Rivista Anarchica Online





Islam, ebraismo, cristianesimo/Violenza e aggressività

Volendo andare oltre l'ovvio orrore che si prova di fronte alle immagini che ci arrivano dalle zone controllate dall'Isis, oltre all'insopportabile efficienza mediatica mostrata dai fanatici guerriglieri (che sanno fin troppo bene come colpire le coscienze, non sempre pulite, degli occidentali), oltre alla superficiale e invasiva informazione della stampa e della televisione in Italia, oltre alle anche condivisibili ma scontate ed ipocrite parole di condanna della classe politica e infine addirittura volendo ignorare il cui prodest?, direi talmente scontato da non meritare commenti, non rimane altro che parlare degli aspetti religiosi della faccenda cioè della sponda che, da sempre, le religioni offrono alle prevaricazioni e alla violenza.
Qualcuno, in buona fede, può negare che le tre religioni del libro siano storicamente le più bellicose o perlomeno quelle più facilmente strumentalizzabili per scopi violenti? Qualcuno, in buona fede, può negare che nei testi sacri delle tre religioni monoteiste ci siano maggiore aggressività e violenza di quanto non se ne trovino per esempio nei testi delle religioni orientali? - che sono effettivamente più prassi volontaria che culto.
Può essere che ritenersi depositari di una verità rivelata comporti inevitabilmente ritenere gli altri in errore ovvero inferiori e, nella migliore delle ipotesi, meno degni di considerazione? Sentirsi depositari dell'unica verità può comportare il sentirsi facilmente offesi da qualunque espressione di dubbio? Può essere per caso questa la giustificazione di ogni violenza? Se gli dèi fossero molti (e fosse proprio impossibile che non ce ne fossero per niente) non verrebbe meno il motivo per affermare che quelli degli altri sono falsi dèi o addirittura demoni? Se venissero adottati alcuni schemi mentali propri del politeismo, oppure se si affermassero tendenze sincretiste, potrebbe ridursi il tasso di conflittualità?
Dopo queste domande però si impone una affermazione che non è altro che una constatazione giustificata dalla esperienza purtroppo non solo in campo religioso: la ritenuta sacralità delle proprie opinioni porta all'annullamento del senso critico e di un sano senso dell'umorismo. Basta aprire a caso il Corano o la Toràh (Antico Testamento o Bibbia per i cristiani) per avere buone probabilità di incappare in passi assai violenti e aggressivi.
Nei testi sacri si può trovare tutto e, come si dice, il contrario di tutto, molto di buono e tanto di malvagio ma in forma spesso criptica e vaga da giustificare qualunque strumentale interpretazione. Nel Corano la sura XXXIII (25-27) racconta della sorte toccata alla tribù israelita banu Qurayza (accusata di tradimento): “[...] una parte ne uccidevate e una parte ne riducevate in prigione. E vi ha fatto (Dio) ereditare le loro terre, le loro case”.
E tutto ciò nonostante l'influsso ebraico sull'origine dell'Islam fosse stato importantissimo e ancora nonostante sia storicamente provata la pacifica esistenza delle comunità israelitiche all'interno dei territori assoggettati all'Islam cui si deve la conservazione di importanti documenti talmudici vietati e persino bruciati, nella medesima epoca ma in altri luoghi, dalla censura cristiana.
La sura XLIV (34-59) descrive invece in modo meticoloso ciò che aspetta i “politeisti della Mecca”: “Allora la pianta zaqqum sarà cibo del peccatore - come feccia d'olio ribollirà nei ventri - siccome bolle l'acqua calda”.
Si deve però onestamente riconoscere come nella sura VI, elencando i Comandamenti divini, sia fatto esplicito divieto di uccidere. “[...] perché Iddio ha proibito di uccidere”. Ma, ahimè, subito dopo si aggiunge: “[...] se non per giusta causa”. Ovvio è che se per giusta causa si intende per esempio la legittima difesa tutti possiamo essere d'accordo così come, con metro laico e ottocentesco, se intendiamo la soppressione di un tiranno per evitare lutti e sofferenze ai più. Ma essendo l'affermazione vaga e la casistica infinita, chi stabilisce “la giusta causa”? A questo punto il criterio diventa assai elastico.
Qualche indulgenza viene effettivamente concessa ai “cugini monoteisti” tanto che alla “Gente del Libro” (ebrei e cristiani) è consentito di vivere entro i territori controllati dai musulmani mantenendo la propria religione a patto però che si riconosca l'autorità musulmana da cui si riceve protezione (e per gli altri, credenti e non, cosa è previsto?).
D'altro canto la Bibbia non è da meno. Nel secondo libro dei Re, per esempio, si narra della persecuzione del “culto di Ba-al” (condiviso anche da molti del popolo di Israele). Il massacro, voluto e suggerito dal dio di Abramo, all'interno del tempio eretto da Acab in onore del dio Ba-al avviene dopo che, con l'inganno, i devoti vengono convocati da Iehu che finge devozione al “diabolico” Ba-al.
C'è da dire però che nelle Tavole della Legge consegnate a Mosè, alla voce “non uccidere”, non vengono ammesse eccezioni di sorta, ma, ahimè, le eccezioni sono nella pratica tanto che nell'Antico Testamento gli ammazzamenti e le violenze, giustificate dalla divinità, sono innumerevoli. Nel Talmud Babilonese Mosè, un poco confuso dall'ondivaga giustizia del Signore, chiede: “Signore del mondo perché vi sono giusti la cui sorte è buona e altri giusti la cui sorte è cattiva? E ci sono malvagi la cui sorte è buona e altri la cui sorte è cattiva?”. La risposta del Signore è un capolavoro di logica giustificatoria ed un mirabile esempio di applicazione della proprietà transitiva... a sprazzi.
Udite! “Il giusto la cui sorte è buona è figlio di un giusto mentre il giusto la cui sorte è cattiva è figlio di un empio. Un malvagio la cui sorte è benigna è figlio di un giusto mentre un malvagio la cui sorte è cattiva è figlio di un empio”. Insomma per il figlio dell'empio, virtuoso o peccatore che sia, non v'è speranza né possibilità di riscatto perché “Egli punisce le colpe dei padri sui figli” (Esaù).
Il malvagio figlio del giusto a volte può godere invece di un certo credito pregresso.
In seguito, effettivamente, il ragionamento è mitigato da una citazione del Deuteronomio in cui si afferma l'esatto contrario ovvero che “[...] i figli non moriranno a causa dei padri”.
Che pensare? Con logica umana delle due una!
È vero però che frequentemente gli ebrei, a cui un po' di senso critico e humor è pur rimasto, tendono a correggere polemicamente le avventate affermazioni dei Profeti forse mal interpretate dall'uditore di turno. Non va meglio ai cristiani, neo-testamentari, se vogliamo dar retta a San Paolo. Infatti nella I lettera a Timoteo è scritto: “Noi sappiamo che la Legge (del Signore) è buona se usata quale legge (in senso giuridico) e con la consapevolezza che la legge non si forma per il giusto ma per gli iniqui, gli insubordinati, gli empi e i peccatori, i sacrileghi e i profani, parricidi e matricidi, omicidi, dissoluti, invertiti, sequestratori, mentitori, spergiuri e quanto altro si oppone al sano insegnamento conforme all'Evangelo glorioso del Dio beato, a me affidato”. È la Legge, la “regola divina”, che diventa giurisprudenza cioè regola civile e stabilisce comportamenti leciti e illeciti ovvero perseguibili, sia pubblici che privati, e in modo molto discrezionale. La persecuzione (crociate, inquisizione, uccisioni di pagani ed infedeli e altro) diventa allora giustificata, e premiata, in base alla violazione di regole non condivise ma rivelate e quindi imposte e accettate senza discussione.
Nel mondo antico e ancora oggi in molti paesi a maggioranza musulmana il concetto religioso non è distinto dalla cultura politica né dalla amministrazione dello stato.
Negli stati musulmani in passato, va detto, la legge islamica è stata però ovunque integrata dal “diritto consuetudinario” tanto che in termini di storia del diritto si può affermare che la “sharia” non è mai esistita. Nel corso della storia, infatti, i musulmani hanno sempre definito la rettitudine sulla base di parametri pratici (ortoprassi) più che dottrinali (ortodossia): i fedeli che dissentivano dalla maggioranza su questioni politiche o teologiche erano di solito tollerati, a patto che la loro condotta sociale ubbidisse ai codici morali generalmente accettati. Ciò era applicato come già visto anche ai fedeli delle altre religioni del libro ma non ai pagani e ai senza dio.
Nei paesi a maggioranza cristiana invece la coincidenza assoluta (qui sì!) tra comportamento civile e dettame religioso ha comportato purtroppo intolleranza, condanne e persecuzioni. Solo nel XVIII secolo il pensiero illuminista rompe questo schema influenzando in modo definitivo lo sviluppo del pensiero filosofico-politico occidentale. Quindi le leggi dello stato e della convivenza non necessariamente coincidono con le regole religiose riguardando le prime la sfera privata e personale e le seconde la sfera pubblica. Le seconde diventano obbligatorie mentre le prime sono “facoltative” e proprie di persone pie e devote fino a quando non confliggono con le regole della convivenza.
Le leggi dello stato diventano il riferimento ed il metro di accettazione anche dei comportamenti religiosi ma resistono ancora come legge, in alcuni ordinamenti occidentali, gli orientamenti religiosi in termini di comportamenti eticamente sensibili (aborto, divorzio, eutanasia, vilipendio della religione, monogamia, ecc.).
Non molti anni or sono il presidente degli Stati Uniti, G. W. Bush, esprimeva dubbi addirittura sul diritto di dichiararsi cittadini statunitensi di atei e credenti in altre religioni diverse dal cristianesimo.
Gli ultimi avvenimenti hanno aumentato da parte occidentale i richiami all'illuminismo come mitigatore degli eccessi religiosi in virtù del quale il cristianesimo, quasi assumendosi (in modo arbitrario) il merito del pensiero illuminista, è tollerante mentre le altre religioni invece no. Addirittura oggi prevale nei mezzi di informazione occidentale la tendenza a ritenere che la critica illuminista alle religioni fosse riferita agli “altri” mentre è noto che proprio al cristianesimo era riferita se non altro per la maggiore conoscenza di questa confessione da parte dei filosofi e anche per esperienza diretta.
Valga a questo proposito il motto di Montesquieu: “la religione cristiana se non è divina certamente è assurda”. Ma ciò è applicabile a tutte le religioni tanto che Voltaire sosteneva che “le verità religiose non vengono mai comprese tanto a fondo come da chi ha perso l'uso della ragione”.
Alla luce di ciò c'è da chiedersi se, per caso, chi ha perso l'uso della ragione non sia proprio il più manovrabile e disposto al fanatismo. I testi sacri delle religioni monoteiste sollecitano alla imitazione della divinità o dei profeti o dei santi. Per i fedeli neo-testamentari la “Imitatio Christi” significava imitare la sofferenza di Cristo e adottare, idealmente, il suo vangelo d'amore.
Nel Nuovo Testamento non ci sono indicazioni circa il modo di vestire di Gesù o sul suo regime alimentare né si descrive il suo modo di camminare quindi non ci sono descrizioni del comportamento generale del Cristo benchè la sua immagine sia stata trasmessa attraverso l'iconografia, così come quella di Buddha o di numerose divinità induiste.
Possiamo allora sostenere che ai cristiani venga richiesta una imitazione ideale con l'obiettivo di perseguire la virtù mentre la islamica “Imitatio Maometti” significava (e forse significa) invece seguire l'esempio del Profeta in ogni particolare della sua vita, dalla condotta etica al modo di vestire, alla alimentazione.
Con “superficiale pragmatismo materialista” ho sempre ritenuto che le regole spicciole contenute nel Vecchio Testamento o nel Corano fossero dettate da pratiche ragioni ambientali o di comune convenienza quotidiana o ancora funzionali alla convivenza o per la legittimazione del potere politico. Mi è però difficile intendere la ragione della imitazione, pura e semplice, dei gesti o del modo di vestire o delle abitudini alimentari del profeta che non mi pare siano di per sé necessarie al perseguimento della virtù.
Negli “Hadith”, intesi come tradizioni o raccolte di aneddoti sul profeta (generalmente trascritti da fonte orale), sulla cui validità gli studiosi islamici discutono ponendo più attenzione sulla attendibilità della fonte che non sulla plausibilità e coerenza della storia, sono riportati con dovizia di particolari gesti, abitudini e dettagli quotidiani riferiti al Profeta. Nel testo “Vivificazione delle scienze religiose” (Il Cairo, senza data, Vol. II, pp. 300-44) si cita dal Corano (sura III,31) “Dì: se veramente amate Dio seguite me e Dio vi amerà” e ancora (sura LIX,7): “Quel che vi darà il Messaggero, prendetelo, e quel che vi vieterà, astenetevene”. Sembra che queste frasi richiamino idealmente alla pratica della virtù e alla sobrietà (richiamo encomiabile) se non fosse che poco oltre si precisa (assai prosaicamente): “Ciò significa che quando ti infili i pantaloni devi sederti, quando ti avvolgi il turbante devi stare in piedi e quando ti metti le scarpe devi cominciare dal piede destro”.
Va bene che nulla deve essere preso alla lettera e che tutto va interpretato nonché contestualizzato, ma questo mi pare davvero “in-interpretabile” nella sua insignificante banalità e anche pericoloso perché potrebbe innescare forme imitative acritiche. Come se non bastasse, anche i particolari della vita del Profeta (il taglio della barba, gli abiti che indossava, i cibi che preferiva), così come riportato nei “Hadith”, diventano modello per i fedeli.
L'aglio, i manghi o i meloni vanno evitati perchè pare non piacessero al Profeta o perché da nessuna parte risultava che ne avesse mangiati, vanno benissimo invece il miele ed il montone di cui pare il profeta andasse ghiotto. Poi ancora: i cani erano considerati sporchi perché, secondo un famoso “Hadith”, “Gli angeli non entrano in una casa in cui ci siano cani o statue” mentre i gatti erano ben visti perché, avrebbe detto il Profeta, onorano le dimore umane.1
È ovvio che qui, come in tutte le pratiche religiose popolari, ci troviamo di fronte al tentativo di assegnare ad ogni azione o fenomeno, per ragioni propiziatorie o scaramantiche o ancora punitive e biasimevoli, una causa o una manifestazione trascendente e magica in base a canoni culturali che oggi stentiamo a riconoscere, ma che con una parola definiamo “superstizione”.

Sergio Saggi
Villanova di Bagnacavallo (Ra)

1. Malise Ruthven, Islam, Einaudi, Torino, 1999.



Noi invisibili, la mafia, lo Stato

Il primo articolo della costituzione italiana recita: “L'italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”; a proposito, avete letto bene, ho scritto italia con la lettera minuscola, d'altronde un paese che non rispetta i più deboli, non merita rispetto dagli stessi. La seconda parte dell'articolo tre recita: “È compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano, di fatto, la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Come avrete ben capito, si parla della partecipazione alla vita politica, economica e sociale di tutti i lavoratori ai quali, essendo tali, è consentito il pieno sviluppo della propria persona. Come dire: gli inoccupati, i lavoratori in nero, i barboni e i “nuovi poveri”: padri di famiglia divorziati, spesso precari, donne separate inoccupate, donne sole senza lavoro, che lo spoliticare dei politicanti ha causato non possono partecipare, in quanto invisibili, alla vita sociale del paese perché sono dei “sottosviluppati”, che non hanno potuto accrescere la loro persona in mancanza di un lavoro che non gli è stato garantito dal paese, come prevede la costituzione.
In compenso ciò che questa specie di stato ci richiede, è quello di votare per dare la possibilità ai politicanti di raggiungere l'agognato potere. In pratica noi, appartenenti alle fasce più deboli, non esistiamo per il paese in cui viviamo, siamo soltanto degli zombie che deambulano, in alternativa, siamo dei sottosviluppati ai quali non viene riconosciuta nemmeno la pensione d'invalidità. È evidente che sia il primo che il terzo articolo della costituzione italiana sono violati quotidianamente.
Il divario sociale che c'è in questo maledetto paese denuncia un ulteriore depauperamento dei poveri. La maggior parte dei professionisti di alto livello, oggi più che mai, provengono dalle classi borghesi perché la classe operaia, oramai, non si può permettere di fare studiare i figli ai quali l'unico futuro che loro spetta è quello di lavoratori (quando sono fortunati) precari, o ancor peggio di lavoratori in nero senza inquadramento sindacale. Questa situazione garantisce loro un “non futuro” o meglio, un futuro di povertà assoluta.
Nella maggior parte dei paesi europei esiste un sussidio sociale erogato anche agli inoccupati, ai quali, dopo che hanno rifiutato la terza proposta di lavoro, da parte degli uffici di collocamento, viene tolto questo diritto, e mi sembra anche giusto! Il nostro “beneamato” paese, non solo non ci garantisce nulla, ma ha il coraggio di etichettarci come dei bamboccioni. Questo epiteto mi sembra più adatto ai rampolli della borghesia che continuano a vivere a casa dei genitori. I figli dei poveri che alternativa hanno? Oltretutto il “beneamato” paese pretende dagli inoccupati, che stanno a casa degli anziani genitori con pensione minima, a volte con un solo genitore vivente che, seppur con sacrifici hanno una casa di proprietà, il pagamento dei ticket sanitari per usufruire dei servizi poiché secondo l'assurda legge di questo paese la casa anche se è la prima e unica, per quanto vecchia possa essere, fa reddito, come se la gente si nutrisse delle mura di casa.
Questa assurdità non fa altro che causare morti gratuite, allora mi dite voi come può un inoccupato fare prevenzione senza che abbia un minimo di reddito? Io penso che la povertà sia un vero e proprio business non solo per lo stato ma, anche, per la chiesa. Lo stato, nelle vesti dei politicanti, mangia i soldi destinati alle politiche sociali, la chiesa accumula il denaro dei fedeli illudendoli di aiutare i deboli. Spesso certi borghesacci erogano l'elemosina ai questuanti che s'imbattono in loro, così facendo credono di essere a posto con la propria coscienza. Per un verso o per l'altro noi poveri siamo il bancomat pseudo-spirituale dei ricchi che si illudono di essere generosi perché somministrano elemosina a destra e a manca. Ora basta!
Ci dobbiamo svegliare o meglio, dobbiamo far sentire la nostra voce, dobbiamo entrare nell'ottica di chi ha subìto un danno materiale e morale poiché la mancanza di lavoro lede pesantemente la dignità e a volte, riprendendo il discorso sopracitato, uccide. Chi calpesta la dignità del proprio popolo, la deve pagare in tutti i “sensi” o meglio deve essere estromesso per sempre dalla vita politica. Nel paese in cui viviamo si pensa a dare ai pochi che hanno, come nel caso dei famosi 80 euro, erogati agli impiegati, ai salariati e chissà a quali altre categorie, piuttosto che erogarli a chi ha un reddito personale pari a zero, come i molti, anzi i troppi inoccupati, figli dei pensionati,che persino i sindacati si ostinano a dimenticare. Oltretutto certe categorie come per esempio gli impiegati di banca hanno delle coperture assicurative, pagate dai contribuenti, che garantiscono loro e i loro familiari, servizi sanitari di alto livello, nonchè servizi extrascolastici che i figli degli operai neanche si sognano, figuriamoci che assicurazioni possono avere i politicanti e le loro famiglie; come dire il popolo si divide in gente di serie A e gente di serie B.
Riprendendo il concetto del pubblico, nella città in cui vivo, in tutti gli uffici comunali lavorano i soggetti che la mafia, attraverso i voti clientelari, ha deciso che lavorassero. In Sicilia aggiudicarsi un appalto che di pubblico ha solo le apparenze, consente ai politicanti, “alias” mafia, di gestire i loro affari usufruendo del denaro pubblico. I voti clientelari garantiscono ai politicanti l'agognata poltrona, obiettivo che raggiungono attraverso i posti di lavoro che destinano, appunto, ai loro clienti. Ergo, io abolirei le gare di appalto o meglio, troverei una soluzione per arginare, anzi, debellare il male assoluto che coinvolge l'intera società: lo strapotere della mafia.
Nelle altre città (mi piace pensare che queste città non siano collocate soltanto al centro nord) mi risulta che si organizzano dei bandi di concorso per lavorare in un ufficio che a tutti gli effetti è pubblico e in quanto tale tutti devono avere la possibilità, in seguito al superamento del concorso, di poterci lavorare; la Regione Toscana, alcuni anni fa, ha indetto un concorso pubblico per reclutare delle insegnanti per asili nido comunali, ebbene signori, nella mia città non c'è questa, a quanto pare, “squallida” usanza, in quei pochi asili comunali ci lavorano soggetti che sono entrati per “virtù dello spirito santo”; per non parlare dell'ufficio tributi. Per lavorare in quel contesto, quanto meno, bisognerebbe essere in possesso del diploma di ragioniere, nella mia città, in quell'ufficio ci lavorano persino soggetti senza alcun titolo. Ora basta!
È finita l'era del popolino che si lasciava trascinare dall'arte oratoria dei politicanti fidandosi ciecamente di loro. Chi ha fatto del reddito minimo garantito il vessillo della propria campagna elettorale, deve dar conto di quanto dichiarato, ricordandosi che gli inoccupati sono sempre di più e sempre più incazzati. L'ufficio di collocamento non deve esistere per garantire lo stipendio agli impiegati che non fanno niente tutto il giorno, non certo per colpa loro, ma perché privi di strumenti operativi.
Fino a quando non ci sarà una riforma del lavoro che metta l'italia allo stesso livello degli altri paesi europei, il regredire ulteriore dell'attuale condizione sociale può essere causa di pesanti scontri tra la gente sempre più esasperata e uno stato sempre più assente. È giunto il momento che l'anarchia si faccia nuovamente sentire per poter, finalmente, dare voce e dignità a tutti coloro che hanno subìto lo strapotere dei politicanti.

Silvia Bajo
Siracusa



Carlo Michelstaedter, un anarchico dimenticato

Vorrei contribuire a far comprendere e far conoscere, per lo meno in minima parte, un filosofo italiano spesso dimenticato o peggio ancora trattato per speculazioni filosofiche da pochi baroni della cosiddetta filosofia accademica. [...]
Non mi soffermo su dati da manuale, solamente su alcuni punti che per me risultano essere interessanti per considerare il nostro autore un anarchico. Prima di tutto Carlo ha avuto la forza di suicidarsi poco prima di terminare un percorso di sofferenza e frustrazione all'università di Firenze. Muore i primi anni del ‘900. Il suo lavoro più lungo é La persuasione e la rettorica e in essa possiamo trovare i pensieri che avvolgevano l'autore nella sua soffitta di Gorizia. Carlo Michelstaedter é un continuatore della linea di pensiero di Nietzsche e Schopenhauer tanto per orientarci. Ma nella sua opera non li nomina. La critica della società borghese di quei tempi penso sia totalmente attuale, considerando i vari cambiamenti a cui siamo sottoposti. Michelstaedter in essa descrive il rapporto che intercorre tra il denaro e la schiavitù. Il diritto, grazie all'intervento illusionista che opera la società, maschera la violenza che sta alla base dei rapporti tra gli uomini. Questa illusione di concordia è resa possibile dal codice legislativo ed anche dal denaro.
Il denaro rappresenta le catene che tengono l'individuo legato alla sua condizione di schiavitù. La proprietà viene acquisita tramite il denaro e ciò rappresenta per Michelstaedter l'affermazione violenta delle determinazioni di un individuo tramite la negazione di quelle di un altro. È questo l'unico mezzo di comunicazione che gli uomini conoscono in vista dei loro rapporti con i propri simili. Con esso vengono autorizzati dalla società industriale o meglio dalla società borghese lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e dell'uomo sulla natura; il denaro diventa depositario della legge e della proprietà che dall'autore viene definita come la violenza su un'altra persona e attraverso la persona sulla natura. La proprietà è quel fantasma che domina l'uomo in qualsiasi suo movimento su questa terra, assicura, a chi la possiede, la propria continuazione a scapito degli altri individui. Tali individui, venendo derubati della loro “proprietà”, si trovano nella condizione di temere per la propria continuazione e fanno di tutto per poter essere salvati, divenendo schiavi del movimento ripetitivo e meccanico dell'ingranaggio sociale. Per l'autore bisogna attaccare il principio della proprietà privata rappresentato dalla società borghese e quindi anche il principio collegato del lavoro salariale, inteso come ciò che riduce l'uomo alla schiavitù. Lo schiavo è una cosa, un bene che deve essere tenuto in vita solo per il conseguimento del prodotto che il suo lavoro contribuisce a creare, è una “cosa” che viene utilizzata per la produzione di beni consumabili, e questo lo rende simile in tutto e per tutto alla merce della società capitalista che è la figura del salariato. È possibile capire da questa analisi che Michelstaedter conoscesse molto bene i concetti di valore d'uso e valore di scambio di Marx. Il valore d'uso riguarda un bene in quanto considerato utile per chi lo possiede e il valore di scambio riguarda un oggetto considerato dal punto di vista della quantità rispetto ad altri oggetti. Gli schiavi sono una merce particolare in quanto essendo una forza-lavoro e quindi rappresentando un valore d'uso, producono un valore di scambio. È ciò che Michelstaedter intende con l'espressione di potenza del lavoro, ossia ciò che lo schiavo mette a disposizione del padrone, il quale ha il diritto sul lavoro, acquisito attraverso il denaro. Questo scambio avviene tra persone uguali giuridicamente, infatti lo schiavo è “possessore” della propria potenza di lavoro, ma la sua volontà di continuazione lo costringe a cederla ad un padrone, divenendone schiavo. Egli non è libero perché tormentato dalla preoccupazione di non poter soddisfare i propri bisogni. Il lavoro dello schiavo è alienante in quanto il fine risulta a lui estraneo; egli lavora non per se stesso, ma per la continuazione degli altri. L'operaio di Marx assomiglia alla figura dello schiavo descritta da Michelstaedter, il quale ha di fronte a sé un padrone e uno Stato che lo tengono in schiavitù e da cui deve liberarsi. La differenza tra le due figure soggette allo sfruttamento e all'oppressione della propria individualità sta nel fatto che per Michelstaedter, a differenza di Marx, la liberazione dalla schiavitù non consiste nella sociale, ma nella rivolta contro se stesso, o meglio, nella rivoluzione spirituale della persuasione. Non é quindi un cambiamento che l'individuo compie al di fuori di sé, ma nella propria interiorità. Non bisogna cambiare il mondo esterno, ma cambiare radicalmente il proprio modo di vivere in società e con gli altri. Come per il filosofo Stirner è necessario attuare un'insurrezione, una ribellione contro lo stato di cose esistenti. La rivoluzione che si deve fare da sé per Michelstaedter è la ribellione di cui parla anche Stirner. Si parla in entrambe i casi di un mutamento dell'individuo a livello interiore, che deve portare al dissolvimento dello stato di cose esistente. Michelstaedter insegna che il carattere strumentalistico del rapporto tra gli uomini, può essere superato tramite la “scelta” della Persuasione. La Persuasione è un termine che Michelstaedter coglie dalla Grecia di Parmenide e lo sottrae dal suo uso retorico. [...]
Michelstaedter lamenta un'interezza umana perduta nella civiltà borghese e industriale, il destino di un uomo inchiodato alla responsabilità storica di ubbidire alle leggi inviolabili della proprietà e della divisione del lavoro. Questo regno della società civile, alla quale Platone ed Aristotele hanno dato inizio, esce esaltato dalla filosofia della storia hegeliana e dal Codice austriaco. È nel mondo del lavoro che si verifica il fenomeno storico della civiltà, dell'individualità dimezzata, alienata. Michelstaedter critica fortemente la società civile, che rappresenta il sistema dei bisogni e la cura degli interessi, difesi dagli apparati statali quali la polizia, la giustizia e le corporazioni economiche. Nella società civile l'uomo diviene tale solo quando è in grado di soddisfare i propri bisogni attraverso il lavoro e vede i propri diritti e doveri riconosciuti attraverso la legge. La legge esteriore indica quale deve essere il vero e il bene a cui gli individui devono adeguare la loro vita. Anche la libertà quindi è un derivato della legge in quanto essa si esprime nei limiti della proprietà e del reciproco interesse. Il lavoro dell'individuo all'interno dello Stato è un gesto meccanico, e Michelstaedter rimpiange il lavoro artigianale nei confronti di un lavoro astratto e mortificante. L'individuo della società civile è un determinato segmento della catena di montaggio rappresentata dallo Stato. L'autore in questa sua radicale critica contro lo Stato è molto vicino al pensiero che contraddistingue Stirner. Sia Michelstaedter che Stirner denunciano la perdita dell'individualità a causa dell'identità universale dello Stato. Il mezzo con il quale la comunella dei malvagi, che potremmo identificare con lo Stato, trama il velo intessuto di determinate parole, di determinati giudizi e luoghi comuni, è l'educazione corruttrice, la quale spinge a trasformare qualsiasi lavoro, anche quello intellettuale, in un lavoro utile alla società, un lavoro strumentale, cioè diviso e necessario per vivere. Questa educazione disonesta è quella tipicamente borghese in quanto tende a fare di ognuno un uomo volto all'oggettività. [...]
La libertà dell'individuo è la totale sottomissione alla Legge dello Stato, una legge che per farsi valere autorizza la violenza. La società civile borghese ha la sua potenza e i suoi limiti nelle leggi dello Stato, essa è una società civile retta sul denaro, sul commercio, sulla concorrenza che producono una proprietà legittimata dal diritto statale. Il principio dell'economia e della società civile è la concorrenza, mezzo con il quale un uomo è legittimato a schiacciare un suo simile, ma in modo conforme alla legge. La dipendenza da un'astrazione, ovvero dal diritto pubblico societario, è la condizione stessa della sussistenza della civiltà borghese e della sua educazione, della società produttiva, ossia del lavoro alienato con i suoi diritti e i suoi doveri civili. Lo stato poggia sulla schiavitù del lavoro e solamente se il lavoro sarà libero,dice Michelstaedter, lo Stato sarà perduto.
Il messaggio comune che Stirner e Michelstaedter vogliono lasciarci è caratterizzato dalla capacità stessa dell'individuo di poter resistere all'ingranaggio sociale che annulla ogni singolarità in quanto persona. È la possibilità di riscatto che ha l'individuo per poter finalmente vivere una vita che è vita, una volta liberatosi da tutti i tipi di condizionamento esterno che lo sottomettono e lo fanno vivere nell'illusione di un'esistenza pienamente vissuta. La “proprietà” di cui parlano entrambi i filosofi è il possesso della propria persona che deve essere continuamente affermato e ricercato.

Marco Marian
Santiago de Compostela (Spagna)



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