Rivista Anarchica Online



Prove generali di sfruttamento

scritti di Carlotta Pedrazzini e del collettivo Clash City Workers


Expo 2015 non è solo una fiera internazionale, ma tante altre cose tra cui un banco di prova per nuove legislazioni in materia di lavoro.
I contratti stilati appositamente per Expo sono stati il modello di riferimento utilizzato per la stesura del Jobs Act. All'insegna, appunto, di sfruttamento, precarietà e volontariato.
Uno sguardo al mercato del lavoro italiano in pieno cambiamento.




Nel nome della flessibilità

di Carlotta Pedrazzini

Il Jobs Act è da poco entrato in vigore.
Gli accordi sul lavoro in vista di Expo 2015, caratterizzati da flessibilizzazione estrema, precarietà e lavoro volontario, sono stati il suo modello di riferimento.

Qualche settimana fa sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale i primi decreti attuativi della riforma del lavoro, meglio conosciuta come Jobs Act, che hanno reso effettive le nuove disposizioni in materia. Ad oggi il mercato del lavoro italiano si trova regolato da alcune nuove discipline redatte, a sentire i proclami e i discorsi dei decisori politici, in nome della flessibilità.
Analizzando i contenuti della riforma e le legislazioni speciali stilate appositamente per Expo, è possibile riscontrare delle analogie; la matrice delle nuove regolamentazioni, infatti, sembra essere la stessa che ha portato alla firma di accordi in materia di lavoro in vista dell'esposizione universale milanese. In entrambi i casi si è agito al fine di “rendere più fluido e dinamico” il mercato del lavoro e in entrambi i casi si è avuto come esito una maggior precarizzazione e una diminuzione delle tutele.
Proposta come panacea di tutti i mali economici che affliggono l'Italia, la flessibilità del mercato del lavoro (dispositivo che starebbe ad indicare una maggiore mobilità in entrata e in uscita e una riduzione di tempi, e quindi anche di costi, relativi ad assunzioni e licenziamenti) è stata cartina tornasole anche degli accordi firmati in vista di Expo 2015.
L'esposizione universale viene identificata nei proclami politici come opportunità da cogliere per diminuire il tasso di disoccupazione, soprattutto quello giovanile, grazie al propagandato indotto economicamente positivo ad esso correlato, che sarebbe in grado di migliorare gli orizzonti produttivi e occupazionali del paese. Al fine di cogliere le conclamate opportunità di ripresa che il mega-evento avrebbe da offrirci, risultavano però assolutamente necessarie grosse modifiche in materia di lavoro in grado di rendere più “appetibili” i lavoratori. Una delle credenze dominanti è infatti quella che un aumento della flessibilità sia condizione imprescindibile per un generale miglioramento degli indicatori economici; contratti di lavoro più dinamici (meno tutelati) e minori difficoltà ad entrare e uscire dal mercato del lavoro porterebbero naturalmente, secondo questa logica, ad un incremento occupazionale, andando ad incidere positivamente sul quadro economico generale.
Proprio in quest'ottica, in vista di Expo è stato proposto un percorso di accordi e nuove discipline in materia di lavoro costellato di deroghe ed eccezioni.

Contratti speciali e volontariato

Con l'obiettivo di rendere più agevoli le assunzioni in vista di Expo, sono stati redatti accordi, prevista una legislazione speciale e una serie di deroghe alle regolamentazioni del mercato del lavoro. A partire dal 23 luglio 2013, quando al tavolo con Expo spa, società per azioni costituita da governo, regione Lombardia, provincia, comune e camera di commercio di Milano, erano presenti i tre sindacati confederali; l'accordo da loro firmato regola i contratti degli 800 lavoratori attivi durante l'esposizione di cui circa 600 assunti a tempo determinato e attraverso il dispositivo dell'apprendistato (in deroga rispetto alle regole del mercato del lavoro) e circa 200 tramite stage. Per i contratti a tempo determinato, la deroga prevista interessa la scadenza, dettata dalla specifica limitatezza temporale dell'evento, e dall'intervallo tra questa e un eventuale rinnovo (divenuto di 10 giorni). Per quanto riguarda l'apprendistato, invece, la deroga colpisce la formazione, eliminando l'obbligo della sua certificazione; delle caratteristiche originarie di questa forma contrattuale, quella formativa viene completamente rimossa, lasciando la sola convenienza per il datore di lavoro (i contributi sono interamente o parzialmente a carico dello stato). Per i quasi 200 stagisti, invece, non è prevista remunerazione, ma un rimborso spese lordo di € 516,00. L'accordo regola anche il ricorso al lavoro volontario, quindi non retribuito, al fine di coprire un fabbisogno giornaliero di circa 400 persone per posizioni che riguardano il servizio di accoglienza dei visitatori tra i padiglioni dell'esposizione.
Quanto deciso il 23 luglio 2013 non riguarda solo il numero sopracitato di lavoratori; l'accordo è infatti stato esteso a tutta la regione e può quindi essere utilizzato fino al termine del 2016 per regolare i contratti di quei lavoratori che verranno assunti “in vista di Expo”. Anche il ricorso a manodopera non retribuita sarà più ampio del numero inizialmente previsto: il comune di Milano, per esempio, si affiderà a volontari per la gestione dei beni culturali, non potendo permettersi nuove assunzioni poiché vincolato dal patto di stabilità; inoltre grazie ad accordi e partnership, diverse università e istituti scolastici potrebbero fornire forza lavoro non retribuita, proponendo agli studenti stage e tirocini formativi legati ad Expo.

Un modello da seguire

Il cuore di questi provvedimenti speciali è chiaro: al fine di incrementare le assunzioni, e per abbassare il costo del lavoro mantenendo un margine di profitto, si è deciso di spogliare il lavoratore delle tutele, rendendo più agevoli e di fatto sponsorizzando contratti altamente precarizzanti e male retribuiti; siamo di fronte ad una reale perdita di diritti sociali e lavorativi rinominata, per l'occasione, flessibilità.
Proprio in riferimento all'accordo del luglio 2013 tra Expo spa e i sindacati confederali, l'allora presidente del consiglio Enrico Letta aveva sostenuto che Expo sarebbe stato un laboratorio per il paese, un modello da seguire e implementare nel futuro; e a leggere le disposizioni del Jobs Act sembra che quanto da lui auspicato si sia avverato. In effetti la legislazione speciale per Expo in materia di lavoro è stata realmente un esempio: in ambito legislativo, l'esperienza di Expo è stata una palestra, un banco di prova dove il legislatore ha potuto prendere le misure, tastare il terreno per capire quanto lontano si potesse spingere sulla strada della demolizione delle tutele.
L'eccezionalità dell'esposizione universale ha fornito un alibi per lo smantellamento dei diritti dei lavoratori, alibi che per quanto riguarda la riforma del lavoro è stato fornito invece dalla crisi economica. In entrambi i casi l'eccezionalità del periodo ha permesso di superare limiti e confini fino a quel momento ritenuti invalicabili.
Per questo motivo è bene non guardare all'esposizione universale milanese come un semplice evento; le sue conseguenze in materia di lavoro si protrarranno oltre la chiusura dei padiglioni il 31 ottobre e i suoi effetti travalicheranno i confini di Milano e della Lombardia. E con la nuova riforma del lavoro ne abbiamo già avuto un assaggio.

Carlotta Pedrazzini




Articolo 18 addio

del collettivo Clash City Workers

Il 20 febbraio 2015 il governo ha reso definitivi gli schemi di decreto sulla seconda parte del Jobs Act riguardo a tutela dai licenziamenti illegittimi e indennità di disoccupazione.
Il collettivo Clash City Workers ne propone una prima analisi.

I due schemi che riguardano la nuova tipologia di tutela dai licenziamenti illegittimi e l'indennità di disoccupazione, insieme al decreto Poletti dello scorso marzo, che di fatto aboliva l'obbligo della causalità nella stipulazione di contratti a tempo determinato, ridisegnano drasticamente il mercato del lavoro in Italia, al fine di razionalizzare la risposta alla domanda pressante dei padroni, in crisi di valorizzazione dei capitali: abbassare il costo del lavoro per creare più profitto.
Che cosa cambia con il contratto a tutele crescenti, introdotto da Renzi col decreto approvato il 20 febbraio 2015? La disciplina dei licenziamenti individuali è da sempre materia di contenzioso, politico e sindacale. Dal 1970 al 2012 i licenziamenti individuali sono stati regolati dall'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il licenziamento, quello non discriminatorio, ma giustificato, può essere per: giusta causa – colpa grave del lavoratore; giustificato motivo soggettivo – colpa non grave del lavoratore, l'azienda ha l'obbligo di preavviso; giustificato motivo oggettivo – interruzione dell'attività lavorativa, fine di un appalto o chiusura di uno stabilimento.
Vediamo di seguito la storia e la qualità dei cambiamenti introdotti prima da Elsa Fornero, ora da Matteo Renzi.

La storia

L'articolo 18 stabiliva che, in tutti i casi di nullità, inefficacia o illegittimità del provvedimento, l'imprenditore era condannato al reintegro del lavoratore sul posto di lavoro: la possibilità di licenziare, dunque, c'era, ma se il licenziamento non era giustificato veniva di fatto annullato col ritorno del lavoratore al proprio posto. La distinzione tra nullità e illegittimità non era significativa perché la sanzione era la stessa: diventa significativa, e da comprendere dunque bene, solo a partire dal 2012, anno in cui Elsa Fornero rimette mano alla disciplina, modificando in più punti il testo dell'articolo 18.
Per capirci spieghiamo brevemente la differenza: un licenziamento è nullo quando è discriminatorio e di conseguenza viola la legge (ad esempio, quando avviene durante un congedo di maternità); è inefficace quando è espresso in forma orale o scritta senza indicare le motivazioni; è annullabile quando è illegittimo.
Le modifiche riguardavano la restrizione delle possibilità di reintegrazione: questo restava nel caso di licenziamento discriminatorio, quindi nullo, inefficace, e nel caso di licenziamento illegittimo per manifesta insussistenza del fatto contestato o sproporzione tra colpa e provvedimento nel caso di motivi disciplinari (”perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”). In tutti gli altri casi di illegittimità riconosciuta, cambiava la sanzione: dalla reintegrazione si passava all'indennizzo, calcolato da un minimo di 15 a un massimo di 24 mensilità.
La modifica Fornero, dal punto di vista dei padroni, non era sufficiente: la possibilità di reintegro era ancora molto alta, dato che rimaneva prevista nei casi di sproporzione tra colpa e provvedimento, che sono tra i casi più frequenti di cause di licenziamento portate in tribunale, e inoltre il minimo indennizzo previsto era più di un anno di stipendio. Renzi, dunque, interviene essenzialmente su questi punti, semplificando drasticamente la disciplina, tant'è che non va ad intervenire, col decreto, modificando il testo dell'articolo 18, ma sostituendolo completamente con un nuovo testo. Il reintegro resta, come possibilità, solo in due casi: nel caso di licenziamento nullo in quanto discriminatorio, quindi inefficace e nel caso di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto materiale addotto, direttamente dimostrata in giudizio. In tutti gli altri casi di illegittimità, conclamata e riconosciuta da un giudice, la sanzione diventa esclusivamente quella dell'indennizzo, e il minimo scende da 15 a 4 mensilità (due mensilità per anno di lavoro, fino a un massimo di 24 mensilità). Lo schema di decreto prevede, inoltre, l'esenzione dall'Irap e dal pagamento dei contributi pensionistici per tre anni per tutti i nuovi contratti attivati nel 2015: facile immaginare che, al termine del periodo di sgravi fiscali e contributivi, molti di questi contratti termineranno.

Limitazione delle ipotesi di reintegro

Nei mesi e nei giorni passati il governo e la stampa si sono affannati a rassicurare gli animi: “il reintegro resta, non vi agitate! La legge è giusta, l'articolo 18 era un retaggio del pasato!”. Proviamo ad entrare nel merito di questa obiezione. Il reintegro resta nel caso di licenziamento discriminatorio, quindi nullo, o inefficace in quanto intimato in forma orale. Un licenziamento in forma orale è raro, semplicemente, o esiste solo nella testa dei padroni più barbari o più imbecilli: si tratta di una comunicazione del tipo “Torna a casa, non mi servi più” che nessuna persona dotata di senno adotterebbe come forma per liberarsi di qualcuno. Eppure anche questa forma è stata adottata: è il caso dei facchini di una cooperativa che lavorava per Esselunga. Per questi casi, per fortuna, il reintegro rimane. La stessa cosa vale per il licenziamento discriminatorio, legato cioè a motivi di genere, orientamento sessuale, colore della pelle, opinioni politiche, orientamento religioso, ecc. È fin troppo evidente che nessun padrone licenzia mai qualcuno palesemente per questi motivi: nella giurisprudenza non si è mai dato un solo caso di licenziamento discriminatorio, i padroni hanno sempre mascherato la discriminazione sotto la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo. Ancora, il reintegro resta per i casi di insussistenza del fatto materiale direttamente dimostrata in giudizio. Il caso è importante, specialmente, ma non solo, nei casi di licenziamento per motivi disciplinari (giustificato motivo soggettivo o giusta causa). Le parole anche in questo caso sono importantissime. Vediamo innanzitutto la specifica “fatto materiale”: nella precedente legge Fornero si parlava genericamente di “fatto”; alcuni giudici hanno interpretato la parola “fatto” come “fatto giuridico”, come l'insieme cioè delle circostanze oggettive e dell'interpretazione soggettiva del giudice stesso, e ne hanno quindi dedotto di poter procedere all'assoluzione del lavoratore e alla condanna del datore di lavoro al suo reintegro. La Cassazione aveva già provveduto a correggere questa interpretazione ma, per evitare rischi, in fase di preparazione si è preferito aggiungere l'aggettivo “materiale”, che esclude l'interpretazione soggettiva del giudice, ridotto a mero “sanzionatore” e “calcolatore” dell'indennità.
Il lavoratore ha diritto, dunque, al reintegro solo se riesce a provare in tribunale che il fatto materiale a lui imputato o comunque addotto a ragione del licenziamento non sussiste. L'onere della prova spetta al lavoratore licenziato (prima spettava invece al datore di lavoro provare la sussistenza della motivazione): in pratica il padrone può tranquillamente ricorrere ad una argomentazione manchevole o debole, perché può contare sulle difficoltà, per un singolo lavoratore non particolarmente motivato o non sufficientemente assistito dal sindacato, di ricorrere in giudizio e dimostrare l'insussistenza del fatto addotto (nel solo Veneto, nel 2013, i ricorsi in tribunale contro un licenziamento sono stati 250, a fronte di circa quattromila licenziamenti), mentre prima il padrone era tenuto a dimostrare lui stesso la sussistenza delle motivazioni. Per rendere improbabile proprio il ricorso in tribunale, comunque, il datore di lavoro può offrire una somma pari a una mensilità per anno di servizio, da un minimo di 2 a un massimo di 18, esente da imposizione fiscale, al lavoratore, se accetta di rinunciare alla causa. A dimostrazione della serietà con cui i padroni vogliono in tutti i modi evitare il contenzioso, il 13 gennaio 2015 il testo dello schema di decreto è stato appositamente modificato per inserire le coperture dovute alle minori entrate derivanti dalla mancata imposizione fiscale su queste somme! Considerando tutte le ipotesi, in sintesi, è come dire che il reintegro è rimasto, sì, ma solo nel caso di licenziamenti a calci in culo o a sputi in faccia davanti a testimoni, oppure se si riesce a dimostrare che il datore di lavoro ha inventato tutto di sana pianta!
In tutti gli altri casi, che sono la maggioranza, il padrone adduce un motivo plausibile a ragione del licenziamento (quindi maschera anche un eventuale licenziamento discriminatorio sotto la forma di licenziamento giustificato): il giudice ne valuta, eventualmente, la legittimità e nel caso in cui non la ritrovi annulla il licenziamento e condanna il padrone al reintegro. Annullava, condannava: da oggi non avviene più. Il primo paradosso diabolico dello schema di decreto è che permane il riconoscimento giuridico dell'illegittimità dell'atto, ma l'atto non viene annullato: il giudice potrà riconoscere che un lavoratore è stato licenziato ingiustamente ma non potrà cancellarne il licenziamento! La sanzione in forma di indennizzo è, a questo punto, una foglia di fico: l'illegittimità di fatto scompare, perché se lo schema di decreto stabilisce un indennizzo monetario come unica sanzione, si sta dicendo praticamente che ogni padrone può liquidare, in qualunque momento e senza preoccuparsi di giustificare niente, un lavoratore, dandogli al massimo due anni di stipendio (ma due anni di stipendio sono l'indennizzo per un licenziamento dopo 12 anni di lavoro!). [...]

Ce lo chiede l'Europa? Vero

Questo è un altro argomento a favore del decreto Renzi: uniformarsi alla normativa vigente nel resto d'Europa, per non perdere competitività. E hanno ragione! Non sul piano della competitività, ma sul fatto che nella maggior parte dell'Europa è già previsto il risarcimento, in luogo del reintegro, in caso di licenziamento nullo o illegittimo.
Nello specifico, in Belgio, Danimarca, Finlandia, Lussemburgo e Spagna prevale senza dubbio il risarcimento sul reintegro. In Francia e Gran Bretagna la reintegrazione è prevista solo in caso di licenziamento nullo, come in Italia, o è rimessa alla discrezionalità del giudice. In altri paesi il sistema è misto, il reintegro prevale in Grecia, Portogallo, Olanda e... Germania. Sorpresi? La “locomotiva d'Europa”, il motore produttivo del continente, aveva, ha e continua ad avere una legislazione simile all'ormai defunto Statuto dei Lavoratori, eppure, a detta anche dei padroni, primeggia in produttività e competitività. Lungi dal dedurre che la Germania sia un paradiso per i lavoratori – tutt'altro! – questo fatto dimostra, contrariamente a quanto possano affermare Ichini vari, che non c'è alcun legame tra una presunta “difficoltà” a licenziare e una bassa produttività.

Licenziamenti facilitati

Nei quasi due mesi trascorsi tra la preparazione dello schema di decreto e il varo del decreto definitivo le commissioni lavoro di Camera e Senato si sono riunite per emanare il loro parere, obbligatorio ma non vincolante, sul testo. Al termine dei lavori, nel testo sono rientrate poche, ma significative modifiche: è stato specificato che il contratto nuovo sarà applicabile anche alle conversioni di contratti vecchi – di apprendistato, di somministrazione, a termine – e, soprattutto, che la nuova disciplina varrà anche per i licenziamenti collettivi, che, rientrando a pieno titolo secondo quanto ha stabilito il governo, nella tipologia dei licenziamenti economici, andranno a sottostare alla nuova legge (indennizzo e non reintegro) e, di fatto, spariranno come concetto (non si parlerà più di licenziamenti collettivi perchè non ci sarà un trattamento differenziato, come è stato finora, rispetto ai licenziamenti individuali). Infine, non è stato ripristinato un comma che, nella prima versione del testo, escludeva esplicitamente i lavoratori pubblici: ciò significa che, con tutta probabilità, il contratto a tutele crescenti si applicherà anche a tutto il pubblico impiego.
Le modifiche rendono ancora più chiaro, se possibile, l'intento della legge: facilitare al massimo i licenziamenti, rendendoli il meno costosi possibile per i padroni, con regole uguali per tutti. L'estensione della disciplina al pubblico impiego e ai licenziamenti collettivi ha, tra gli altri, lo scopo di disinnescare la bomba di un referendum abrogativo, come minaccia la FIOM in maniera non troppo convinta: eliminando le disparità di trattamento tra le diverse tipologie di lavoratori il principale appiglio per chiedere l'abrogazione della legge viene meno.

Dall'Aspi alla Naspi

Il secondo schema di decreto, di 15 pagine, riguarda la riforma del sussidio individuale di disoccupazione introdotto da Elsa Fornero nel 2012 col nome di Aspi. Prima di affrontarlo nel merito facciamo un passo indietro: quali sono le forme tradizionali di assistenza economica alla disoccupazione, in Italia?
In tutta Europa, già dall'inizio del XX secolo, sono presenti leggi in materia di assistenza economica al lavoratore in disoccupazione, di “integrazione” del salario: la prima legge europea in tal senso è francese e risale al 1905. La particolarità italiana risiede(va) nel fatto che esisto(eva)no delle forme di sostegno e integrazione del reddito non disgiunte dall'obiettivo della conservazione del posto di lavoro: la Cassa Integrazione Guadagni, introdotta sotto il fascismo e finanziata dai contributi del lavoratori e degli imprenditori, interviene erogando salario in periodi di riduzione più o meno pesante dell'orario lavorativo, in seguito ad una crisi aziendale, senza che siano ancora state attivate le procedure di licenziamento. In pratica in Italia l'integrazione salariale in momenti di crisi occupazionale ha come ulteriore obiettivo quello di evitare i licenziamenti, mentre nel resto d'Europa l'indennità di disoccupazione si eroga soltanto a partire dal licenziamento.
Stiamo, in effetti, comparando due istituti radicalmente diversi nella forma e nella sostanza economica e politica: la peculiarità del sistema italiano risiede(va) proprio nell'obiettivo di evitare, o quantomeno ritardare il licenziamento, con la CIG (Cassa Integrazione Guadagni) che è, come si è compreso, un istituto essenzialmente collettivo; l'indennità di disoccupazione individuale, che pure in Italia esiste(va), non è comparabile dunque, per platea ed estensione temporale, né ai corrispettivi istituti europei né alla CIG stessa. Per fare un esempio, la vecchia indennità di disoccupazione: prima della riforma Fornero, poteva durare al massimo dieci mesi, con erogazione del 50% del salario lordo nei primi sei, 40% nei successivi tre e 30% negli ultimi tre (dati al 2006); la CIG eroga l'80% del salario lordo fino a dodici mesi, successivamente può intervenire la CIGS (CIG Straordinaria) con l'80% del salario fino ad ulteriori ventiquattro mesi, ancora la CIG in deroga per un ulteriore anno, fino all'indennità di mobilità che eroga lo stesso ammontare della CIGS (fino a quarantotto mesi!) e costituisce la vera e propria anticamera del licenziamento. Un sistema indubbiamente più complesso (e parziale, ché non tutti i lavoratori ricevono un'indennità) rispetto agli omologhi europei che hanno sempre preferito una forma universale di indennità, posteriore al licenziamento, che non mirava alla tutela del posto di lavoro perso; complesso, sì, ma, benché con limiti e storture enormi, utile ed efficace soprattutto per il dispiegarsi della lotta sindacale e politica, che ha (aveva) così il tempo (fino a 36 mesi e oltre!) e l'agibilità per mettere in piedi vertenze sulla tutela occupazionale con discrete possibilità di vittoria.
Ma, come scritto nella postilla immediatamente precedente, il governo Renzi ha fatto uno strappo enorme rispetto al passato, abolendo esplicitamente questa distinzione: i licenziamenti collettivi non esistono più come categoria, ogni licenziamento è individuale.

False rivoluzioni copernicane

Ecco che, ricostruendo in mezza paginetta la principale differenza tra il nostro Paese e il resto d'Europa, viene fuori l'obiettivo politico del padronato e della borghesia: spuntare le armi al movimento sindacale che resta, per numero di iscritti e presenza sui luoghi di lavoro, uno dei più forti d'Europa (al netto di riformismi, corruzione e sbracamenti che ben conosciamo...).
Illustri economisti, dunque, politici, imprenditori incominciano a sciacallare sulla Cassa Integrazione, attribuendo all'effettiva varietà e complessità degli aiuti ogni male italiano, dal crollo della produttività alle sconfitte ai Mondiali: da più parti si levano voci a favore di una non meglio precisata semplificazione, che farebbe risparmiare, finalmente, i soldi agli italiani.
Scopriamo che cosa sia questa benedetta semplificazione quando, col governo Monti, la famigerata ministra del lavoro Elsa Fornero, dopo aver completato – peggiorandola – la lunga riforma delle pensioni iniziata nel 1995 col governo Dini, si muove letteralmente con le ruspe contro la Cassa Integrazione Guadagni e in generale contro il vecchio sistema: la cassa in deroga, la mobilità e la disoccupazione vengono abolite e sostituite dall'Aspi (Assicurazione sociale per l'impiego), mentre la straordinaria viene estesa ad altri settori non industriali ma ridotta nelle possibilità e nei campi di applicazione. All'Aspi si aggiunge la Mini-Aspi, un sussidio ridotto per chi non matura i requisiti per la prima (due anni di contributi per l'Aspi, almeno 13 settimane ma meno di 52 in due anni per la Mini-Aspi).
Il raffronto tra Aspi e vecchia disoccupazione gioca a favore dell'ultima arrivata: durata estesa fino a 18 mesi per gli over 55, ammontare dell'assegno al 75% del salario lordo, ridotto del 15% dopo sei mesi e di un ulteriore 15% dopo un anno. Se si considerano però insieme anche l'abolizione della mobilità e le limitazioni nel ricorso alla straordinaria si vede che il bilancio economico pende decisamente a favore dei padroni; quello politico, invece, si comincia appena a delineare.
Il secondo decreto modifica sostanzialmente l'indennità marcata Fornero, andando però nella stessa direzione, cioè quella di individualizzare, a parità di spesa o con una spesa di poco superiore, il trattamento economico di indennità di disoccupazione.
Le differenze sono chiare e semplici: la Naspi estende la platea potenziale a tutto il lavoro dipendente, senza ulteriori distinzioni che persistevano nella vecchia Aspi, vengono esclusi solo i lavoratori a tempo indeterminato della pubblica amministrazione e gli operai agricoli (come nella precedente legge, con la significativa estensione agli extracomunitari con permesso di soggiorno e lavoro stagionale); i requisiti vengono ammorbiditi rispetto all'entità minima di contributi richiesti, che diventa di 13 settimane, come precedentemente per la Mini-Aspi. Si deve inoltre aver lavorato almeno 18 giorni nell'anno precedente alla disoccupazione, e il rapporto deve essersi concluso senza contenzioso (dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale).
La durata dell'erogazione del contributo potrà essere al massimo pari alla metà delle settimane contributive dei 4 anni precedenti (quindi 2 anni), e a regime, dal 2017, non potrà superare le 78 settimane (un po' più di 19 mesi); l'importo, parametrato sempre al 75% dell'ultimo salario lordo, non potrà essere superiore a 1300 euro e scalerà, a regime, del 3% al mese, a partire dal quarto mese.
Insieme alla Naspi, il governo ha predisposto due ulteriori indennità, finanziate al momento solo per il 2015 e con il rischio concreto di insufficiente finanziamento rispetto alla platea potenziale: si tratta dell'Asdi, sussidio di disoccupazione erogato al termine della Naspi soltanto a lavoratori ancora disoccupati, con famiglia e figli minori a carico o con altre condizioni svantaggiose, pari al 75% della Naspi ed erogato per sei mesi; infine il Dis-Coll, sussidio per i lavori precari, co.co.co., co.co.pro e gestione separata, attivato solo sperimentalmente per il 2015.
La differenza più significativa è certamente l'estensione della platea e l'introduzione della clausola della risoluzione senza contenzioso: sono questi due aspetti che vanno letti insieme a quanto detto per il primo decreto, alla possibilità cioè di licenziare con indennizzo e all'estensione di questa nuova disciplina anche ai licenziamenti collettivi. I due decreti insieme aprono autostrade ai licenziamenti facili e arbitrari, disincentivando ancor più di prima i lavoratori a ricorrere contro un licenziamento ritenuto ingiusto perché, a fronte di un indennizzo misero, perderebbero la disoccupazione; inoltre, politicamente, il sindacato quale che sia perde fortemente di peso e di importanza, dal momento che vengono di fatto meno i campi sui quali poteva esprimersi o avere un intervento; nella stragrande maggioranza dei casi, più di quanto non succeda già oggi, i lavoratori saranno costretti ad accettare risoluzioni “consensuali” del rapporto per accedere alla Naspi, non avendo i padroni alcun interesse a tenere in piedi la baracca, e la Naspi avrà il potere particolare, rispetto alla CIG, di isolare il lavoratore, che si troverà da solo in fila agli uffici dell'INPS invece che in piazza, con le compagne e i compagni, a difendere il posto di lavoro.
Una vera e propria rivoluzione copernicana del diritto del lavoro, che per abbassare il costo di riproduzione della manodopera punta non solo all'abbassamento dei salari, ma soprattutto alla devastazione delle forme organizzate di resistenza possibile della classe, a partire dai sindacati e dalle vertenze.

Clash City Workers




Logica e ideologia di una controriforma

del collettivo Clash City Workers

Il governo approva i primi due decreti attuativi del Jobs Act. Nasce una nuova disciplina sul “contratto a tutele crescenti” e sugli ammortizzatori sociali.

La retorica che ammanta questi due decreti la conosciamo bene: in un'epoca di mercati globalizzati e competitivi, le aziende devono prendere decisioni veloci ed essere libere di allocare istantaneamente e come meglio credono le risorse produttive, come la forza lavoro. Il sistema ha quindi bisogno di flessibilità. Un mercato del lavoro troppo rigido, in cui risulta troppo difficile per le aziende disporre liberamente dei lavoratori, licenziando quando e come vogliono, disincentiva le imprese ad assumere, aumenta la disoccupazione ed ha un effetto in generale negativo sulla competitività dell'intero sistema-paese; determina inoltre un sistema iniquo per gli stessi lavoratori, visto che le aziende finiscono per ricorrere alla flessibilità di cui hanno bisogno attingendo ad un bacino di “esclusi”, perennemente penalizzati rispetto ai “garantiti” ed alle loro tutele, tanto da portare l'intero peso della flessibilità di cui il sistema avrebbe bisogno.
Se questa è la premessa, in linea con la retorica di Governo e padroni, questa la soluzione: eliminando le rigidità e lasciando così il mercato libero di agire si contribuirebbe a risolvere non solo il problema della competitività del sistema-paese, ma anche quello della disoccupazione e dell'iniqua divisione tra lavoratori garantiti e precari, o anche l'“apartheid” tra “core e periphery workers” (usando il lessico del Senatore Ichino, tra i principali promotori del Jobs Act).
Proprio Ichino sintetizza bene la logica del provvedimento, in una  relazione al Senato in cui spiega come “dal vecchio sistema tendente a difendere il lavoratore dal mercato del lavoro [con il Jobs Act si passa] a un sistema di protezione tendente a difenderlo nel mercato”. Nel mercato si troverebbe quindi non la causa dei problemi dei lavoratori italiani – come pretenderebbe una vecchia ideologia – bensì la soluzione. La soluzione ai problemi causati, in primis, da un “ordinamento del lavoro caratterizzato da profonde disparità di protezione, generatore di quel dualismo delle tutele che negli ultimi anni ci è stato ripetutamente rimproverato dall'Unione Europea”.
Proprio sulle pressioni internazionali è tornato, sempre in una relazione al Senato, un altro grande alfiere della riforma, l'ex-ministro del lavoro Sacconi, sottolineando come la “necessità di superare le rigidità in uscita [cioè la difficoltà di licenziare] del mercato del lavoro italiano è stata oggetto di sollecitazioni da parte di istituzioni sovranazionali, quali l'Unione Europea, la BCE e l'OCSE”. Come dimenticare in effetti la famigerata lettera che la BCE mandò al Governo Berlusconi nell'estate 2011 in cui, tra le misure necessarie ad “accrescere il potenziale di crescita” si indicava proprio una “revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti” di modo da facilitare “la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”. D'altronde, come prosegue sempre l'ex-Ministro, “se si prende in considerazione l'indice EPL (Employment Protection Legislation) elaborato dall'OCSE, come misura del grado di rigidità dei regimi posti a tutela dell'impiego, va sottolineato che le riforme intervenute in Italia fino al 2012 hanno comportato una riduzione di tale indicatore legata solo alla maggiore flessibilità in entrata”.
Insomma, per i padroni è stato più facile assumere attraverso convenienti contratti “atipici” o agenzie interinali, ma è rimasto difficile licenziare. Almeno finora.
Se la riforma Fornero è intervenuta solo parzialmente su questo fronte, ci ha pensato il Jobs Act ad affondare il colpo, guadagnando l'immediato plauso dell'OCSE, per la soddisfazione del ministro Padoan il quale vorrebbe convincerci di quanto la riforma del mercato del lavoro produrrà “un beneficio gigantesco”, con “più occupazione, ricchezza, e quindi più fiducia dei cittadini”.

L'ideologia dietro la logica

A parte per la gran parte della stampa italiana, che si è dimostrata allineata e pronta a bersi per intero la retorica governativa, a chiunque risulterebbe facile svelarne le contraddizioni.
Il primo paradosso è che  a lamentarsi dell'iniquità che regnerebbe nel mercato del lavoro italiano, è proprio chi per primo ha contribuito a crearla, come appunto l'ex-ministro Sacconi, principale artefice di quella selva di contratti “atipici” in cui è intrappolato l'esercito di precari delle cui sorti adesso paventa profonda preoccupazione. Ma poi è proprio il tipo di soluzione proposta a svelarne l'ipocrisia: con il nuovo contratto a tempo indeterminato a “tutele crescenti”, l'instabilità occupazionale caratteristica del mondo del lavoro precario non viene combattuta, ma piuttosto estesa anche a chi finora ha goduto di - relative - garanzie. Il prezzo dell'uguaglianza sarebbe quindi un generale livellamento al ribasso, “quasi che il mercato del lavoro fosse uno di quegli ambiti in cui il mal comune equivale a mezzo gaudio”, come dice bene il giudice del lavoro Luigi Cavallaro.
In sostanza si fa leva su di una situazione drammatica che si è contribuito a creare, per aggravarla e generalizzarla. Anche perché per contrastare l'utilizzo di contratti atipici, il massimo che si propone di fare il ministro del lavoro Poletti è sperare che il nuovo contratto a tempo indeterminato abbia “caratteristiche di attrattività normativa ed economica in grado di invertire la tendenza in atto in questi anni che ha visto aumentare i contratti precari”.
Perché infatti niente o quasi è stato intaccato nella selva dei contratti atipici, che anzi sono stati addirittura incoraggiati: per esempio, attraverso la facilitazione dell'uso dei contratti a tempo determinato (grazie all'eliminazione della causale e alla possibilità di rinnovarli per 5 volte) prevista nella prima parte della riforma del lavoro approvata lo scorso anno. Infine, con il pretesto di “razionalizzarla”, viene anche indebolita l'attività ispettiva, fondando un'unica Agenzia di Ispezione del Lavoro (frutto della fusione di quella del Ministero, dell'Inps e dell'Inail) con lo scopo di dichiarato di risparmiare!
Anche la presunta estensione degli ammortizzatori sociali a categorie prima escluse è un'uguaglianza al ribasso: i 24 mesi di indennità Naspi sono solo per chi ha sempre lavorato nei quatto anni precedenti, l'ammontare dell'indennità è legato a quello dei contributi versati e cala progressivamente e – altra innovazione di Renzi – si perde il diritto alla disoccupazione in caso di rifiuto a svolgere attività di riqualificazione professionale o ad accettare le nuove offerte di lavoro proposte dai centri per l'impiego. D'altronde, il Governo mostra di quale “estensione” degli ammortizzatori parla quando prevede in sede di bilancio la diminuzione del gettito fiscale proveniente dalla tassazione degli ammortizzatori sociali.
Questo significa che o il nuovo contratto sarà talmente conveniente per i padroni - e quindi disastroso per i lavoratori - da rimpiazzare contratti precari di sempre più facile utilizzo, o la situazione rimarrà invariata. In ogni caso non si vede proprio come verrebbe alleviata la “drammatica condizione” in cui versano i lavoratori italiani.
Inoltre, come dimostra un recente studio sulla disoccupazione in Italia1, non c'è alcuna evidenza per cui la disoccupazione giovanile, quella cioè che più rifletterebbe le eccessive tutele dei lavoratori “garantiti”, sia dovuta alla rigidità del mercato del lavoro, mentre quello che è certo è che questa cresce quando cresce la disoccupazione generale. Questo significa che non sono i diritti di chi già lavora a rendere difficile ad un giovane trovare lavoro, ma che è l'andamento complessivo della disoccupazione a rendere più o meno facile un nuovo inserimento. Ma il governo d'altronde insiste che sarà proprio grazie a questa riforma che aumenterà l'occupazione. È dalla Legge Treu del 997, passando per la Legge 30 e la Riforma Fornero, che assistiamo però a riforme peggiorative che vengono giustificate con il “rilancio dell'occupazione” e l'unica cosa ad esser stata rilanciata è la corsa al ribasso nelle condizioni di lavoro. Inoltre, come ammette O. Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale e noto alfiere delle virtù salvifiche del mercato, dopo uno studio comparato sul mercato del lavoro in Europa: “le differenze nei regimi di protezione del lavoro appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi”2. D'altronde proprio lo stesso OCSE3, che pure ne è tra i principali promotori, ha recentemente messo in dubbio le doti della flessibilità nel generare occupazione e crescita (come molti economisti di sinistra sostengono da tempo). In effetti, una manodopera docile e ricattata può di certo essere ben più “produttiva”, ma questo può rappresentare un motivo per i padroni di investire ancor meno in macchinari e tecnologia, così che, nel complesso, la produttività del lavoro potrebbe addirittura calare4. L'unica cosa a crescere sarebbe quindi lo sfruttamento!
Andando oltre l'ideologia con cui si traveste, è proprio questa la logica di questa ennesima controriforma.

La logica dell'ideologia

Per capirla torniamo su di un intervento che Mario Draghi, in qualità di presidente della BCE, fece due anni fa presso il Consiglio Europeo. Tra le slides mostrate in quella “lezioncina” ai capi di governo dell'Unione, Draghi ne ha proiettate alcune in cui viene mostrato come i paesi europei in avanzo5 siano quelli in cui, almeno fino all'avvento della crisi economica, i salari nominali sono cresciuti allo stesso livello della produttività (o addirittura meno), mentre i paesi in deficit, come l'Italia, sono quelli in cui i salari sono cresciuti maggiormente. Ma attenzione, quello che non hanno mancato di sottolineare tanti commentatori6, è che i salari di cui parla Draghi sono quelli nominali, cioè non aggiustati con l'inflazione (che alzava i prezzi dei beni e quindi diminuiva il potere di acquisto di questi stessi salari). Se l'inflazione fosse tenuta in considerazione, si vedrebbe come nel periodo considerato, ma anche nei due decenni precedenti7, in quasi tutti i paesi i salari hanno perso terreno nei confronti della produttività e ad esser cresciuti sono stati i profitti! Nei paesi “virtuosi”, quelli in surplus, questo processo di deflazione salariale è stato ancor più accentuato ed ha reso ancor più competitive le merci prodotte in quei luoghi.
Quello che il presidente della BCE sta proponendo, e che il governo italiano ha prontamente accolto, quindi, è quello di seguire questi paesi in una corsa al ribasso nelle condizioni di lavoro, nella speranza che la “domanda globale” (citata nella slide precedente) garantisca il necessario sbocco per le merci prodotte e che con queste manovre venga ristabilita la famigerata fiducia. La stessa fiducia di cui parlano Poletti, l'OCSE, Padoan, e che ormai abbiamo capito in che cosa consista: nella certezza, per i padroni, di poter sfruttare a proprio piacimento i lavoratori.
Evidentemente per la borghesia questa fiducia è più importante di quella legata agli eventuali effetti positivi di manovre espansive, nonostante i palesi fallimenti delle politiche di austerity degli ultimi anni. Come d'altronde scriveva l'economista polacco Kalecki a proposito degli “effetti politici della piena occupazione”: “la disciplina nelle fabbriche e la stabilità politica sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L'istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale.” [...]
Se, infatti, in un periodo di così grave crisi i capitalisti non hanno di certo il problema di combattere la minaccia della piena occupazione, hanno comunque l'opportunità di approfittare al massimo della dilagante disoccupazione. Quella disoccupazione il cui principale effetto politico è quello di mettere in concorrenza disperata i proletari, condannati a farsi la guerra gli uni contro gli altri per ottenere le poche briciole a disposizione. Mettendo i “precari” contro i “garantiti”, i giovani contro i vecchi, le donne contro gli uomini, il Jobs Act fa leva sugli interessi (e la disperazione) dei singoli individui contro gli interessi della classe a cui appartengono. Se volessimo riassumere in una frase la sua logica, questa sarebbe: proletari di tutto il mondo, scannatevi!

Tutto è perduto?

Ricapitoliamo: l'unica crescita a cui punta realmente il Jobs Act è quella dello sfruttamento. Con i due nuovi decreti attuativi, il contratto a tempo indeterminato sarà caratterizzato dalla stessa instabilità tipica dei contratti precari: potendo essere licenziato da un momento all'altro ed avendo in cambio al massimo una piccola indennità, nell'eventuale e sempre più improbabile vittoria nella costosa sede processuale, ogni lavoratore si troverà in uno stato di ricatto permanente.
Con la riforma degli ammortizzatori sociali si procede con la sostituzione della cassa integrazione con la Naspi – abbiamo già spiegato come questo serva ad individualizzare il rapporto del lavoratore con lo stato erogatore di sussidio, spezzando i suoi legami sia con il posto di lavoro che con i colleghi, cosa che veniva usata come base di rivendicazioni collettive – e lega l'erogazione dell'indennità, che dovrebbe essere un diritto del lavoratore visto che la paga con i suoi contributi e le sue tasse, al giudizio sospettoso dello stato che deve verificare se veramente il lavoratore è disoccupato involontario o piuttosto vuole campare senza faticare. Questo significa la possibilità di interrompere il versamento della Naspi se il disoccupato rifiuta le proposte di lavoro o di formazione professionale che gli gira il suo centro per l'impiego, finendo a fare corsi professionali inutili o lavori lontani da casa o pagati male (se non meno della stessa indennità di disoccupazione) per non restare a casa senza né lavoro né Naspi.
Gli schemi degli altri decreti attuativi dimostrano che il famoso sfoltimento della giungla di contratti atipici, è una grande bufala: viene eliminato solo il co.co.pro (che però rimarrebbe in quei settori dove è previsto dalla contrattazione collettive), mentre viene incentivato l'uso del voucher, la forma più odiosa e truffaldina.
Ricordiamo poi che nella prima parte del Jobs Act (il decreto Poletti convertito in legge nel Maggio scorso) il contratto precario più diffuso, cioè quello a tempo determinato, viene incentivato essendo eliminato l'obbligo di giustificarne l'utilizzo, aumentato il numero di rinnovi possibili ed estendendone la durata. Stesso discorso per l'apprendistato, che riceve un'altra serie di facilitazioni.
Gli altri punti della Legge Delega completano questo quadro di perenne minaccia e ricattabilità prevedendo la possibilità di demansionamento e di telecontrollo.
Non a caso l'ex ministro del lavoro e parlamentare del Nuovo Centro Destra Sacconi, attuale presidente della commissione lavoro del Senato, può affermare soddisfatto che grazie a questo provvedimento “risulta profondamente cambiato lo statuto dei lavoratori per licenziamenti, mansioni e tecnologie, così come viene confermata la Legge Biagi che perde solo il lavoro ripartito, applicato peraltro a meno di 300 lavoratori.” Di fatto questa legge è quanto la destra ha sempre sognato di ottenere senza mai riuscirci, perché ha dovuto tenere conto di una forte opposizione sociale.

Opposizioni inascoltate

Un'opposizione sociale che non è mancata, a dir la verità, neanche in questo caso: innanzitutto con  la grande giornata di mobilitazione del 25 ottobre, con quasi un milione di persone in piazza, poi con lo sciopero della FIOM del 14 novembre insieme ai movimenti sociali e quindi con lo sciopero generale del 12 dicembre – per citare solo quelli che avevano obiettivo esplicito il contrasto al Jobs Act. E poi con le decine di manifestazioni locali, contestazioni ed iniziative sparse per tutto il Paese. Un'opposizione che il governo ha deciso di non ascoltare minimamente, procedendo speditissimo verso l'approvazione dei decreti attuativi, complice anche la scelta della CGIL di non portare avanti la lotta con determinazione. D'altronde lo avevamo detto, la CGIL aveva pensato il 25 ottobre e il 12 dicembre non certo per far cadere il governo, ma per dimostrare al governo che con lei si deve trattare, che rappresenta pur qualcosa, che ha ancora un ruolo di “mediatore sociale” importante in questo momento storico. Registrata la chiusura totale di Renzi e venendo a mancare qualsiasi tipo di sponda politica credibile, la lotta è scemata proprio nel momento in cui avrebbe dovuto mostrare la massima risolutezza.
Nell'ultimo direttivo nazionale del principale sindacato italiano, la lotta si ridimensiona e viene in sostanza demandata alla contrattazione e a un'eventuale campagna referendaria di abrogazione della riforma o addirittura alla stesura di un nuovo Statuto dei lavoratori che scavalchi a sinistra il Jobs Act. Il dibattito giornalistico intanto si è concentrato sul teatrino della politica: i dissidi interni al PD, in cui la minoranza “di sinistra” è arrivata a dichiarare che il provvedimento prende in giro i precari e devasta i lavoratori (apriti cielo!), l'impermeabilità del governo rispetto ai pareri del parlamento sul licenziamento collettivo, e, tornando al fronte sindacale, la supposta discesa in campo del segretario della FIOM Landini, già individuato come il possibile “Tsipras italiano”. Dall'altra parte Renzi può contare non solo sui suoi megafoni mass-mediatici, ma anche su una campagna politica e propagandista in cui può trovare il sostegno di pezzi di borghesia italiana entusiasti del regalo ricevuto. Per primo Marchionne, che, benché tempo fa abbia detto che il Jobs Act non avrebbe influenzato le sue politiche aziendali, avendo già imposto autonomamente le stesse condizioni di ricattabilità e sfruttamento, ha attribuito le 1000 nuove assunzioni nello stabilimento di Melfi8 proprio ai recenti provvedimenti governativi, offrendo un assist al Premier, che ha potuto approfittarne nel suo attacco al sindacato.

Una lezione da imparare

Nonostante tutta l'arroganza che la borghesia è in grado di mettere in scena, dietro le quinte si può leggere la preoccupazione di chi sa di star giocando una carta molto importante e potenzialmente incendiaria. Perché non passerà molto tempo prima che milioni di lavoratori capiscano sulla propria pelle in cosa si traducano realmente le promesse fatte con il Jobs Act, mentre dall'altra parte la classe dirigente italiana è costretta a scommettere ancora una volta in una ripresa economica incerta che, nonostante le “autorevoli” previsioni di chi negli ultimi anni non ne ha mai azzeccata una, difficilmente verrà rilanciata da misure come questa. Anzi! Se è vero che la borghesia sta approfittando alla grande delle condizioni materialmente sempre più disastrose in cui versa il proletariato italiano e della confusione e lo sconforto che regnano tra molti lavoratori, dall'altra parte è anche vero che è costretta a misure come questa proprio per scaricare su di essi i costi di una crisi che non riesce a controllare e che, con queste stesse misure, potrebbe finire addirittura per acuire.
Inoltre, benché lo scenario che ci consegna questa riforma appaia terribile e sembrerebbe portare soltanto a una competizione spietata tra lavoratori sempre più ricattabili, anche in queste condizioni la giusta determinazione e capacità organizzativa può essere in grado di strappare risultati rilevanti. Perché la solidarietà tra lavoratori può sempre innescare lotte capaci di vincere e condividere un destino di discriminazione e sfruttamento come quello cui il Jobs Act vorrebbe consegnarci tutti, potrebbe alimentarla.
Lo dimostra, da ultimo, la recente importante vittoria nazionale delle lotte nel settore della logistica, dove l'articolo 18 è applicabile con difficoltà e dove per i molti lavoratori stranieri pende anche il ricatto del permesso di soggiorno. Proprio dalle lotte dei facchini, che tra l'altro scesero in piazza contro il Jobs Act il 14 novembre ed il 12 dicembre andando oltre le divisioni sindacali, si possono trarre indicazioni utili. Ad esempio sulla questione degli appalti: c'è infatti il grosso rischio che lavoratori licenziati e riassunti nel cambio dell'appalto finiscano per essere inquadrati con il nuovo contratto a tempo indeterminato. Da tempo le lotte nella logistica ci hanno insegnato a puntare alla responsabilità del committente e ad evidenziare la continuità nel rapporto di lavoro nonostante cambi l'intermediario; con le recenti disposizioni normative questo tipo di lotta acquisirebbe un'ulteriore rilevanza. Un altro spunto potrebbe essere quello della creazione di una cassa di resistenza per i lavoratori licenziati per motivi sindacali e politici e la costruzione di una rete di solidarietà tra di essi, dato che, purtroppo, sono verosimilmente destinati ad aumentare con il Jobs Act.
Queste sono solo alcune piccole indicazioni concrete, a cui potrebbero aggiungersene molte altre. L'importante è che in un frangente come questo la nostra prima preoccupazione non sia quella di improvvisare micro-coalizioni o cartelli elettorali, ma di creare la mobilitazione sociale più vasta e radicata possibile. Una mobilitazione capillare, consapevole, reale e non mediatica, che utilizzi le forme organizzative esistenti per scavalcarle, per crearne di nuove. E che esprima un programma sintetico, chiaro, accessibile alle masse. Partendo proprio dalla lotta contro il Jobs Act e contro i decreti attuativi sul riordino dei contratti atipici - perché se ne chieda realmente la fine -, e quelli poi sul demansionamento e sul telecontrollo che dovrebbero essere approvati nei prossimi mesi.
Perdere una battaglia non significa infatti perdere la guerra.

Clash City Workers

Note

  1. Si vedano Antonella Stirati (2008), La flessibilità del mercato del lavoro e il mito del conflitto tra generazioni, e Elia M. (2013), La condizione sociale del lavoro nell'era della flessibilità.
  2. Si veda keynesblog.com e Stirati (2012), Crescita e “riforma” del mercato del lavoro.
  3. Si veda economiaepolitica.it.
  4. Si vedano gli studi di Paolo Pini, disponibili su keynesblog.com.
  5. Quelli cioè che, come la Germania, registrano maggiori entrate che uscite nel bilancio nazionale. In realtà, Draghi non distingue l'avanzo primario, quello in cui cioè tra le spese non vengono conteggiati gli interessi sul debito. Nel qual caso apparirebbero tra i paesi virtuosi anche quelli che, come l'Italia, sono in consistente avanzo primario ma soffocati dagli ingenti interessi sul debito.
  6. Si veda sbilanciamoci.info.
  7. Si veda economiaepolitica.it.
  8. In realtà dei 1000 lavoratori assunti e/o rientrati, 300 sono in “somministrazione” a tempo determinato, altri 100 in trasferta da Cassino. L'accordo aziendale (Ccsl) inoltre prevede l'abolizione della pausa pranzo e 736 euro in meno complessivamente rispetto al precedente Ccnl, senza considerare che quando si lavora il sabato o la domenica non si percepirà straordinario e senza parlare dei ritmi di lavoro insostenibili.


Lavoratori della metropoli in lotta

Clash City Workers è un collettivo fatto di lavoratrici e lavoratori, disoccupate e disoccupati, e di quelle e quelli che vengono comunemente chiamati “giovani precari”. La traduzione del nostro nome suona un po' come “lavoratori della metropoli in lotta”. Siamo nati alla metà del 2009 e siamo attivi in particolare a Napoli, Roma, Firenze, Padova e Milano, ma cerchiamo di seguire e sostenere tutte le lotte che sono in corso in Italia.
Facciamo inchiesta e proviamo a dar voce a tutti quelli che stanno pagando questa crisi, attraverso il sito, la rassegna stampa, le interviste, le corrispondenze e le denunce che ci potete inviare...
Se siamo deboli, è innanzitutto perché non sappiamo quanto potremmo essere forti, non sappiamo quanti siamo e quante ragioni abbiamo.
Vogliamo dare visibilità a quello che succede nel mondo del lavoro, alle violazioni dei padroni, alle situazioni lavorative in crisi. Proviamo ad essere megafono per le vittorie che lavoratori e lavoratrici conquistano con la lotta. La consapevolezza è il primo passo per fare valere i nostri diritti e la nostra forza. Anche per questo proponiamo analisi sulla situazione politica, cercando i reali problemi e le nostre esigenze. E per questo traduciamo materiali e diffondiamo anche qui in Italia le esperienze di lotta più significative che vanno avanti nel resto del mondo.
Ma il nostro collettivo non si limita solo a fare informazione e dibattito. Nel dare voce direttamente ai lavoratori e lavoratrici ci poniamo assieme a loro il problema dell'organizzazione delle lotte: evidenziare gli elementi politici che caratterizzano tutte le vertenze, mettere gli stessi lavoratori in contatto fra di loro, così che possano riconoscersi e fare fronte comune.
Secondo noi la lotta è l'unico cammino. Ma la lotta ha tante forme possibili e tanti piani. Per questo negli ultimi anni abbiamo costruito e partecipato a scioperi e cortei, abbiamo volantinato, organizzato assemblee pubbliche, attacchinato e fatto picchetti, abbiamo cercato di fornire supporto tecnico e aiuto materiale ai lavoratori che si mobilitavano, organizzando casse di resistenza, concerti di solidarietà, facendo inchieste che svelavano gli interessi padronali e permettevano a lavoratori e lavoratrici di contrattaccare sul piano politico giudiziario e mediatico, lanciando campagne “pubblicitarie” provocatorie - come quella contro IKEA - che hanno messo in crisi l'immagine di un'azienda o di un marchio.
Ma ancora tanto abbiamo da fare. Clash City Workers è un collettivo aperto a qualsiasi contributo esterno, a chiunque voglia fare informazione, a chiunque voglia costruire insieme interventi sui luoghi di lavoro, sviluppare e collegare le lotte dei lavoratori.
P.S. Il nome Clash City Workers viene da canzone di una famosa band inglese di fine anni '70, i Clash. In questa loro canzone si dice che non bisogna lamentarsi della propria triste condizione e del proprio insoddisfacente lavoro, ma bisogna organizzarsi per cambiare tutto radicalmente!

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