Rivista Anarchica Online


 


La “rivoluzione interiore”
di Tiziano Terzani

Il contributo di Tiziano Terzani alla corrente culturale degli obiettori della crescita e degli intellettuali, che credono in una vera società alternativa, proviene da un gruppo di pensatori che ha vissuto a lungo nel cosiddetto “terzo mondo”, ponendo in discussione l'idea stessa di progresso e sviluppo, tra cui Ivan Illich e Serge Latouche.
Terzani ha origini operaie, comuniste e anticlericali: il padre ha combattuto tra i partigiani della Resistenza. La sua vita si dipana tra Oriente e Occidente, in qualità di giornalista professionista, rendendosi presto conto delle ragioni dei popoli asiatici colonizzati.
Come argomenta Gloria Germani, curatrice del libro Terzani. Verso la rivoluzione della coscienza (edizioni Jaca Book, Milano, 2014, pp. 126, € 9,00), dalle umili origini Terzani eredita un forte bisogno di giustizia, la volontà di creare il senso della vita, la ricerca di un modo di vivere collettivamente più giusto e autentico. Studia la storia delle civiltà asiatiche così distanti e diverse dal mondo occidentale, prendendo coscienza del fallimento dell'esperimento comunista in Vietnam, degli orribili esiti della rivoluzione cambogiana di Pol Pot, del fallimento del comunismo maoista in Cina, del disastro esistenziale del moderno liberismo in Giappone e del crollo del comunismo in Russia.
Terzani avvertiva tutta la disperazione per aver appreso come i tentativi verso la modernità, dal comunismo cinese al liberismo economico giapponese, portassero ad esiti aberranti per la vita umana, dalla capacità affettiva e relazionale al rapporto con la natura e l'ecosistema, intuendo che le rivoluzioni comuniste, ma anche e soprattutto il capitalismo, hanno un tratto fondamentale in comune con la mentalità scientifica tipicamente occidentale. La sua opera è un continuo sdegno di fronte alla modernità di stampo occidentale, all'industrializzazione, all'ossessione per il denaro che distrugge interi paesi, con la colonizzazione dell'immaginario, in quanto l'Occidente ha distrutto interi popoli, prima con le chiese e i crocifissi e ora con la televisione, ancora più che con le armi nucleari, agli albori della globalizzazione, tramite la colonizzazione della mente.

Tiziano Terzani

La visione occidentale e meccanicistica della scienza cartesiano-newtoniana ha plasmato la vita moderna, generando la specializzazione e la frammentazione, tipiche del nostro tempo, che ci impediscono di comprendere gli effetti delle nostre azioni e spesso anche il senso dell'esistenza. Le civiltà orientali si sono sempre poste il grande obiettivo di disincentivare e scoraggiare l'insorgere continuo dell'ego, la presunzione della persona, la superbia dell'individuo per raggiungere la pace e la vera felicità, nel distacco dal piccolo Io che illusoriamente l'Occidente crede autonomo, per fare invece emergere un più grande. Per l'uomo moderno occidentale, l'unica conoscenza valida è quella dell'utile, al fine di manipolare, possedere, cambiare, dominare il mondo con il sistema di pensiero su cui si fonda la modernità, nel segno della grande unificazione del sapere, al contrario delle scoperte più all'avanguardia nel campo della conoscenza, dai sistemi complessi alla scienza della complessità, che le antiche sapienze asiatiche conoscevano, come il Tao, l'interconnessione, il nodo infinito, non la dualità cartesiana mente/corpo, ma il tutto è uno.
Attualmente l'unico obiettivo di tutti i governi è la crescita economica, il valore essenziale è il denaro e la religione prioritaria è l'economia, dove si valuta esclusivamente il profitto nel potente circuito della dittatura finanziaria, nella finanziarizzazione, per cui oggi la nuova lotta di classe dovrebbe essere contro l'oligopolio e l'oligarchia dei mercati dell'alta finanza. Il filosofo del '600 Thomas Hobbes stabilì che la prima forza che guida l'agire è l'interesse personale ed egoistico, la competizione sfrenata tra individui scatenati nell'affermare la propria autodeterminazione. Così Terzani, il corrispondente estero, ha avuto il coraggio di denunciare il fatto che il materialismo sfrenato ha marginalizzato il ruolo dell'etica nella vita quotidiana, a vantaggio di disvalori come il denaro, il successo, il tornaconto personale, di cui tutti siamo succubi e vittime. Per questo sosteneva che è necessaria una “rivoluzione interiore”, in quanto le cause della guerra tra civiltà sono dentro di noi, nelle passioni come il desiderio, la paura, l'insicurezza, l'ingordigia, la vanità e che la sofferenza risiede proprio nell'avidità, nell'attaccamento morboso, nel cercare la felicità fuori di sé. Terzani auspicava una silenziosa “rivoluzione interiore”, fondata su una percezione diversa dell'ego, una “rivoluzione della decrescita”, per un futuro in cui l'idea di socialismo sopravviverà a questo periodo egoista e capitalista, con l'alto ideale di una società in cui nessuno sfrutta il lavoro dell'altro e ognuno fa il dovuto e non accumula l'eccesso, secondo un concetto di frugalità tipico delle tradizioni di saggezza, ristabilendo così l'armonia con la morte e la natura, comprendendo in tal modo che fenomeni apparentemente scollegati, come la gravissima crisi ecologica, economica, finanziaria, etica, esistenziale e l'incremento delle guerre sono intimamente connessi al tipo di conoscenza dualistica, che annienta le diversità e le complessità, e all'egocentrismo occidentale che si alimenta di idolatria invece di raggiungere l'essenziale, il tutto, l'uno.

Laura Tussi



Luigi Di Gianni/
Cine-occhio kafkiano e libertario

Poiché il cinema non è solo un'esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un'esperienza filosofica.
Pier Paolo Pasolini

È tra i massimi registi e documentaristi italiani e ha firmato oltre 60 film. L'opportunità di “aprirci” a Luigi Di Gianni, un maestro del nostro cinema, definito a buon diritto il filosofo della macchina da presa, ci viene offerta dalla Cineteca di Bologna con uno speciale DVD, dal titolo Uomini e spiriti (Andrea Meneghelli, 2013, Cineteca di Bologna € 9,90) che, attraverso 16 film realizzati tra il 1958 e il '71, ripercorre la poetica e quell'attitudine intrinseca con cui vengono indagati gli aspetti più irrazionali e illogici della nostra cultura, specie quelli radicati nel Sud più arcaico.

Luigi Di Gianni

Luigi Di Gianni nasce a Napoli nel 1926. Si laurea in Filosofia con una tesi su Heidegger e si diploma in Regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma dove poi insegnerà, oltre a insegnare in diverse università italiane. Avvalendosi della consulenza scientifica di Ernesto de Martino, nel '58 inizia l'attività di documentarista-cineasta con Magia Lucana e che nello stesso anno vince il premio come miglior documentario alla XIX edizione del Festival di Venezia. È un acuto osservatore: il suo sguardo non è mai neutrale verso l'oggetto preso in esame, sebbene la ricerca antropologica che lo anima non abbia in sé nulla di estetizzante, vista la brutalità quasi orrifica che guida la sua mano. Di Gianni utilizza le armi della “settima arte” per evidenziare con maggior forza la lotta dell'uomo contro la natura, il fato, la povertà. Le genti del Meridione, protagoniste delle vicende narrate nei suoi documentari, “portano” sul viso una sofferenza eterna tramandata di generazione in generazione e nel contempo sono dominate dal potere sovrannaturale. È un cinema di ricerca e di denuncia, come si evince dalle sue stesse parole: “Ho sempre provato amore per chi non può niente e si dibatte inutilmente contro un destino che lo sovrasta: è lo stesso amore che provo per i contadini della mia terra, dell'Italia meridionale, per gli oppressi in generale”. I suoi film esplorano in particolare l'intreccio tra ritualità pagana e cattolicesimo nell'Italia del Sud, la fatica e la dignità del lavoro, la fragilità dell'uomo soggiogato dalla forza degli eventi che non può controllare; ecco perché gli ultimi sono i primi ma restano vittime sacrificali predestinate. Sintomatiche a tal proposito le parole che l'antropologa Clara Gallini scrive: “[...] La Lucania [...] del regista è astorica, fatta di voli e gesti antichi, fissati nella lenta solennità dei movimenti, in sguardi immobili che sembrano provenire da distanze immemorabili e senza tempo. [...] La lettura di Di Gianni ci richiama di più l'immagine che del contadino del Sud aveva proposto Carlo Levi in 'Cristo si è fermato a Eboli'”.
Egli imprime alle opere una spiccatissima personalità d'autore senza dimenticare le lezioni della cultura mitteleuropea, della scuola sovietica e dell'espressionismo tedesco. Il suo cinema non è scalfito dal tempo, bensì è disseminato di essenze e suggestioni kafkiane e dreyerane.
Negli anni Sessanta l'antropologa e fotografa Annabella Rossi è consulente e autrice dei testi dei documentari di Di Gianni. Si ricordano: La Madonna di Pierno ('65), Il male di San Donato ('65), La Possessione ('71). Nel febbraio 2006 l'Università di Tubinga gli conferisce la laurea honoris causa in Filosofia per meriti nel campo del cinema d'ispirazione antropologica.
Costantemente coerente alla propria poetica, Di Gianni dà vita a un cinema “estremo” basato sull'immagine-tempo e non sull'immagine-movimento, eccezion fatta per il piano sequenza capace di evocare un mondo d'immagini prima che di parole. Un codice visivo dove la langue è in primis immaginazione. Installazioni di corpi, non per forza attori, pronti a un'accensione/ascensione cristologica nella tenuità di luci e ombre. È, ciò nonostante, un cinema annichilito dalla mancanza di acume di produttori e distributori, nonché da una stampa sempre più disattenta e omologata.

Una scena del film Tempo di raccolta

Nella sua ricerca cinematografica estetica/estatica emergono una perfetta sintonia e un parallelismo culturale con Carl Theodor Dreyer, Friedrich Wilhelm Murnau, Josef von Sternberg, Dziga Vertov, Ingmar Bergman, Luis Buñuel, Franz Kafka, Albert Camus, Jean-Paul Sartre. Di Gianni predilige il bianco e il nero e, proprio quando è costretto a ricorrere al colore, utilizza colori saturi, innaturali, di una grigia tonalità come l'esistenza dell'uomo. La musica dodecafonica di Arnold Schönberg, Anton Webern, Alban Berg è protagonista e fa da contrappunto doloroso a tali atmosfere.
Il rapporto con il sovrannaturale, l'estasi, la possessione, l'onirico sono altri tratti peculiari della poetica di Di Gianni. In Grazia e numeri ('62), I Fujenti ('66), La potenza degli spiriti ('68), Nascita di un culto ('68), L'attaccatura ('71), attraversando il Profondo Sud, egli documenta la presenza ancora molto forte di riti connessi a forme di ritualità magico-religioso-protettive. Come scrive Andrea Meneghelli nell'Introduzione del libretto allegato al DVD, “il suo cinema è la documentazione di un rimosso sociale”. Negli ultimi tempi ha realizzato: La Madonna in cielo, la “matre” in terra (2006), Carlo Gesualdo da Venosa - Appunti per un film (2009), Un medico di campagna (2011) ispirato all'omonimo racconto di Franz Kafka. Altri film sono in fase di lavorazione. Lo scorso anno è stato nominato Presidente della Lucana Film Commission.
Nel DVD Uomini e spiriti sono presenti tra gli altri: Magia Lucana ('58), Frana in Lucania ('60), L'Annunziata ('62), Il culto delle pietre ('67), La tana ('67), Tempo di raccolta ('67), Nascita di un culto ('68), L'apparizione ('68), Nascita di un culto ('68).
La sua è una promenade alla riscoperta di un Meridione arcaico, misterico, folle, dimenticato, eppure tanto affascinante e suggestivo: “Io salvo l'identità lucana, raccomando sempre di non vergognarsi del proprio passato e di essere stati poveri. La povertà non è solo tragedia se la si guarda con gli occhi di chi è riuscito ad uscirne senza rinnegarla”. Forgia un cinema tutto suo, attraverso il quale non pretende di catturare la verità pur ricercandola incessantemente con vigore e integrità etica straordinarie. Un cinema autorevole che s'impone per la sua filosofia; dove l'immagine recupera il significato espressivo: eloquente e risolutiva di per sé che, azzerando tempo e spazio, è sempre attuale e dev'essere d'ispirazione e monito per le nuove generazione di autori e registi, affinché non si sprofondi nel baratro della non-cultura televisiva che ormai sovrasta indomita plagiando la massa. Proprio come afferma Pasolini: “La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto 'mezzo tecnico', ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. [...] Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo”.

Domenico Sabino



Resistenza a Milano 1943-45/
Contro i nazi-fascisti e per la rivoluzione sociale

Per le edizioni Zero in Condotta è stato recentemente pubblicato il volume Per la rivoluzione sociale. Gli anarchici nella Resistenza a Milano (1943-45) di Mauro De Agostini e Franco Schirone (Milano, 2015, pp. 360, 20,00) di cui pubblichiamo il comunicato editoriale e la prefazione di Giorgio Sacchetti.

Per gli anarchici la battaglia contro il fascismo, che comincia a svilupparsi fin dalla nascita del movimento mussoliniano, prosegue durante tutto il ventennio e si dispiega con la Resistenza, costituisce un momento particolare della lotta rivoluzionaria; fascismo, democrazia borghese, totalitarismo staliniano vengono combattuti come forme diverse di oppressione statale in vista della creazione di una società di liberi ed eguali.
Questo studio ricostruisce, per la prima volta in modo organico e completo, le vicende del movimento anarchico milanese dagli anni della dittatura fino ai mesi immediatamente successivi alla Liberazione. Avvincente e documentata narrazione di un'esperienza resistenziale popolare ed “altra”, quella degli anarchici, in una città-chiave come Milano, crocevia dei destini della Nazione ma anche proscenio della duratura guerra civile europea.
Negli anni della dittatura la resistenza libertaria prosegue tenace nonostante l'occhiuta vigilanza della polizia, anche al confino e in carcere, ma è opera soprattutto di vecchi militanti che rimangono fedeli alla propria storia. Sono gli insuccessi della guerra fascista a incrinare il consenso al regime mentre la caduta del fascismo e l'8 settembre portano sulla scena politica una nuova generazione di giovanissimi ansiosi di creare un mondo nuovo. A Milano si realizza la non facile saldatura tra i militanti “storici” e centinaia di giovani animati da spirito spontaneamente libertario e rivoluzionario, portando alla nascita delle formazioni “Malatesta – Bruzzi”. Ma le aspirazioni rivoluzionarie sono così radicate e diffuse che lo stesso PCI guarda con preoccupazione alle “tendenze anarcoidi e di sinistrismo” ampiamente presenti nelle formazioni partigiane.
Oggi, mentre la tradizionale vulgata nazional-popolare della Resistenza come”guerra patriottica” interclassista viene progressivamente soppiantata da un infame revisionismo storico che pone sullo stesso piano vittime e carnefici, risulta tanto più necessario riscoprire l'anima rivoluzionaria della lotta antifascista.
In appendice sono pubblicati diversi documenti in larga parte inediti, come gli elenchi completi degli appartenenti alle formazioni “Malatesta – Bruzzi”, le versioni integrali della relazione di Giuseppe Seregni e del diario scritto da Pietro Bruzzi dal 13 agosto 1943 al 3 maggio 1944, un mese prima dell'arresto che lo porterà alla fucilazione.

Zero In Condotta

La presenza complessiva degli anarchici nella Resistenza è già stata fatta oggetto di numerosi studi, alcuni di grande pregio, ormai a partire dall'ultimo decennio del secolo scorso. Tuttavia, trattandosi di un movimento di non facile approccio per chi non abbia un retroterra di conoscenza approfondito, si è rilevato spesso necessario, anzi indispensabile, partire dal locale (o magari dalle storie di vita). Sì, perché ad un movimento politico-culturale-sociale eterogeneo e decentrato corrispondono spesso fonti altrettanto decentrate e magari disperse. Ebbene queste pagine, oltre a rappresentare un indubbio elemento di conoscenza, costituiscono anche un prototipo per come si debba procedere nella ricerca storica di base. Senza questi lavori, pazienti e minuziosi, le grandi opere di “sintesi” non avrebbero più la materia prima per analisi e ricostruzioni di largo respiro.
Mauro De Agostini e Franco Schirone, studiosi di vaglia, ci propongono un'avvincente e documentata narrazione di un'esperienza resistenziale popolare ed “altra”, quella degli anarchici, in una città-chiave come Milano, crocevia dei destini della Nazione ma anche proscenio della duratura guerra civile europea. Lì dove lo scontro tra fascismo e antifascismo ha assunto, da sempre, i connotati della guerriglia sociale aperta il racconto di quelle vicende si fa decisivo. Le modalità e le costanti di un conflitto apertosi nel 1919-1922 ritornano dunque negli anni 1943-1945 come ricapitolazione, svolgimento finale e “recupero della memoria” (per usare le parole di Claudio Pavone) durante la Resistenza, sotto la cappa dell'occupazione tedesca. E si tratta di uno scontro epocale, “guerra dei trent'anni” tra opposte visioni del mondo, tra modelli di civiltà antitetici, il cui esito produrrà contraddizioni più o meno impreviste: come l'affermarsi di democrazie dai tratti autoritarie di antifascismi di marca totalitaria.
La seconda guerra mondiale nelle sue molteplici rappresentazioni raffigura una sorta di architrave della memoria europea, e pertanto delle identità, di tutte quelle componenti sociali, politiche, nazionali e culturali che vi furono coinvolte. Ciò vale a maggior ragione per un paese come l'Italia alle cui istituzioni spetta la peculiarità della nefasta primogenitura del fascismo, e il disonore di una turpe alleanza con il nazionalsocialismo hitleriano, dalla guerra d'Etiopia almeno fino all'8 settembre 1943. Per la generazione dei militanti libertari, reduci delle antiche battaglie, l'epilogo di un'esperienza traumatica vissuta in prima persona – guerra, persecuzioni, prigionia, esilio e lotta armata – non sarà mai l'ora zero per un nuovo spensierato inizio. Esso imporrà, piuttosto, il dovere della memoria oltreché della coerenza antitotalitaria. Le inaudite devastazioni fisiche e morali patite significarono, innanzitutto, una grande confutazione delle illusioni e delle finzioni ideologiche e politiche del Novecento, secolo destinato a proiettare perennemente le sue ombre lugubri. “Mai come allora – ha scritto Karl Dietrich Bracher (Zeit der Ideologien) – l'idea di progresso si era rivelata in tutta la sua ambivalenza: di fronte alla fede in un miglioramento morale e culturale inarrestabile e automatico dell'uomo, c'era l'esperienza di Auschwitz”. Né bastò più il Comunismo come “quintessenza dell'antifascismo”, giacché anche dopo il 1945 continuava ancora, nell'URSS, la disumanità dei campi di concentramento...
La Resistenza, quale fenomeno storico ormai inesorabilmente lontano nel tempo, fagocitata e depotenziata di tutta la sua carica sovversiva dalla retorica istituzionale, oppure attaccata in blocco dalla società dei consumi culturali veloci e dei talk show, dai nuovi fascismi (più che dal vecchio “revisionismo” del buon De Felice), ha man mano esaurito la sua funzione pedagogica e di appeal tra le giovani generazioni e non solo. Tuttavia anche lavori come questo propostoci da De Agostini e Schirone – peraltro estremamente ricchi dal punto di vista delle fonti utilizzate e ben organizzati sul piano del racconto – ci richiamano almeno un paio di riflessioni sulla metodologia di indagine da adottare, sulle necessarie letture storiche da effettuare sul lungo periodo. Tutte questioni che, allo stato, appaiono ancora irrisolte nel milieu storiografico. Occorrerebbe, in sostanza, passare davvero dalla attuale visione strettamente singolare e univoca della Resistenza (ma quale memoria condivisa!) ad una visione invece davvero plurale delle molteplici Resistenze. Occorrerebbe inoltre superare senza remore la cronologia ristretta del 1943-1945, discorso che ci pare debba valere anche per le vicende dell'anarchismo.
Dopo la fase di “internazionalizzazione” – che riguarda l'esperienza militante che matura fra le due guerre, epoca in cui il movimento si misura con i totalitarismi in ambito europeo – si delineerebbe così una periodizzazione inedita. Si tratterebbe (sull'onda di alcune suggestioni dello storico Giovanni De Luna) di prendere in considerazione tutto in blocco il decennio della crisi 1938-1948. Ed è proprio in questi anni, infatti, che precipitano eventi di portata epocale, tali da marcare tutto il secondo Novecento anche per gli anarchici. Ne citiamo solo i principali: gli esiti letali della sconfitta in Spagna, la seconda guerra mondiale come guerra ideologica antifascista, l'incardinamento dei tre partiti che per il mezzo secolo successivo domineranno lo scenario politico italiano, la conferma della statalizzazione dei sindacati, l'avvento della repubblica e di un sistema liberal-democratico, la guerra fredda con la giustapposizione della nuova coppia comunismo / anticomunismo alla vecchia coppia fascismo / antifascismo, l'Unione Sovietica come “faro” indiscutibile della sinistra...
Da rilevare anche che la partecipazione dei libertari italiani alla lotta armata antifascista marcherà indubbiamente la differenza fra i percorsi antropologico culturali successivi intrapresi dalle varie correnti dell'anarchismo internazionale. Così, se nell'area anglofona prevarranno i temi della rivoluzione nonviolenta e dell'anti-bellicismo, in quella sud-europea saranno invece gli stilemi classici dell'antifascismo di estrema sinistra ad imporsi, non ultimo il mito della “Resistenza tradita”.

Giorgio Sacchetti



I ribelli (strani?)
di Marco Sommariva

È stato ristampato il volume di Marco Sommariva Ribelli (pp. 192, 15,00) con sette capitoli aggiuntivi e l'introduzione di Giuseppe Cospito, docente di storia della filosofia all'Università di Pavia, che pubblichiamo.
Si tratta di un'autoproduzione; per eventuali ordini contattare l'autore all'indirizzo mail marco.sommariva1@tin.it.

“La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica”, perché questi “subiscono sempre l'iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono” scriveva Gramsci nei suoi Quaderni del carcere verso la metà degli anni Trenta del Novecento. E aggiungeva che “ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale; da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere”. Va quindi reso merito a Marco Sommariva innanzitutto di avere svolto un lungo e minuzioso lavoro di ricerca per compilare i centouno capitoli di questo libro, ognuno dei quali costituisce un piccolo saggio di quelle “monografie” che lo stesso Gramsci avrebbe scritto, se solo fosse uscito vivo dalle carceri fasciste.
Non tutti i “ribelli” di cui si parla in queste pagine appartengono per nascita e condizione sociale ai gruppi subalterni, ma anche coloro che provengono dalle classi agiate, da San Francesco a Ernesto “Che” Guevara, ne sposano la causa rinunciando a un'esistenza da privilegiati per dedicare (e spesso sacrificare) la vita in favore degli umili e dei diseredati, o comunque alla lotta contro ogni forma di ingiustizia e di oscurantismo.
Certo, chi si limitasse a scorrere rapidamente l'indice del libro, rimarrebbe decisamente sorpreso: che cosa hanno in comune – si potrebbe chiedere il nostro lettore distratto – l'astronomo e matematico Galileo Galilei e il capo indiano Toro Seduto, l'umanista Pico della Mirandola e il “ladro gentiluomo” Arsenio Lupin, il poeta religioso Jacopone da Todi e il pediatra e pedagogista Marcello Bernardi, il fondatore del socialismo scientifico Karl Marx e il folksinger Bob Dylan, il letterato dandy Oscar Wilde e l'attivista nero convertito all'Islam Malcom X, il profeta della non-violenza Gandhi e il guerrigliero zapatista Marcos? In che senso possiamo definire “ribelli” filosofi come Ruggero Bacone o Georg Wilhelm Friedrich Hegel?
In realtà tutti costoro, così come gli altri personaggi descritti in questo libro – molti dei quali poco noti ma non per questo meno importanti – sono accomunati dall'opposizione a ogni autorità costituita, dal rifiuto di piegarsi al Potere in tutte le sue manifestazioni: politiche, economico-sociali, religiose, filosofiche, culturali e così via. Sono uomini di fede che hanno anteposto i valori del cristianesimo originario ai dogmi e alle pratiche della Chiesa ufficiale, scienziati che hanno scelto di cercare la verità nel “gran libro della natura” piuttosto che nei volumi polverosi dei loro predecessori, filosofi che hanno esercitato la critica razionale nei confronti di ogni tradizione inveterata, letterati, poeti, artisti e musicisti che, con le loro opere, hanno sfidato canoni e regole dei rispettivi generi per affermare il proprio spirito libero creatore, uomini e donne che hanno scelto di vivere la propria sessualità senza preoccuparsi di norme e convenzioni sociali. Ma sono anche, se non soprattutto, persone comuni, semplici contadini, operai e artigiani che non si sono voluti piegare a un destino di sfruttamento e di oppressione, al quale sarebbero stati destinati per il solo fatto di appartenere a una classe inferiore. In molti casi, i protagonisti non sono nemmeno individui singoli, ma gruppi sociali, politici, religiosi, artistici e così via.
Il filo conduttore dei capitoli del libro, scanditi dallo scorrere dei secoli che tuttavia – almeno in apparenza – sembra lasciare inalterate gerarchie millenarie, è costituito dalla lotta contro ogni forma di ingiustizia e discriminazione (politica, sociale, economica, religiosa, razziale, sessuale), per realizzare ovunque libertà e uguaglianza, non solo giuridiche, ma anche e soprattutto sostanziali. Una lotta quasi sempre disperata per la sproporzione delle forze in campo e, quindi, destinata fin dall'inizio alla sconfitta, almeno nell'immediato. Eppure, nei tempi lunghi della storia, i vinti di ieri sono spesso i vincitori di oggi o perlomeno di domani: la rivolta dei Ciompi fiorentini viene repressa e per secoli accadrà lo stesso a ogni tentativo di organizzare le rivendicazioni (non solo salariali) dei lavoratori ma, a partire dai primi successi delle Trade Unions, oggi almeno in una parte del mondo i diritti sindacali sono universalmente riconosciuti; Sandro Pertini e Nelson Mandela vengono imprigionati a lungo dai regimi illiberali contro i quali si battono ma poi, dopo aver contribuito in maniera decisiva alla loro caduta, diventano presidenti delle loro nazioni; Martin Luther King viene assassinato, ma quarant'anni dopo un afroamericano siede alla Casa Bianca.
E tuttavia non è una storia in bianco e nero, quella che ci racconta Sommariva, una storia in cui, come nei vecchi film western, i “buoni” sono tutti da una parte (e alla fine trionfano) e i “cattivi” dall'altra (e vengono battuti). Non tutti i protagonisti dei brevi ritratti di cui è composto il libro possono essere proposti come modelli da imitare: tra di essi ci sono infatti ladri e assassini, briganti di strada e cacciatori di taglie. Ma le loro vicende, se esaminate in modo obbiettivo e collocate nelle condizioni storiche determinate in cui si svolsero, dimostrano che spesso la differenza tra un eroe e un criminale, un terrorista e un patriota, dipende da queste piuttosto che da una presunta malvagità innata in alcuni esseri umani.
A volte, del resto, la violenza degli oppressi appare l'unico mezzo per opporsi a quella degli oppressori, esercitata con strumenti tanto più potenti e, spesso, più sofisticati e meno visibili. È il caso di molti dei personaggi descritti in queste pagine, nei confronti dei quali l'autore non nasconde la propria simpatia umana e vicinanza politica (la stessa che gli fa preferire Gracco Babeuf a Robespierre, Saint Simon, Owen, Fourier e Proudhon a Engels, Rosa Luxemburg a Lenin, Carlo Rosselli a Palmiro Togliatti). Personaggi riconducibili alla costellazione molteplice e variegata del movimento anarchico e libertario: non solo teorici come Max Stirner e Michail Bakunin, Alexandr Herzen, Henry David Thoreau e molti altri, ma anche agitatori come Pietro Gori e Carlo Tresca, che tentarono di metterne in pratica gli insegnamenti con l'azione politica, “cani sciolti” come il regicida Gaetano Bresci e vittime innocenti come Sacco e Vanzetti.
Scorrendo le pagine del libro troviamo numerose figure femminili, molto diverse tra loro per nascita, condizione sociale e cultura, ma accomunate dal rifiuto della condizione di sudditanza e subordinazione alla quale sarebbero state destinate solo in quanto appartenenti al sesso tradizionalmente considerato “debole”: sono guaritrici ed erboriste, levatrici e prostitute, per questo bollate e perseguitate per secoli come streghe, paladine dei diritti della donna come Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft, scrittrici anticonformiste come Emily Dickinson; o ancora le suffragette, epiteto spregiativo affibbiato a coloro che si battevano per il diritto di voto. E, man mano che ci avviciniamo ai nostri giorni, le donne si fanno portavoce di battaglie universali, che oltrepassano l'orizzonte dell'emancipazione femminile: è il caso di Rosa Louise Parks, grazie alla cui fermezza verranno abolite le discriminazioni razziali sui mezzi pubblici negli USA, e soprattutto di Malala Yousafzai, la giovanissima pakistana alla quale nemmeno i proiettili dei talebani sono riusciti a impedire di coltivare il sogno dell'istruzione per tutti, compresi i figli e le figlie di coloro che l'avevano ridotta in fin di vita. Ed è significativo che il libro si chiuda proprio con il suo ritratto, come a voler ribadire che la lotta contro ogni forma di schiavitù e oppressione passa prima di tutto attraverso la conoscenza.
“Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza” scriveva sul primo numero dell'”Ordine Nuovo”, il giornale dei Consigli di fabbrica torinesi da lui fondato nel 1919, quel Gramsci con cui ho aperto questa brevissima introduzione e che viene nominato diverse volte nel libro, anche se non sono sicuro che si sarebbe riconosciuto nella definizione di “ribelle”.
Credo tuttavia che queste sue parole possano essere fatte proprie da tutti coloro che, proseguendo la millenaria lotta dei protagonisti di queste pagine, credono nella possibilità di lasciare un mondo migliore rispetto a quello che hanno trovato.

Giuseppe Cospito



Andrea Croccia
calabrese, comunista-anarchico, antifascista

Edito dall'Istituto Calabrese per la storia dell'Antifascismo e dell'Italia Contemporanea (ICSAIC) di Cosenza è uscito, da pochi mesi, il libro di Francesco Spingola, dal titolo Antifascismo e sindacalismo in Andrea Croccia. Documenti e testimonianze (Cosenza, 2014, pp. 96, senza prezzo). L'autore, attuale segretario generale della Funzione Pubblica Cgil Territoriale, ricercatore e studioso di antropologia, con il suo lavoro ha voluto rendere omaggio ad Andrea Croccia, prestigiosa figura di comunista-anarchico, antifascista e sindacalista arbëreshë che ha contribuito, con la sua incessante attività politica e sociale, alla costruzione, in Calabria sia del Partito Comunista Italiano che della CGIL.
Andrea Croccia, figlio di Angelo e di Domenica Durante, di mestiere contadino, nasce a Civita (Cosenza) il 2/5/1899. La sua è stata una vita avventurosa. Conosce, a soli sei anni, l'emigrazione partendo con il padre in Argentina. Nel 1910 il padre lo lascia solo per rientrare brevemente in Italia con lo scopo di portarsi in America moglie, figlia e madre ma muore nel bastimento durante il viaggio. Andrea ha solo 11 anni e sopravvive grazie all'ospitalità di alcune famiglie italo-albanesi. Cerca di ricongiungersi con il nonno a Buenos Aires, ma durante le ricerche apprende che anche questi è morto.  Si reca allora da uno zio materno, ma viene scacciato, racconterà dopo, come non si farebbe neanche con “un cane randagio”. Finalmente incontra l'anarchico Carlo Berneri che lo impiega a vendere il giornale “Arriva” da lui fondato. Dopo varie vicissitudini, a soli 13 anni, ritorna in Calabria a Frascineto. A 18 anni viene chiamato alle armi e sul Monte Grappa rischia di morire per assideramento. Trasportato d'urgenza, all'ospedale di Palermo, gli vengono amputati parzialmente tutti e due i piedi. Nel 1921 fonda la sezione Comunista di Frascineto.
Nel 1924 aderisce al “Gruppo Anarchico del Sud” e viene segnalato per i suoi contatti con Errico Malatesta. Nel 1927 viene licenziato dalle ferrovie e nel 1933 a Frascineto (Cosenza), i fascisti gli sparano e vivrà tutta la vita con una pallottola in corpo. Da quel momento in poi la sua vita sarà un inferno: viene più volte arrestato, continuamente vigilato, vessato, confinato. Dopo la Liberazione lavora presso la Camera del Lavoro di Cosenza. Nel 1948 risulta essere il primo dei non eletti, ma poi, per l'improvvisa morte di un deputato calabrese, subentra a Montecitorio. Rimane deputato per 24 ore, si dimette per far posto, su sollecitazione di Togliatti, alla compagna milanese Elsa Molè. Consegnato il tesserino di parlamentare, con tutti i privilegi derivanti da quello status, con le protesi di legno, le stampelle, il basco nero e il pizzetto sul mento ritorna tra i contadini e i pastori di Frascineto da dove era partito a soli sei anni.
Scrisse, nel 1954, dalla lontana Liguria, all'amico Domenico Licursi: “La bellezza della Vita, la speranza che cerchi, sono tra la tua gente. Bisogna cancellare quella brutta parola che il primo prepotente ha scritto: “questo è mio” e sostituirla con un'altra parola, più bella, più umana: “questo è nostro”. La Vita, Caro Domenico, sarà quella che vogliamo.”
Il libro di Francesco Spingola è impreziosito da numerose foto e documenti inediti.
Per richieste:
francospingola@cgilpollino.it - istitutocs@virgilio.it.

Angelo Pagliaro



La prima guerra mondiale
in Val di Pesa

Il volume (a cura di Alberto Ciampi e Francesco Fusi, Di fronte al Fronte. Val di Pesa e Prima guerra mondiale. Frammenti, Centro Studi Storici della Valdipesa – n. 14, San Casciano in Val di Pesa (Fi), 2015, pp. 208, € 18,00) è composto dalla premessa ed una introduzione ad Antimilitarismo di Gian Pietro Lucini a firma di Alberto Ciampi oltre al punto di vista di Marco Rossi e Gianluca Cinelli. Segue il capitolo, Interventismo e antimilitarismo in Val di Pesa con una pungente analisi sulla Mobilitazione civile e protesta popolare, di Francesco Fusi. Una ampia appendice iconografica e documentaria arricchisce la pubblicazione seguita da due storie intime, di due soldati-contadini, il primo che morirà pochi anni dopo a causa della guerra, il secondo, sarà disperso. Queste due storie si sviluppano attraverso l'analisi di una gran quantità di corrispondenze dal fronte.
Rispetto alla gran messe di scritti su e attorno al conflitto, questo lavoro è eccentrico, guarda alle contraddizioni, in alvei border line e nelle pieghe della storia: in quegli elementi che hanno fatto sì che questa guerra, per molte ragioni, non fosse uguale alle altre. Il punto di vista di ambienti che nell'immaginario appaiono estranei a tale contesto, sono invece, a nostro avviso, luoghi di indagine che inducono a cogliere, se non meglio, almeno in maniera parecchio differente il perché di adesioni o avversioni. In questa indagine emergono persone e fatti contraddittori di migranti politici i quali, partiti da posizioni rivoluzionarie, si troveranno in panni reazionari e conservatori, magari continuando a ritenere di essere veri rivoluzionari. Oppure chi o coloro, che su differenti posizioni, pro o contro, hanno mantenuto intatto il proprio atteggiamento nonostante il traumatico passaggio della guerra, ora convinti di aver aderito coerentemente ai propri ideali, ora avendo preso atto dell'errore della scelta. Ma anche di coloro dei quali non possiamo avere un pensiero successivo, perché un “poi” non l'hanno avuto lasciando in vario modo la vita sulle trincee.
Per ulteriori informazioni sul volume: www.cssvp.com, alanark-@tiscali.it.

Alberto Ciampi



Fabrizio De André
tra memoria e presente

Tutti gli appassionati di Fabrizio De André conoscono sicuramente Romano Giuffrida per il suo documentario Faber, del 1999, fatto insieme a Bruno Bigoni oppure per il suo libro “De André: gli occhi della memoria (tracce di ricordi con Fabrizio)” del 2002 o, più probabilmente, per entrambi. Romano torna sul luogo del misfatto con un altro libro (De André che bella compagnia, disegni di Massimo Caroldi, edizioni Piagge, Firenze, 2014, pp. 240, € 11,00) dedicato a De André, pescando una citazione da Anime salve per il titolo (“che bello il mio tempo che bella compagnia”).
In realtà si tratta di una prosecuzione logica del libro del 2002, che viene riproposto integralmente, a cui è aggiunta una intervista/conversazione con Alessandro Santoro, prete nel quartiere e nella Comunità di Base delle Piagge (periferia di Firenze). Non si tratta, badate bene, di un ripescaggio con aggiunta di... qualcosa. È invece una vera e profonda evoluzione del pensiero e dell'atteggiamento di Romano, estremamente stimolante.
Per chi se lo fosse perso, ricordiamo che “gli occhi della memoria”, e quindi le prime 150 pagine circa di questo libro, ripercorrono la produzione di Fabrizio De André con il vissuto dell'autore, con una contestualizzazione puntuale degli anni di uscita dei vari album. Romano ripercorre con gli occhi della memoria la sua situazione di allora, gli avvenimenti, la lettura che ne dava De André e l'impatto su di lui con le sue riflessioni, spesso molto stimolanti. Questa parte, che ho letto con piacere, ripercorre molti dei pensieri che, sono sicuro, hanno attraversato la mente di chi, come me, ha visto il suo atteggiamento verso la realtà “ufficiale”, cambiare, evolversi. Piano piano la guerra, le prostitute, il potere, la morte, il suicidio, i diversi, i matti, i rom, le minoranze... sotto le parole sferzanti di De André, prendevano un significato nuovo, diverso, decisamente in direzione ostinata e contraria. Questo e molto altro potete (ri)trovare nella prima parte del libro “De André che bella compagnia”.
Bene, benissimo, direte. Cos'altro c'era da aggiungere? Gli occhi del presente. O meglio uno sguardo attento alla realtà. Romano racconta come, “inciampando” nella Comunità di base delle Piagge si è sentito rimettere profondamente in discussione. Il rione delle Piagge, “è il classico esempio di dormitorio urbano nato grazie alle disastrose politiche urbanistiche e sociali attuate dalle amministrazioni cittadine che si sono alternate alla guida della città tra gli anni Settanta e Ottanta. È in questo contesto che nel 1994 Alessandro Santoro, prete allora ventinovenne, decise di “giocarsi la vita” a fianco dei respinti, degli ultimi, dei minimi della storia come li chiama lui.” Partendo da un prefabbricato donato dalla Caritas, il prete ha creato un centro sociale dove esistono (prendete fiato!) “progetti di inserimento al lavoro destinati a ragazzi e adulti in situazioni di difficoltà, di marginalità sociale, di dipendenza; laboratori ludici, artistici, doposcuola, campi di animazione esitiva; spazi per il gioco dei bambini, centri di alfabetizzazione per bambini e ragazzi stranieri che frequentano le scuole elementari e medie; [...] corsi di lingua italiana per stranieri; il Fondo Etico e Sociale che svolge attività di microcredito; attività di commercio equo e solidale; EdizioniPiagge, la casa editrice alternativa; la promozione di cultura e di pratiche di consumo critico e di riciclaggio [...] E tutto questo attraverso la pratica dell'autogestione e quindi nella logica della responsabilizzazione collettiva.”
Questo incontro/inciampo ha chiaramente scombussolato Giuffrida, facendogli franare “gli ultimi residui di quella storia che mi ero raccontato e che mi aveva permesso negli anni del cosiddetto “riflusso” di dismettere gli abiti del “rivoluzionario” per indossare quelli, certamente più comodi, dell'indignato militante pronto alla vibrante protesta.” Questo incontro, secondo Romano, apre un solco irrevocabile tra la memoria (il passato) e il presente, frutto di tutti questi stimoli che la comunità gli ha dato.
Secondo Romano il prete incontrato alle Piagge corrisponde ad una citazione di Tonino Bello, che diceva: “Non fidatevi dei cristiani autentici che non incidono la crosta della civiltà. Fidatevi dei cristiani autentici sovversivi con san Francesco d'Assisi che ai soldati schierati per le crociate sconsigliava di partire...” ecco. È da queste considerazioni che Romano parte per avviare la seconda parte del libro, quella, appunto, dedicata ad un colloquio/intervista ad Alessandro Santoro.
In questa seconda parte tra i due si parla di temi che accomunano i due personaggi al terzo, il sempre presente De André. La prima domanda è decisamente rivelatoria di quello che sta per succedere. In pratica si tratta di verificare se la scelta del sacerdozio fatta da don Alessandro, comporti (come molti pensano) solo “risposte indiscutibili” oppure ci sia spazio per “liberare le nostre domande”. La risposta è quasi temeraria “Sono convinto infatti che ciò che priva le persone della libertà è soprattutto il confezionarsi risposte, o accettare di essere “confezionati” da risposte che uccidono la possibilità di creare varchi attraverso i quali, sia in entrata che in uscita, possa passare qualche cosa...”
Dopo la libertà e l'anarchia si passa alla guerra, alla “gente che muore e nessuno si domanda più perché...” dove Alessandro Santoro oltre che citare il messaggio del discorso della montagna (“Se saluti soltanto chi ti saluterà, che merito ne avrai? E se starai soltanto con quelli che sono simili a te, che merito ne avrai?”) nota come le persone che dalla vita hanno subito un impoverimento, sono quelle più sensibili a farsi delle domande, a differenza di chi si è ormai assuefatto e pensa solo a sé.
Ne “un telecomando al fosforo nascosto tra cuore e volontà” Romano sottolinea come la nostra società è spesso basata su un totalitarismo culturale, che fa in modo che non ci siano mai scelte veramente libere... qui nella risposta c'è una diretta citazione di Fabrizio De André, con la necessità assoluta di andare sempre in direzione ostinata e contraria...
De André entra spesso nei loro argomenti, perché Alessandro, che da quando aveva dieci anni cominciò a sentire queste canzoni dai dischi del fratello maggiore, racconta come ne fu subito colpito, per molti motivi... “crescendo ho cominciato a percepire in quelle parole una grande libertà dal punto di vista etico e morale. Io odiavo il giudizio, la morale sulle persone, ero istintivamente un libertario. Ecco, De André per me è stato illuminante, perché per la prima volta ascoltavo raccontare quelle storie, quei mondi, senza nessun tipo di giudizio, di stigma, di dogma.”
Gli argomenti si susseguono stringenti: ladri e tipi strani, mai giocare con gli zingari, le mille scritture del Libro del Mondo, quando si è cuccioli giocare alla lotta è normale, la morte che non muore mai, l'odio, la violenza..., Dio è stanco o troppo occupato quando non ascolta il nostro dolore?, gli occhi belli delle donne, tra gli altri uguali, la pietà in tasca, l'ingiustizia e le tranquille superbie di chi sta a guardare. Le risposte fanno sempre riflettere, ed aprono la mente ad altre domande....
Mi piace concludere con un bel pensiero di Alessando Santoro che, riferendosi alle persone della Comunità, fa una considerazione su Fabrizio che ben spiega il suo esserci: “De André è stato capace, in maniera assolutamente non retorica, assolutamente vera, di cogliere il lato più umano e più vero di questa umanità, di questa realtà, di queste persone.” In conclusione si tratta di un libro ricco di spunti di riflessione, mai superficiale, a tratti decisamente coinvolgente.

Walter Pistarini
www.viadelcampo.com



La devianza
come malattia?

Il saggio ben documentato di Chiara Gazzola (Fra diagnosi e peccato. La discriminazione secolare nella psichiatria e nella religione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 276, € 24,00) pone sotto la lente focale, in una dialettica passato-presente e in un'ottica globale, le interferenze delle istituzioni mediche e religiose nelle scelte dei singoli “ Da sempre esistono individui che hanno l'esigenza di sottrarsi all'omologazione. Troppo spesso le istituzioni interpretano i bisogni altrui attraverso giudizi dentro i quali si nasconde il potere per discriminare ed esercitare un controllo emotivo”.
L'autrice, di formazione antropologica, dimostra attraverso un approccio storico, sociologico, antropologico come la diversità sia considerata indice di irrazionalità e insensatezza, una minaccia al corretto funzionamento dell'ordine morale e sociale. Sottolinea il carattere ambiguo, soprattutto nell'ambito della classificazione delle malattie mentali in psichiatria: l'anomalia, come antitesi di normalità, è irretita da attributi morali. L'ambito psichiatrico contribuisce ad alimentare il nostro pregiudizio rispetto a ciò che per noi è alienazione mentale, follia. Per altre culture, invece, rappresenta l'esternazione di uno spirito che porta ad agire al di sopra della volontà delle persone, l'anomalia sociale è interpretata in funzione del bene della collettività e inserita in un contesto di credenze condivise.
Ogni cultura sviluppa i propri valori di riferimento attorno a ciò che desta meraviglia.
Per le società arcaiche, ogni deficit di salute è una carenza di armonia, un'interruzione del flusso vitale.
La curatrice o il curatore -strega, sibilla, sciamano, stregone- è figura ammantata da una sorta di “diversità” ed è indispensabile alla comunità, ma non ha potere decisionale. Il potere si fonda sul prestigio.
Lo studio della “cultura popolare” dimostra che la sopravvivenza collettiva dipende dalla condivisione del sapere, un forte legame con la natura e un vitale rispetto tra gli individui.
Per Joyce Lussu, la ricerca dovrebbe far uscire dal silenzio la “storia negata”. In particolare: “La storia della medicina popolare è un aspetto della storia generale che mette in rilievo l'inventiva e la creatività delle donne pur nella loro condizione subalterna”. Ancora: “Recuperare la storia delle donne nella storia generale dell'umanità vuole dire in primo luogo ritrovare la fiducia nelle capacità di costruire un avvenire diverso”.
La civiltà tecnologica, supportata dalla ricerca scientifica, ha dato un nome alla patologia e una logica razionale alla cura e ci ha inserito in un contesto di rottura dell'equilibrio.
Per un approccio alla terapia, la fiducia è indispensabile all'efficacia della cura stessa. Nella voce corale delle testimonianze raccolte, ricorre la richiesta di ascolto, conforto alla sofferenza. Si chiede Gazzola: “Quando la relazione tra individui è disturbata da burocrati, agenti di controllo e giudici o si attua all'interno di progetti nei quali il poter fare si basa su rapporti di forza, può avviarsi un rapporto di reciprocità?” Le ingiustizie evitabili generano un dolore spesso impossibile da accettare.
Il tentativo di risolvere una sofferenza è un percorso di resistenza interiore. Per Jacques Lacan, lo stato di crisi esistenziale mette nella condizione il “folle”, nel disordine del mondo, di imporre la legge del proprio istinto, che è la legge della libertà. C'è una sottile e discriminatoria linea di confine fra prendersi cura e gestire l'aiuto, come ben dimostra l' analisi su etnopsichiatria e flussi migratori, presentata nel terzo capitolo: quando l'aiuto si risolve nell'indirizzare la persona straniera ai servizi psichiatrici, anche una certificazione può tradurre una difficoltà esistenziale in una diagnosi. Così il pregiudizio può essere sintetizzato nell' “innata incapacità di adattamento alla cultura ospitante”.
L'assistenzialismo è il volto buono delle istituzioni totali. L'esclusione viene attuata ogni volta in cui si crea una categoria o una situazione che susciti scandalo, un risentimento sociale al quale si abbina una giustificazione “scientifica”. Le aree di studio dell'etnopsichiatria pongono attenzione ai fattori ambientali e sociologici, ma giustificano una cura farmacologica chiamando ogni conflitto con il nome di una patologia. Pertanto si esclude una soluzione attraverso un approccio culturale e relazionale.
Difficoltà di comunicazione e divergenze culturali si risolvono incanalando corpi e menti attraverso regole imposte. Quando testimonianze di donne stuprate ricoverate in ospedale psichiatrico vengono smentite dai responsabili della violenza, si ricorre alla diagnosi di “delirio di persecuzione”. Allo stesso modo, il lessico psichiatrico traduce un'esperienza drammatica in un disagio da curare, così il timore di essere fraintese si trasforma in una sofferenza inascoltata.
Il saggio riflette altresì sulla non completa comprensione, da parte di osservatori esterni, delle esigenze con le quali culture subalterne plasmano la propria spiritualità. Ne scaturisce l'esigenza di imporre uniformità e consenso rendendo “omogenea” ogni spiegazione, credenza o scelta etica. La Chiesa, con la contrapposizione tra anima e corpo, da sempre ha indotto a disprezzare i bisogni di quest'ultimo. Il Malleus Maleficarum sarà lo strumento ideale degli inquisitori per la caccia alle streghe, personificazioni di tutti i mali del mondo, validi capri espiatori per l'unica entità politico-religiosa mediatrice verso il bene. In seguito, nuove esigenze di razionalità formuleranno definitivamente la devianza in termini di malattia. Con il tempo, il termine “isteria” si diffonderà anche negli organi di informazione attuali, fino a definire “manifestazioni isteriche” azioni di protesta dei movimenti dell'antagonismo sociale. Estasi e visioni si tradurranno in “deliri dell'ascesi”, a donne che abbiano ricevuto la canonizzazione della santità verrà abbinata una diagnosi di isteria e nevrosi.
Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, tra i vizi capitali, il peccato teologico dell'accidia -abbattimento, pigrizia - è dovuto a un venir meno della fede per un'assuefazione dei piaceri esteriori. E se in altre culture il vuoto emotivo è “ozio creativo”, la psichiatria lo cura come depressione. Pur in assenza di risultati esaustivi delle ricerche neuroscientifiche, per le donne si continua ad asserire una maggior predisposizione dovuta a componente ereditaria genetica. Gazzola evidenzia come si trascuri il condizionamento culturale in una società contraddittoria omologante, nella quale è facile percepirsi inadeguate, soprattutto se il contesto affida valore a una persona solo per il ruolo che svolge.
Ancora: la religione istituzionalizzata sintetizza in superstizione ciò che la psichiatria riconduce a malattia. Ne sono un esempio i riti, dalla forte valenza simbolica, elaborati nelle culture popolari: dal tarantismo salentino alla possessione dell' argia in Sardegna, dai culti agrari, alle cerimonie vudu - ormai sparse in tutto il mondo - alla macumba brasiliana e all'hadra magrebina, capaci di allontanare spiriti maligni con musica e danze vorticose.
Nelle conversazioni riportate a conclusione del saggio - pregevole quella con Giorgio Antonucci - Michela Zucca, antropologa, commenta: “La condivisione, la solidarietà, la spinta ideale collettiva aiutano a superare le sofferenze individuali. Se una persona è coinvolta e impegnata in un progetto riuscirà più facilmente a non cadere nel malessere: in questo senso la lotta è terapeutica”.
Giorgio Antonucci, medico, in Diario dal manicomio scrive: “Non è detto che una persona debba attenersi per forza alla vita empirica invece che essere fantasiosa, specialmente se il sognare a occhi aperti le è utile per vivere, e non è detto che debba rispettare i pregiudizi e le convenzioni della società quando queste le divengono intollerabili”.
Un saggio, dunque, degno di interesse e attenzione per la rinnovata fiducia riposta nella capacità di elaborazione insita nel nostro pensiero: “Quando il desiderio di libertà ispirerà l'elaborazione emotiva e la volontà di riscatto, abbracceremo le nostre utopie riqualificando l'esistenza”.

Claudia Piccinelli



Geoffrey Ostergaard,
l'anarchico gentile

Pilota della RAF “convertito” all'anarchismo durante la seconda guerra mondiale, docente universitario, pubblicista, attivista per la pace e il disarmo, Geoffrey Ostergaard (1926-1990) è stato negli anni del dopoguerra un protagonista del rinnovamento del movimento anarchico inglese e, per oltre 30 anni, un suo esponente di punta. Ha collaborato regolarmente a Freedom, Anarchy, The Raven e Peace News. È stato inoltre un apprezzato amministratore dei Friends of Freedom Press e della Commonweal Collection, una biblioteca indipendente specializzata nei temi della pace e del cambiamento sociale nonviolento. Il suo pensiero è il frutto di un'originale ibridazione tra la tradizione anarchica occidentale (Kropotkin e Landauer, soprattutto) e la nonviolenza di ispirazione gandhiana, di cui Ostergaard ha messo in evidenza gli aspetti libertari. In un commosso ricordo pubblicato su Freedom il 24 marzo 1990, Colin Ward ha sottolineato la sua coerenza e forza morale, la sua strenua difesa della libertà di pensiero e di insegnamento, la sua ironia nei confronti delle assurdità del mondo accademico e la sua capacità di analizzare senza pregiudizi ideologici la realtà.
Le ricerche di Ostergaard si sono concentrate soprattutto sulla storia del movimento operaio e socialista britannico e sui movimenti gandhiani e post-gandhiani in India, di cui è stato uno dei più profondi conoscitori e su cui ha scritto due volumi fondamentali, The Gentle Anarchists (1971) e Nonviolent Revolution in India (1985). Da segnalare anche Latter-Day Anarchism: The Politics of the American Beat Generation (1964), uno studio pionieristico sullo stile di vita libertario e il messaggio anarchico dei beatnicks americani.
Una raccolta dei suoi scritti di impronta anarco-sindacalista, The Tradition of Workers Control, e il pamphlet anarco-pacifista Resisting the Nation State, sono scaricabili liberamente ai seguenti indirizzi:
https://libcom.org/history/tradition-workers-control-geoffrey-ostergaard
http://www.ppu.org.uk/e_publications/dd-trad8.html
L'articolo che presentiamo, pubblicato per la prima volta in Anarchy. A journal of anarchist ideas, n. 20, ottobre 1962, con il titolo Anarchism: contracting other relationships (L'anarchismo: sviluppando altre relazioni), rappresenta un'interessante sintesi del suo pensiero.

Ivan Bettini


Fin dai giorni di Marx, e in gran parte proprio a causa dell'influenza di Marx, il socialismo è stato concepito in termini di proprietà. Almeno fino a poco tempo fa, infatti, un socialista veniva definito come uno che crede nella proprietà comune, solitamente nella proprietà statale, in quanto opposta alla proprietà privata. Tuttavia, con l'esperienza della Russia, e non solo di questo paese, a farci da guida, sta diventando sempre più evidente, come è sempre stato evidente per gli anarchici, che un semplice cambio di proprietà non produce un cambiamento radicale nelle relazioni sociali. Quando la proprietà comune prende la forma della proprietà statale, infatti, tutto ciò che accade è che lo Stato diventa il datore di lavoro universale, e le possibilità che si instauri una tirannia sono moltiplicate dall'unione, nelle stesse mani, del potere economico e di quello politico. I valori che soggiacciono al capitalismo non sono cambiati: il lavoratore rimane essenzialmente una cosa, una merce, un'unità di lavoro. Egli ha solo cambiato una classe di padroni – i capitalisti – con un'altra classe di padroni –i burocrati politici e amministrativi.
Un cambio di proprietà nei mezzi di produzione è probabilmente una condizione necessaria per passare da un ordine sociale capitalistico ad uno cooperativo, ma non è –come la maggior parte dei socialisti ha ritenuto erroneamente- una condizione sufficiente.
Ciò che è importante per l'operaio non è chi possiede la fabbrica in cui lavora, ma “le condizioni materiali e concrete del suo lavoro, la relazione con il suo lavoro, con i suoi compagni operai e con chi dirige la fabbrica” (E. Fromm).
È per questa ragione che gli anarchici rimangono convinti sostenitori del controllo operaio dell'industria- una condizione in cui tutti parteciperebbero in modo paritario a determinare l'organizzazione delle loro vite lavorative, in cui il lavoro diventerebbe attraente e ricco di significato, in cui non sarebbe il capitale a impiegare il lavoro ma il lavoro ad impiegare il capitale.
L'anarchismo - qualcuno potrebbe obiettare- funziona molto bene nella teoria ma fallisce, o fallirebbe, nella pratica. Gli anarchici, tuttavia, non accettano questa implicita opposizione tra teoria e pratica: una buona teoria, infatti, conduce ad una buona pratica, e una buona pratica è basata su una buona teoria. Non dico che agire da anarchico sia facile: la tentazione di agire in modo autoritario -imporre soluzioni invece che affrontare e risolvere insieme le difficoltà- è sempre molto grande. E può anche essere che, almeno nel breve periodo, le organizzazioni di carattere autoritario siano più efficienti nei loro risultati. Ma l'efficenza -esaltata tanto dai capitalisti che dai socialisti moderni- è solo uno dei valori, e per essa si rischia di pagare un prezzo troppo alto.
Più importante dell'efficienza è la dignità dell'individuo responsabile, e non si dovrebbero cercare soluzioni a quella che viene comunemente definita “la questione sociale” che non siano rispettose della dignità e della responsabilità dell'individuo.
Il compito di un anarchico non è tuttavia quello di sognare la società futura. Piuttosto è quello di agire quanto più possibile in modo anarchico all'interno della società attuale: evitare il più possibile situazioni in cui sia costretto ad obbedire o a comandare, e impegnarsi a costruire relazioni di cooperazione reciproca e volontaria tra gli esseri umani suoi compagni.
Nel mondo moderno lo Stato è la più importante manifestazione del principio di coercizione. Dunque, per raggiungere l'anarchia, lo Stato deve essere eliminato. Ma sarà eliminato nella misura in cui gli uomini diventeranno capaci di vivere senza di esso. Come ha detto l'anarchico tedesco Gustav Landauer, “lo Stato è una condizione, una particolare relazione tra gli esseri umani, una modalità di comportamento. Noi lo distruggiamo contraendo relazioni di altro tipo, comportandoci in modo diverso”.
In ultima analisi, un anarchico non è una persona che sottoscrive un particolare corpo di dottrine o un insieme di principi. Un anarchico è una persona che si comporta, o si sforza di comportarsi, in modo diverso-in un modo che consiste nel rispettare l'individuo che è presente in tutti gli esseri umani.

Goffrey Ostergaard
traduzione di Ivan Bettini



Il potere sovversivo
dell'immaginazione

In questi giorni, vedendo, tra le tante immagini raccapriccianti che scorrono sul video durante i telegiornali, gruppi fondamentalisti dell'Isis prendere a picconate interi musei e siti archeologici in Irak, ho pensato che quella non era altro che la cuspide (la parte condivisa come negativa un po' da tutti) di un processo di devastazione culturale più subdolo che accade ovunque e a cui pochi, invece, oppongono resistenza.
Ovunque è in atto un processo di controllo attraverso l'annullamento del pensiero critico individuale che, come ben sappiamo, si forma culturalmente. C'è addirittura chi dice che a confronto di questo la schiavitù era un'impresa ingenua, perché ora stanno lavorando alacremente per renderci sempre più, e in sempre più gran numero, “oggetti” dello sviluppo, con il corpo ma anche e soprattutto con le emozioni e con l'intelletto. Oggetti partecipi volontariamente, complici sottomessi e adattati alla megamacchina.
Pensavo a questo e mi venivano in mente le genti del Rojava – soprattutto le donne - con quel loro meraviglioso progetto di vita per cui – e non certo solo per difendersi – vale la pena combattere. Sono state quelle donne a ricordarmi un libro, uscito in Italia circa dieci anni fa, assolutamente attuale oltre che bello.
Contro ogni buona regola che insegna come si facciano recensioni ai libri freschi di stampa, è proprio di quello che voglio parlare. Se per qualcuno sarà una rilettura, questo non farà altro che confermare il valore dello scritto.
Sto parlando di Leggere Lolita a Teheran (Adelphi, Milano, 2004, pp. 379, € 18,00) della scrittrice iraniana Azar Nafisi, uscito per quelli di Adelphi nel 2003 e di cui ora si trova anche l'edizione economica. Lo riapro a caso e trovo queste parole sottolineate: “La migliore letteratura ci costringe sempre a interrogarci su ciò che tenderemmo a dare per scontato, e mette in discussione tradizioni e credenze che sembravano incrollabili. Invitai i miei studenti a leggere i testi che avrei loro assegnato soffermandosi sempre a riflettere sul modo in cui li scombussolavano, li turbavano, li costringevano a guardare il mondo, come fa Alice nel paese delle meraviglie, con occhi diversi.”
È stata, per me, una lettura appassionante di un libro appassionato, scritto bene, con partecipazione e sentimento, un libro avvincente come fosse un romanzo e che romanzo non è, perchè è storia vera. Storia personale dell'autrice, iraniana e insegnante universitaria di Letteratura Inglese a Teheran, in quella che divenne, ed è tuttora, Repubblica Islamica dell'Iran.
Non è un romanzo ma parla di romanzi e della vita di tutti quegli studenti che insieme alla loro insegnante condivisero la passione per la letteratura rischiando sulla propria pelle, in una realtà che arrivò a proibire l'insegnamento della letteratura e a mettere al bando il libri.
“Il romanzo per sua stessa costituzione dà voce a una molteplicità di punti di vista diversi, a volte opposti, in un rapporto di dialogo e scambio reciproco, senza che una voce distrugga o elimini l'altra. Esiste forse una sovversione più pericolosa di questa democrazia delle voci?”
È un libro d'amore, amore per l'arte, la bellezza, la libertà e la dignità degli esseri umani. Un libro interessante da cui partire per riflettere sulla differenza tra i luoghi dove la proibizione è violenta, plateale, e il nostro, della capillare, occulta, persuasione quotidiana, apparentemente senza proibizioni. In Leggere Lolita a Teheran non si parla della libertà di scrivere ma della libertà di leggere, di esprimere le proprie emozioni e reazioni a ciò che si è letto, del diritto di immaginare e di realizzare il tipo di vita che si desidera vivere. ”La ricerca di conoscenza può diventare pericolosa, può stuzzicare il nostro senso di ribellione, quel desiderio invincibile che rovescia tutte le convenzioni e trasforma qualunque affermazione in un punto interrogativo”. Perché, come ci ricorda Nabokov, ”la curiosità è insubordinazione allo stato puro”.
Il libro inizia col racconto di quando, essendole proibito l'insegnamento all'università, l'autrice organizzò degli incontri di studio settimanali, nel soggiorno di casa sua, per un gruppo di studentesse. Di come leggere Lolita nella Teheran degli ayatollah abbia dato un nuovo significato al libro, di come la storia letteraria entrasse nella realtà di quelle giovani donne costrette a nascondersi per studiare, di come le parole di quello e altri libri divennero sostegno morale negli anni di prigionia e soprusi che alcune di loro dovettero subire per la colpa di essere donne intelligenti.
Dopo il romanzo di Nabokov: Il grande Gatsby di Scott Fitzgerald, Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, le opere di Henri James... e tutti riprendono vita e attualità attraverso le storie delle molteplici figure - soprattutto femminili ma non solo - che parteciparono alle lezioni domestiche della Nafisi. Realtà del romanzo e realtà della vita si influenzano reciprocamente grazie al puro, sensuale e genuino piacere di leggere, scoprendo i molteplici livelli di opere che non si limitano a riflettere la realtà ma ne svelano la verità. In nessuno di quei classici della letteratura europea si critica o si fa riferimento alla repubblica islamica eppure, per loro stessa costituzione, si trovano ad andare contro l'essenza di tutte le mentalità totalitarie.
“E anche noi, come Lolita – ed era la cosa peggiore di tutte – finivamo per sentirci in colpa, come fossimo complici dei crimini che venivano commessi contro di noi. Il semplice gesto di uscire di casa ogni giorno diventò una bugia colpevole e complicata, perché significava mettere il velo e trasformarsi così nell'immagine di un'estranea, come lo Stato ci richiedeva. [...] Avevamo bisogno di ricreare noi stesse. Per ricostruire la nostra identità sequestrata e salvare la nostra integrità individuale, dovevamo resistere all'oppressore usando le nostre risorse creative. [...] La resistenza in Iran è arrivata a nutrirsi non solo dei violenti scontri, non solo di proteste e rivendicazioni politiche, ma anche del rifiuto di adeguarsi da parte dei singoli individui, del rifiuto di essere trasformati in un prodotto dell'immaginazione del regime”.
Risorse creative, rifiuto di adeguarsi, rifiuto di essere trasformati in un prodotto immaginato da altri: l'attualità è evidente, anche per noi.
Col suo libro la Nafisi non vuol certo dirci che la letteratura basti a salvare dalla brutalità delle tirannie e nemmeno dalla crudele banalità della vita, ci racconta di quelle persone che quando si trovarono a dover sottostare alle peggiori umiliazioni, quando si videro togliere quello che dava loro valore e integrità, si aggrapparono istintivamente alle creazioni dell'immaginazione, a ciò che si appella al senso della bellezza, dell'armonia, della memoria, celebrando quel che è umano, originale e unico.
Le ragazze di cui Azar Nafisi ci parla - alcune delle quali dalle prigioni iraniane non sono più uscite - raccontano proprio di questo, come prima di loro fecero grandi autori quali Primo Levi e Osip Mandel'stam, e per loro studiare un autore come Nabokov significò comprendere le verità che si nascondono dietro affascinanti facciate. La verità che dice come i mostri spesso siano abili e seducenti camuffatori, uomini di Dio ad esempio, come i religiosi dell'Iran che uccidono e torturano parlando di religione.
Leggere – e rileggere - Lolita a Teheran è uno di quei gesti utili affinchè la possibilità di cambiare si mantenga viva dentro ognuno di noi, attraverso il mutare dei tempi e col passare degli anni, insieme a quello spirito di libertà che esige il reciproco ascolto e la consapevolezza che nulla di ciò che esiste è mai assoluto e tutto ha sempre un'infinita possibilità di mutamento, a cui noi possiamo contribuire grazie al potere sovversivo dell'immaginazione.

Silvia Papi