dei secoli scorsi – esso appare un extra, qualcosa di non necessariamente dovuto e che dipende principalmente dalla sensibilità degli insegnanti che vi lavorano. Si potrebbe giustamente ribattere che questa tendenza ad adattarsi a bambini e ragazzi sia favorita dall'esiguo numero di soggetti coinvolti nei progetti libertari e che quindi sia ben più difficile da applicare in una scuola di grandi dimensioni; questo è indubbio, però è altrettanto vero che, anche con un numero più ridotto di alunni, la conformazione della scuola tradizionale rimarrebbe in alcuni casi pressoché identica, o almeno molto simile.
Sono in gioco qui due visioni educative profondamente diverse, che rendono questi sentieri difficilmente intrecciabili: da un lato la scuola è percepita come un diritto, in particolare di vivere esperienze riconosciute dai soggetti come significative; essa viene fatta diventare un tutt'uno con la vita, dalla quale risulta inscindibile, pone al centro i bambini/ragazzi che la frequentano e rende gli adulti degli accompagnatori, che in caso di necessità li supportano nei loro percorsi di studio, personali e nati sempre da un interesse. Nell'altro la scuola è anche e soprattutto un dovere, è il luogo di “lavoro dei bambini” che, proprio perché giovani e inesperti, hanno bisogno di essere formati; li sottrae alla vita per determinate ore al giorno e per un elevato numero di anni, per poi restituirli ad essa muniti di nozioni, conoscenze e competenze, travasate o comunque trasmesse loro da un adulto che sa e che quindi svolge un ruolo di insegnante.

Gerarchie tra falsi eguali

Nel primo caso la scuola è costruita dai bambini, sulla base dei quali assume una particolare forma, mentre nel secondo è fatta dagli adulti, che la progettano senza sapere chi andrà a frequentarla né quali saranno le sue caratteristiche e propensioni.
In un progetto libertario si pone infine molto più l'accento sulla singolarità, partendo dall'idea che l'uguaglianza stia proprio nell'essere tutti diversi, ma non per questo superiori o inferiori agli altri; nella scuola tradizionale l'accento sembra invece essere posto sull'uguaglianza, la quale in realtà si rivela spesso pura apparenza: non solo infatti è il termine che la scuola utilizza per mascherare e indorare la pillola dell'omologazione, ma induce anche a creare false speranze ai soggetti e alle famiglie coinvolte. Dichiara – soprattutto la scuola pubblica – di voler concedere pari opportunità e occasioni di crescita a tutti, illudendoli di essere ai suoi occhi uguali, ma in realtà nella pratica quotidiana continua ad attuare l'esatto contrario; l'esempio più lampante è la valutazione, uno degli strumenti centrali dell'istituzione scolastica, intorno alla quale sembra ruotare la sua intera struttura e da cui sembra dipendere il futuro dei soggetti ad essa sottoposti. Attraverso la valutazione la scuola crea, tra quegli alunni che dice di considerare uguali, scale e gerarchie, che porteranno alcuni a salire, ad avere successo, a godere di maggiore riconoscimento e stima, ad essere considerati idonei, adeguati o meritevoli, e altri a scendere, ad accumulare insuccessi, a rappresentare un peso o una devianza rispetto al sistema, a sentirsi inadeguati e incapaci, insomma inferiori. “Il merito, così come lo si intende oggi, è una parola d'ordine, una categoria ideologica che copre con un alone di apparente giustizia, un progetto – in sé irrealizzabile – di ottimizzazione efficientista. La sua irrealizzabilità effettiva non gli impedisce tuttavia di diffondere un'atmosfera di inquietudine, di minaccia, di colpa in tutti coloro che non si identificano nel modello che soggiace alla sua diffusione1”.

Prepararsi alle ingiustizie

L'istituzione scolastica, che nonostante ciò che dichiara risulta fortemente meritocratica, spesso giustifica questo suo modus operandi usando la scusante della preparazione alla società: essendo l'educazione spesso definita un campo che parte dalla vita e ad essa ritorna, discostandovisi parzialmente per doppiarla e far vivere ai soggetti particolari esperienze in ambienti altri e più protetti, la scuola giustifica molte delle sue ingiustizie e assurdità affermando di voler fare proprio questo, di voler preparare bambini e ragazzi al mondo della vita, fortemente duro e competitivo, che “non guarda in faccia nessuno”, una vera e propria “vasca di squali” nella quale bisogna saper nuotare, imparando a farlo proprio all'interno e grazie ad essa. Facendo parte di una società che inserisce costantemente i suoi membri in scale e gerarchie, la scuola attraverso gli strumenti che utilizza – tra cui la valutazione – non fa altro che riprodurre in un ambiente altro e più protetto le dinamiche sociali dominanti, preparando così bambini e/o ragazzi a ciò che li attende nel mondo esterno.
A questo punto occorre però riflettere su quale debba essere uno dei compiti della scuola: se si ritiene che quest'ultima debba perpetuare la società in cui è inserita senza apportarle alcuna modifica ma anzi preparando le nuove generazioni all'ingresso in essa, allora la sua struttura tradizionale risulta assolutamente incontestabile, anzi la scelta migliore per tutti i bambini/ragazzi, in quanto svolge alla perfezione questo compito. Se invece si pensa che essa debba avere degli effetti trasformativi sulla società e quindi modificarne le caratteristiche, ecco che tutt'a un tratto appare inadeguata e non resta che scegliere tra due possibili strade: trasformarla oppure dare vita ad esperienze alternative. La prima sarebbe la soluzione più efficace e consentirebbe un cambiamento di grande portata anche nella società, date le sue dimensioni e le persone che coinvolge, tuttavia si rivela un sogno pressoché irrealizzabile, difficilmente concretizzabile se non ricostruendo da zero una scuola nuova, dalle fondamenta diverse rispetto a quelle attuali; si tratta di un'impresa titanica da compiere dall'interno, poiché gli sforzi di molti insegnanti, seppur volenterosi e rivoluzionari, non riescono comunque a trasformare l'enorme macchina di cui sono parte. Essi possono smussarne alcuni angoli o dimostrare a bambini e ragazzi che esiste anche un altro modo di abitare la scuola, però quest'ultima rimarrebbe pressoché immutata e i coraggiosi insegnanti si troverebbero comunque a fare i conti con aspetti, magari organizzativi o burocratici, che non possono cambiare e ai quali devono in qualche modo adeguarsi. Il legame con lo Stato rende inoltre ancora più difficile l'attuazione di trasformazioni radicali all'interno della scuola dunque, in un sistema così altamente regolato e gerarchizzato, gli sforzi degli insegnanti si rivelano in molti casi pressoché vani; permangono infatti elementi e regole imposti dall'alto che non possono in alcun modo essere modificati da chi è impegnato nel lavoro quotidiano con bambini e ragazzi, che spesso diventa, più o meno consapevolmente, una pedina del sistema stesso, contribuendo così a perpetuarlo. Ecco allora che l'istituzione scolastica, come il pellicano di Robert Desnos2, continua a riprodursi sempre uguale a se stessa, almeno fino a quando qualcuno, proprio come nella poesia, non deciderà di interrompere questo ciclo inarrestabile.
Se trasformare la scuola appare praticamente impossibile, non restano che due strade: riprogettarla da capo oppure tracciare sentieri alternativi che si discostino da essa e, basandosi su principi e valori altri, diano vita ad esperienze educative diverse; è proprio in questa direzione che procede la pedagogia libertaria, con tutte le difficoltà e i rischi ad essa connessi. Oggi tuttavia non è la sola ad impegnarsi per la realizzazione di un'educazione diversa e accanto ad essa emergono altri sentieri che, nonostante le differenze, rimangono pur sempre tracciati da persone che intendono mostrare un altro volto dell'educazione, più nascosto e spesso oscurato. La controeducazione è sicuramente uno di questi: essa si configura oggi come un diverso modo di sentire, pensare e scrivere3 di educazione e più in generale di vita, che intende prendere le distanze e denunciare l'impianto educativo tradizionale, le strutture che ne derivano – una su tutte la scuola, a cui non a caso i testi di Paolo Mottana dedicano particolare attenzione – e alcune tendenze in voga presso la società contemporanea, che necessitano di essere problematizzate e su cui occorrerebbe fermarsi a riflettere.

Rovesciare le certezze esistenti

Si tratta di una visione altra di infanzia, adolescenza, piacere, sapere, scuola, educazione, città, società, che si presenta come assolutamente controcorrente rispetto al significato e alla conformazione che questi hanno assunto nel tempo, cristallizzandosi e costituendo ancora oggi dei punti fermi difficilmente scardinabili. Ecco allora che la controeducazione decide di muoversi nella direzione di una rottura e di un rovesciamento delle certezze esistenti, dimostrando che un altro modo di vedere, pensare e agire non solo è possibile ma anche auspicabile in una società che, mai come oggi, appare segnata da enormi problemi. Partendo dall'idea che non sia possibile far fronte a questi ultimi utilizzando la stessa mentalità e le stesse credenze che li hanno generati, la controeducazione si presenta quindi come una modalità di pensiero altro, fondata su valori e principi diversi rispetto a quelli comunemente accettati, riconoscente ad autori eversivi, che considera «riserve permanenti e tuttora in azione, di un pensiero trasformatore e inatteso4» e che risultano tanto controcorrenti quanto poco considerati nel panorama pedagogico italiano; grazie anche al riferimento a questi «cattivi maestri5», essa mantiene una posizione ben distinta e lontana dalle concezioni educative tradizionali e dalle istituzioni ad esse connesse, sfuggendo così alla conformazione e all'omologazione del pensiero tipiche della società contemporanea e proponendo un modo altro di concepire l'educazione e la vita.
“Controeducazione è piena affermazione del tutto della vita perché essa non sia più derubata, non sia sottomessa, non sia barattata e sfruttata per sostenere l'intensità di alcuni, il loro godimento, il loro dominio, la loro possibilità contro l'impossibilità di molti. Niente di utopico, come si vede, solo una caparbia affermazione di giustizia, contro la rassegnazione e l'adattamento, contro l'acquiescenza e la complicità con modelli di educazione che fomentano la passività, la dipendenza, la mortificazione di tutto ciò che non sia conforme, ordinato, prescritto e sottomesso6”. Essa critica aspramente l'istituzione scolastica contemporanea, le caratteristiche che assume e i pilastri su cui poggia; la definisce «un obbrobrio7» per la struttura che presenta, la conformazione simile a un istituto di contenzione e internamento, la gerarchia che riproduce, gli strumenti di cui si serve e i modi in cui tratta il sapere. Così come la pedagogia libertaria, anche la controeducazione ritiene che la scuola sia difficilmente trasformabile quindi non si può fare altro che abbatterla, a partire dalle fondamenta su cui poggia8; per distruggere un'istituzione così forte e radicata nella cultura contemporanea è però necessaria una preliminare analisi degli aspetti che oggi la contraddistinguono, che vanno quindi problematizzati e approfonditi in modo da smascherare intenzioni e dinamiche che sono poco visibili ma, proprio nella loro latenza, continuano a produrre effetti devastanti sulle persone a cui la scuola si rivolge.

Raggiungimento di obiettivi latenti

Un esempio su tutti riguarda gli obiettivi dell'istituzione scolastica: Mottana sottolinea infatti come, nonostante essa dichiari di perseguire obiettivi di alfabetizzazione e acculturazione, la sua conformazione spazio-temporale, gli strumenti, i metodi e le pratiche in essa diffusi fanno pensare ad essi come una facciata utilizzata dall'istituzione per nascondere i suoi veri obiettivi, che apparirebbero meno accettabili rispetto a quelli che dichiara. Approfondendo inoltre i risultati che la scuola attualmente ottiene, emerge come non a caso la sua struttura ostacoli sempre più il raggiungimento degli obiettivi dichiarati – sono all'ordine del giorno riflessioni su quanto la preparazione dei giovani sia sempre più lacunosa –, ma non di quelli latenti, quali controllo, manipolazione, livellamento, atrofizzazione di ogni forma di pensiero critico e omologazione9. “Generazioni e generazioni di giovani [...] escono da quel luogo in larga maggioranza indeboliti fisicamente, condizionati negativamente nel loro immaginario del sapere, inebetiti e fondamentalmente anestetizzati o addirittura portatori di odio per ogni forma di cultura10”.
Normalmente questi atteggiamenti, così come la generale passività che sembra contraddistinguere bambini e ragazzi, vengono considerati inspiegabili e ricondotti ai soggetti in questione, che agli occhi degli insegnanti ma anche dei genitori appaiono gli unici responsabili di questa tendenza a non appassionarsi più a nulla, a non interessarsi ad alcuna forma di cultura e a dedicare la maggior parte del loro tempo a oziare o a isolarsi dal mondo attraverso cuffie di lettori mp3 o videogiochi. Nessuno si chiede però se questo atteggiamento non sia uno dei risultati non solo della scuola, che per le sue caratteristiche risulta un vero repellente contro il sapere e la cultura, ma anche della società in generale, che sembra riversare sui giovani continue aspettative degli adulti ed esercitare su di essi un controllo così forte da far nascere in loro la necessità di staccarsi dalla realtà che li circonda e di vivere in mondi altri, immaginari e virtuali, non imposti dagli adulti né da loro direttamente controllati. “Il soggetto giovane è sempre stato un bersaglio ghiotto per la morale “adulta”, dai tempi di Seneca, e anche prima. Ma mai come oggi assistiamo ad un florilegio di rappresentazioni giudicanti, come se improvvisamente la gioventù fosse diventata irreparabilmente malata, disperata, morbosamente intrattabile11”. Anziché limitarsi a giudicare i giovani per i loro comportamenti e limiti, occorrerebbe concentrare maggiormente l'attenzione sulla realtà sociale che li circonda.
Oggi si è alle prese con un evidente malfunzionamento della scuola che, se approfondito, si rivela sintomo di una generalizzata crisi della visione educativa che nel tempo si è cristallizzata, dando vita a una cultura molto forte all'interno della nostra società. La controeducazione segnala quindi la necessità di un tramonto di tale cultura educativa – alquanto inquietante e dannosa – e delle certezze ad essa connesse; nella sua opera di denuncia dei limiti di una siffatta visione, dedica particolare attenzione all'analisi critica dell'istituzione scolastica esistente, a partire dalla quale estende poi gli attacchi all'intera impostazione sociale di cui essa è parte12.
La scuola così com'è non può più funzionare: essa si serve di tempi altamente regolati, di spazi poco attraenti, di programmi sempre uguali, totalmente indifferenti ai reali interessi delle persone a cui si rivolge e lontani da ciò che vivono al di fuori delle sue mura; inoltre separa, parcellizza il sapere in materie che sembrano procedere indipendentemente le une dalle altre, senza rimandi o collegamenti tra loro e lo relega in manuali altamente organizzati e schematici13. Presenta una struttura rigida e fissa, che non tiene minimamente conto dei soggetti a cui si rivolge, dotati di personalità, caratteristiche, limiti, capacità, interessi e desideri molto diversi tra loro: tutto questo al suo interno non sembra essere di primaria importanza, in quanto ciò che conta realmente è il livello di preparazione degli alunni e il numero di nozioni da essi appreso, valutato in modo sempre più scientifico e oggettivo e sulla base del quale essi verranno inseriti in statistiche e scale, nazionali ma anche europee, che evidenzieranno come in alcuni Stati i giovani siano più intelligenti e in altri più ignoranti – come se poi l'intelligenza potesse essere misurata con test a risposta multipla –.

La centralità del profitto

La scuola poggia infatti sui pilastri fondamentali della disciplina e della valutazione, stabilendo a priori cosa sia o non sia consono, imponendo regole molte volte eccessive e pressoché inutili, sanzionando qualsiasi comportamento “deviante” e assegnando continui giudizi di valore ai soggetti a cui si rivolge, bambini o ragazzi che siano; tra questi giudizi rientrano appunto le valutazioni, che contribuiscono a disseminare etichette di cui gli alunni difficilmente riusciranno a sbarazzarsi e che inevitabilmente avranno ripercussioni sulla loro personalità, autostima e sicurezza. Nella scuola, così come nella società, le persone vengono giudicate per il profitto, per i risultati che ottengono, per ciò che producono e non per le qualità che realmente possiedono; questo porta allora gli alunni ad adeguarsi a un tale sistema scolastico, ad impegnarsi solo per ottenere una valutazione positiva, a studiare cose di cui spesso non hanno nemmeno compreso il senso, non tanto per piacere quanto per dovere e per evitare di vedersi affibbiate etichette negative. Lo studio diventa così qualcosa di obbligato o comunque un semplice mezzo per ottenere qualcos'altro, sia esso solo riconoscimento, stima o apprezzamento; in nessuno di questi casi è dunque intriso di passione e piacere o mosso dal desiderio, se non quello di sbarazzarsi dell'argomento da studiare, della prova o dell'esame da superare14.
Si è detto che la scuola così com'è non funziona, però occorre sottolineare come questa affermazione sia vera solo in riferimento ai suoi obiettivi dichiarati – di acculturazione e alfabetizzazione –; rispetto invece agli obiettivi latenti, si può dire che essa funzioni molto bene: grazie a tutti gli strumenti già menzionati e definiti inadeguati per uno studio realmente desiderato dai soggetti, essa forma individui anestetizzati, passivi, dalle scarse capacità argomentative e dall'annientato pensiero critico che, una volta usciti dalla scuola, si adatteranno facilmente a tutto ciò che troveranno nella società, senza mai ribattere né ribellarsi, accettando ogni ingiustizia e continuando a comportarsi da “alunni modello”; così come da bambini si sono adeguati alle aspettative degli adulti, – genitori, educatori o insegnanti –, una volta usciti dalla scuola si sentiranno in dovere di rispondere ancora a delle attese, questa volta non più degli adulti bensì dell'intera società, adattandosi così al sistema in cui sono inseriti e contribuendo a perpetuarlo.

Ingranaggi del capitalismo

Tutto ciò porta a pensare che, proprio come sosteneva Illich, la scuola sia realmente un mezzo per fare dell'alienazione una preparazione alla vita15 e risulti uno strumento di controllo utile a rendere le nuove generazioni soggiogabili almeno quanto quelle che le hanno precedute. Il fatto che i risultati dichiarati siano sempre meno raggiunti non sembra essere un problema, o almeno lo è solo apparentemente, in quanto contribuisce ad alimentare il sistema di cui la scuola è parte: ragazzi più ignoranti, poco consapevoli di sé e ben ammaestrati allungheranno le file dei devoti al sistema capitalistico e contribuiranno a tramandarlo di generazione in generazione; essendo cresciuti in un siffatto sistema, alimentato da una determinata visione educativa, essi percepiranno questo modo di vivere ed educare come corretti e, una volta adulti, li trasmetteranno anche ai loro figli. “Se esistessero una scuola e un mondo sociale nella prima e seconda infanzia che non instillassero il valore sacro della famiglia e della subordinazione, ma che invitassero ad accogliere maestri e compagni nei sensi e nel gusto, secondo piacere, che non maleficassero il sesso e il valore del corpo, che consentissero di sperimentarsi all'aperto, in una transazione continua con gli elementi, nessuno poi potrebbe più tollerare di essere imprigionato in un ufficio, in una fabbrica, in uno spazio costrittivo e vessatorio16”.
L'istituzione scolastica fatica quindi a trasformarsi anche perché un suo cambiamento radicale avrebbe inevitabili conseguenze sull'intera società: in una scuola diversa i giovani magari si appassionerebbero allo studio, si impegnerebbero nei loro percorsi di formazione – o di autoformazione – e la società finirebbe per ritrovarsi individui più difficilmente governabili e raggirabili, dotati di pensiero critico e di una consapevolezza di sé tale da consentire loro di non lasciarsi schiacciare da qualsiasi forma di autorità.
È proprio a partire da queste considerazioni che molti autori del passato e del presente hanno sostenuto e sostengono ancora la necessità di un abbattimento e un ripensamento dell'istituzione scolastica, al fine di trasformare oltre ad essa anche l'intera società.

Eletta Pedrazzini

Tratto dalla tesi di laurea magistrale di Eletta Pedrazzini in Scienze Pedagogiche (a.a. 2013/2014), dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, Università degli Studi di Milano - Bicocca, dal titolo “Un cambiamento è possibile? Il sentiero alternativo della pedagogia libertaria”.

Note

  1. P. MOTTANA, Piccolo manuale di controeducazione, Milano – Udine: Mimesis Edizioni, 2011, p. 82.
  2. R. DESNOS, Le Pélican, in Chantefables et Chantefleurs a chanter sur n'importe quel air, Paris: Grund, 1983.
  3. P. MOTTANA, op. cit..
  4. P. MOTTANA, Cattivi maestri. La controeducazione di René Schérer, Raoul Vaneigem e Hakim Bey, Roma: Castelvecchi, 2014, p. 9.
  5. Ivi
  6. P. MOTTANA, Per chi ha orecchie dure (e troppo lunghe): cosa è controeducazione, in http://contreducazione.blogspot.it.
  7. P. MOTTANA, op. cit., p. 21.
  8. Ivi
  9. Ivi
  10. Ivi, p. 22.
  11. P. MOTTANA, Perché non li lasciamo riposare i nostri giovani “sdraiati”?, in http://contreducazione.blogspot.it.
  12. Ivi
  13. Cfr.: P. MOTTANA, Caro insegnante. Amichevoli suggestioni per godere (l)a scuola, Milano: Franco Angeli Editore, 2007.
  14. Ivi
  15. I. ILLICH, Descolarizzare la società, Milano: Mondadori, 1972, p. 85.
  16. P. MOTTANA, op. cit., p. 112.