Rivista Anarchica Online






Io sto con Bocca di Rosa
ovvero della gratuità nel mestiere della musica

C'è chi l'amore lo fa per noia
chi se lo sceglie per professione
Bocca di Rosa né l'uno né l'altro
lei lo faceva per passione.

Con tutta evidenza De André deve aver inteso di scrivere l'apologo di una povera demente che intendeva dire che il singolare talento di cui era dotata non valeva nulla, che le prostitute erano delle ladre, eccetera...
Questo mestiere - quello della musica - qualcuno disse che era un destino, ora è una maledizione. Di questi tempi una crisi senza precedenti del mercato ha eroso spazi, ha gettato nella disperazione professionisti affermati, ha affamato tutto un indotto di tecnici, studi di registrazione, negozi musicali. Tutte le stampelle sono spezzate: i CD non esistono come progetto commerciale (seriamente è difficile capire perché li si fa, eppure li si fa... perché non si può fare a meno di farli), i concerti faticano moltissimo a trovare spazi acconci, il pubblico è in una permanente crisi d'identità. I locali, i localini, gli storici localoni chiudono, chiudono le tane degli sfruttatori che affamavano i musicisti con le briciole, ma chiudono anche i progetti sensati e attenti di veri appassionati che hanno difeso con le unghie la dignità professionale dei musicisti. Chiudono per molti motivi, ma soprattutto perché vivevano vendendo birre e oggi il pubblico squattrinato passa la serata con un solo bicchiere.
Quei 150 euro che, solo un lustro fa, un musicista serio poteva sdegnosamente rifiutare (“non è nemmeno un rimborso spese...”), oggi sono il solo cachet possibile a quelli che si ostinano a proporre musica live nei loro locali. Fatevi i conti: lì ci entrano 70 persone (ammesso che entrino), l'affitto costa tot, le spese pure, la SIAE (SIC!) non ha compassione di nessuno... fatevi i conti.
Non c'è colpa, c'è solo disfatta. O meglio, la colpa è nell'atteggiamento collettivo di non aver considerato la musica un valore in sé, qualcosa che andava sostenuto con un giusto contributo, secondo le possibilità, ma non percepito come un optional gratuito. Una vera dis-educazione: per trent'anni troppi spettacoli sono stati pagati da contributi esterni, emollumenti, briciole sottratte ad altro, maggiorazioni di consumazioni... e così oggi ci ritroviamo nella grottesca situazione che un locale che chieda cinque o dieci euro di contributo - non lo chiamiamo biglietto - per sostenere spese e cachet di una serata musicale, sembra che faccia un sopruso inaccettabile, una cosa proprio strana.
Altrove, anche in nazioni altrettanto povere o in crisi come la nostra, se non di più, non è questo l'atteggiamento.
Si può provare a ricostruire su queste macerie, ma la strada è lunga e difficile, e il pubblico è sempre più affaticato e stanco e pigro: non lo scolli dai computer, non lo inviti a nozze con il tuo concerto. Ti scrive che “sei meraviglioso”, che “meno male che esisti”, ma poi tutta la sua partecipazione si limita a un simbolino (un pollice alto, un cuoricino, un “parteciperò”) sotto la pagina che annuncia un concerto su un social network.
Questa situazione molto difficile - rammento che i musicisti sono molto in crisi, ma non sono la categoria messa peggio: peggio di loro grafici e fotografi, per esempio - sta esacerbando gli animi, incattivendo i rancori, rattrappendo i sogni.

Il mestiere di vivere cantando

Vedo troppo spesso colleghi buoni e generosi, che si sono spesi senza posa per cantare, animare, sostenere le più donchisciottesche realtà (piccoli festival di provincia, circoli culturali, spazi occupati, ecc.) che oggi scendono in trincea, si arroccano su posizioni di grigia difesa, e si appellano al “professionismo”, il “professionismo” che coincide quasi esclusivamente con la forza contrattuale di esigere un cachet. Il “professionismo” che irride e condanna il “volontariato”: quell'urgenza espressiva benedetta che fa ancora muovere molte dita di giovani e giovanissimi sulle corde delle chitarre, sulle tastiere dei pianoforti, che fa scrivere nuove canzoni belle o bruttissime (non importa), e che fa accettare condizioni inaccettabili (siamo d'accordo). Ma se morisse anche quest'urgenza la musica sarebbe davvero finita e non avrebbe senso la vita che ci siamo scelti, cari compagni d'arte.
Io faccio il cantante e l'autore da più di vent'anni. A un livello professionale? Boh: non capisco bene cosa voglia dire questa parola, conosco dei non-professionisti più bravi di me (e di tanti altri mestieranti) a cantare e suonare, però diciamo che la frequenza con cui registro dischi, scrivo canzoni e soprattutto partecipo a concerti e performance delle più varie come musicista (cantante, autore, chitarrista) è così continuativa e costante che se “professionista” è una parola che ha un senso, con me ce l'ha.
Ho però - sin dall'inizio - avuto chiaro il valore militante del mio lavoro... anzi, si può dire, che ho cominciato a suonare e cantare professionalmente proprio perché era il modo più divertente di fare il militante a tempo pieno.
Scrivevo certe canzoni e certe storie perché secondo me dovevano essere cantate, ho avuto grandi maestri in questo (uno per tutti: Ivan Della Mea) e qualche volta ho avuto il piacere di poter lavorare con loro, e oggi molti mi considerano un coerente continuatore di questa nobile tradizione, che non vuol dire niente, ma per me vuol dire molto. Ho capito anche, molto presto, che il discorso non si fermava all'intenzione letteraria, musicale, esecutiva... ma che il contesto non era indifferente: cantare una canzone sui fatti di Genova 2001 in Piazza Alimonda (non sono mai mancato un 20 di luglio) cambia te, cambia la canzone e cambia chi ti sta ad ascoltare.
Evidentemente ho avuto molto presto la fortuna di capire che il valore di ciò che si fa non è nel prezzo che si riesce a farsi attribuire.

Sul filo del rasoio

Mi capita però di scrivere, oltre alle mie ballate sociali, anche canzoni esistenziali, canzoni d'amore... ho all'incirca le preoccupazioni di tutti gli altri, non passo la totalità del mio tempo a rodermi il fegato sulle rivoluzioni mancate, cerco di vivere tutto l'amore sensato e sensuale che ci spinge a desiderare rivoluzioni future. Con tutte le mie canzoni frequento anche gli spazi (sempre più ridotti) deputati alla musica d'autore o alla musica senza altre specificazioni.
Per oltre dieci anni ho fatto anche un lavoro da “impiegatuccio kafkiano”, ma sono oltre cinque anni che non lo faccio più e dunque vivo del mio mestiere di musicista e di qualche collaborazione editoriale (non allarmatevi: questa per “A rivista anarchica” è orgogliosamente gratuita, anche come scrittore ho i medesimi vizi!). Vivo sul filo del rasoio, evidentemente, tenendo a stento insieme i lembi dell'ordinaria amministrazione, e sperando di non aver troppo bisogno del dentista. Però - forse stupidamente, con la complicità di un carattere sconsiderato e di un odio ricambiato del denaro - sono alquanto fiero di questo equilibrio, del fatto di vivere cantando, di cogliere i doni dell'ospitalità di chi sa godere delle mie canzoni, viaggiando di concerto in concerto e tornando a casa povero come prima. Certo, se fossi un'impresa commerciale dovrei dichiarare fallimento... ma la vita - mi ostino a pensare - non deve pareggiare la partita doppia. Questo m'è costato non la rinuncia - perché non l'ho mai desiderato - ma una distanza dal sogno familiare di una casa/compagna/figli da mantenere, m'è costata la fine di alcune belle avventure sentimentali che mal si conciliavano con la mia pirateria esistenziale, col destino di navigare a vista.
Però - scusatemi belle compagnie - ma non potevo fare altrimenti e quando sbagliando ci ho provato ho dato il peggio di me.

Per amore o per denaro

Guardo con una certa tristezza certe risibili regolette e scuoto il capo...
Penso che le persone che più ho stimato nella vita non abbiano mai fatto nulla di importante per denaro. Penso che i partigiani facessero il loro pericoloso lavoro gratuitamente e che i repubblichini e le SS invece fossero pagati. Penso che Carlo Giuliani abbia impugnato il suo estintore gratuitamente, e i carabinieri che lo hanno ammazzato (per lavoro, beninteso...) no. Tolstoj ha cambiato la storia dell'educazione facendo scuola gratuitamente ai figli dei contadini di Yasnaya Polyana. “Se lo poteva permettere”, mi direte... ma se avesse fatto una scuola modello per i figli dei nobili come lui, di certo sarebbe stato molto più coerente con quelle regole secondo cui chi “lavora gratis crea danni enormi”. Tolstoj non ha fatto “danni enormi”, proprio tutto il contrario! Io penso che il rapporto fra il lavoro e le necessità economiche della sopravvivenza sia un ricatto, una trappola che va sciolta. I volontari, i militanti sono i pionieri della solidarietà attiva che ci salva dal mercato. Gente da ammirare, non da irridere.
Poi il mio fornaio e il mio idraulico mi chiedono dei soldi per fare cose che io non so fare, dunque anche a me tocca chiederne per il mio lavoro, ma solo perché devo cedere al ricatto di questa tragica magia nera, non per convinzione. Obtorto collo!
Una cosa però è considerare questo atteggiamento una “ritirata strategica” e nel contempo lavorare (gratuitamente) per costruire un mondo in cui il lavoro si fa perché è utile e bello per vivere assieme. Tutt'altra è sottoscrivere il patto col diavolo del mercato, infamando chi ha il rigore o la fortuna di potersi comportare altrimenti.
Io sto con Bocca di Rosa.

Alessio Lega