Rivista Anarchica Online



Con gli occhi della patata

del Centro Studi Canaja con uno scritto di Felice Accame


Dai primi insediamenti nel Nuovo Mondo ai giorni nostri, la storia dell'occidente analizzata attraverso le vicende di questo tubero. Sull'argomento è uscita tempo fa una pubblicazione densa e originale di cui pubblichiamo ampi stralci.


Osservando un tubero di patata si notano delle infossature dette “occhi” in ognuna delle quali è inserita una gemma dormiente. Da ciascuna di esse, nell'anno seguente, spunterà una nuova pianta.
Infatti, quando l'agricoltore “semina” le patate, mette nel terreno un tubero o, più spesso, una sua parte, munita di una o più gemme.


E se fosse la patata ad osservare noi con i propri occhi?
Se potesse severamente guardarci?
Se, spalancando gli occhi sulla miseria del nostro quotidiano volesse raccontarci la propria storia?
Ci parlerebbe degli altopiani delle Ande, dove migliaia di anni fa viveva in simbiosi con i cacciatori-raccoglitori di quelle terre.
Di rituali religiosi e mistici che la vedevano protagonista.
Di uomini armati e coperti di ferro che, venuti dalla Spagna in cerca dell'oro, massacrarono senza pietà i suoi primi amici.
Di viaggi interminabili nelle stive di grandi navi dove vi era finita casualmente.
Del rifiuto e della diffidenza che l'accompagnò per oltre duecento anni in Europa, dove i rappresentanti di un'altra religione per il semplice fatto di crescere sottoterra, lontano dalla luce, la consideravano nemica del loro Dio.
Se gli uomini delle Ande la chiamavano “papa”, i sacerdoti europei scandalizzati dal fatto che quel tubero, così simile ad un testicolo, portasse lo stesso nome del loro capo la chiamarono “radice del Diavolo”, la accusarono di essere la responsabile della trasmissione di terribili epidemie, si rifiutarono di mangiarla e la diedero in pasto ai maiali.
Come ogni migrante povero, conobbe la discriminazione, il pregiudizio, l'intollerabile situazione del capro espiatorio, la condizione di ultimo della terra. Tutto questo fino a quando qualcuno non scoprì le sue potenzialità e quanto poteva rendere in termini di profitto.
Il suo consumo e la sua coltivazione si diffusero in tutta Europa, dalla Spagna al Portogallo, dall'Italia alla Francia, dal Belgio alla Polonia, dall'Austria alla Germania, dall'Ungheria alla Russia, dalla Svezia alla Norvegia.
Si mise l'elmetto e accompagnò i soldati degli eserciti delle potenze europee per tutto il settecento, sostentò militari e prigionieri delle guerre di successione.
Appassionò gli illuministi francesi, divenne argomento di discussione per gli economisti al servizio della rivoluzione industriale e metro di paragone per chi iniziava a denunciare lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Venne coltivata per la prima volta in maniera intensiva nei campi d'Irlanda, divenne praticamente l'unico prodotto agricolo di quella nazione e quando, verso la metà dell'ottocento un fungo micidiale, la peronospora, ne decimò il raccolto, un milione di irlandesi morì di fame. Altri due milioni e mezzo presero la via del mare e si spersero in ogni angolo del pianeta.
Lo stesso destino che era toccato a lei nei secoli precedenti, riempiendo ancora una volta le stive delle navi che battevano bandiera delle nazioni colonizzatrici. Accompagnò i francesi, i belgi, i tedeschi nelle loro conquiste in Africa. Gli olandesi a Giava e nel Giappone. Gli inglesi in India, in Tibet e in Persia. Ritornò in America, nelle Bermude, in Virginia, nel New Hampshire a bordo delle navi dei colonizzatori inglesi.
Religione e guerra e, quando fu il caso, guerra di religione, accompagnarono l'odissea della patata nei secoli XVIII e XIX.
Nata in trincea, si adattò senza problemi a riempire gli stomaci di quei poveri cristi che in trincea ci lasciavano la pelle per soddisfare le brame dei loro padroni durante le prima guerra mondiale, sfamò anche i loro famigliari, poveracci più di loro.
Sulla tavola dei proletari non mancò mai per tutto il periodo tra le due guerre e accompagnò, fatta a fettine, surgelata e pronta per essere fritta l'avanzata dell'Esercito degli Stati Uniti d'America in Europa e in Giappone durante la seconda guerra mondiale.
Così, come spesso succede, la tecnologia applicata in campo militare si trasferì al cosiddetto mondo civile e le patatine fritte, targate McDonald piantarono e continuano a piantare la loro bandiera in mezzo mondo.
Oggi la patata è il quarto prodotto agricolo a livello mondiale, è coltivata in tutto il mondo, il maggior produttore è la Cina e gli Stati Uniti sono il maggior consumatore.
Compagna delle fortune e delle sventure dell'umanità non poteva rimanere indenne dalle attenzioni dei modificatori genetici di organismi e così è proprio una patata prodotta dalla BASF, Amflora, il primo prodotto OGM sdoganato dalla Commissione Europea... la storia continua!

Vincent Van Gogh, I mangiatori di patate, 1885,
Museo Van Gogh (Amsterdam)

Storia di paura e di masticatori di foglie

È impossibile trattare in maniera esauriente la storia della patata senza menzionare i primi agricoltori che la conquistarono e la “modellarono”, ma è altrettanto inammissibile ignorare il particolare ambiente nel quale la pianta e l'uomo svilupparono la loro reciproca conoscenza.
Redcliffe N. Salaman, Storia sociale della patata (Garzanti, 1989)

Arrivarono forse duemila anni prima della “conquista”, forse arrivarono dal nord, dalla via che da Panama porta alla Colombia e all'Equador, forse arrivarono dal mare, forse risalirono il fiume Magdalena o l'Orinoco o il Rio delle Amazzoni, gli altri grandi fiumi che sfociano sulla costa orientale del continente latino-americano, forse arrivarono dal Venezuela.
Da ovunque arrivassero, i primi uomini che si insediarono negli altipiani che circondano il Lago Titicaca, il “mare interno” sul confine tra la Bolivia e il Perù, quell'enorme distesa d'acqua a forma di puma, scappavano ed erano affamati.
Scappavano dalla giungla fitta, impenetrabile, carica di umidità, brulicante di insetti insidiosi, dove il cammino era minacciato dal boa conscrictor e dal giaguaro (la panthera onca), dove l'unico punto di riferimento erano i corsi d'acqua, infestati da coccodrilli e da pesci voraci.
Scappavano da altri uomini, forse più abili di loro nell'uso di archi e frecce e che avevano l'insana abitudine di non limitarsi a farne uso per uccidere pesci e tartarughe per sfamarsi, cominciarono a prendere di mira anche loro e se ne cibarono...
Insomma, per farla breve, il mondo che li circondava era veramente infame!
Non è che l'altipiano fosse il paradiso in terra...Battuto da piogge violente, caldissimo quando il sole è alto, freddissimo durante la notte, non crescono alberi, il terreno, quando non è avvelenato dal borace è coperto dall'ispida erba Stipa.
La religione che si erano tramandati di generazione in generazione insegnava il timore e il sospetto nei confronti della crudeltà della natura e l'atteggiamento che dominava il loro carattere era la rassegnazione.
E allora rassegniamoci, caldo e freddo si potevano sopportare, dalla pioggia ci si poteva proteggere, non erano niente nei confronti delle ferite che avrebbero potuto infliggere ai loro corpi le frecce nemiche e gli artigli del puma o del giaguaro.
Scappavano ed erano affamati ed infreddoliti, trovarono il porcellino d'india e se ne cibarono, trovarono il lama e l'alpaca e ne usarono la lana per proteggersi dal freddo e, una volta domati sarebbero potuti diventare animali da soma e rendere meno complicata e faticosa un'altra migrazione.
In questo nuovo mondo le fonti alimentari che li avevano sostentati da sempre non erano più disponibili, troppo freddo per la manioca e il mais che avevano portato con sé non ne voleva sapere di crescere, volenti o nolenti dovettero rassegnarsi ad assaggiare le foglie di quelle strane piante che crescevano un po' ovunque.
Le masticarono e provarono piacere, la fatica e la paura diventavano più sopportabili, avevano incontrato la coca.
Ingenuamente masticarono anche altre foglie e l'effetto fu devastante, vomito, diarrea, dolori addominali e terribili emicranie, avevano incontrato la patata.
Certo non potevano sapere che qualche parallelo più a nord, superato l'equatore, esisteva già qualcuno o qualcosa che invece di quelle foglie era ghiotto, sarebbero passati molti secoli prima che uomo e dorifora avrebbero fatto la reciproca conoscenza...
Chissà, forse fu la rabbia o un senso di primitiva prevenzione che li spinse a sradicare quelle disgustose piante e a scoprire quelle strane radici cariche di palline multicolore.
Sarà stato il fatto che lama, alpaca e porcellino d'india se ne mostrarono subito attratti, le assaggiarono e si abituarono a mangiare patate e, passo dopo passo, a scoprirne le inimmaginabili qualità.
Pacha mama (la Terra Madre) era venuta in loro soccorso, gli aveva regalato una pianta che quasi magicamente si seminava e si raccoglieva eseguendo le stesse operazioni, gliene aveva regalato una varietà incredibile e loro seppero coltivarle e selezionarle a seconda del gusto e delle loro necessità.
La patata, una volta cotta, era buona, riempiva la pancia ma, come qualsiasi altra pianta, seguiva rigidamente i ritmi della natura, i raccolti, anche se abbondanti, erano limitati ai periodi di maturazione.
Ancora una volta la natura venne in loro aiuto e ben presto si accorsero che le patate congelate durante le gelide notti, di giorno, battute dalle piogge torrenziali, ritrovavano, miracolosamente la loro consistenza, avevano “inventato” il Chuno.
Mangiare, si mangiava, il porcellino d'india si serviva con un buon contorno, oltre alla patata scoprirono la quinoa, l'oca, l'ulluco e via di zuppa.
Lama, alpaca e vigogna fornivano la lana per confezionare meravigliosi poncho con cui proteggersi dal freddo.
La fuga dai pericoli della foresta era riuscita, la lotta per la sopravvivenza era vinta, e allora...fiesta!
Già, ma che festa sarebbe stata senza bevande? Da sempre sapevano distillare il mais, provarono a fare altrettanto con la quinoa e la patata.
Ne uscì una particolare birra, la Chicha.
I più bravi ne ricavarono una vera bomba alcolica, la Chata.
Chicha, Chata, Coca, capaci di intorpidire i sensi dei primi coltivatori di patate e di allontanarli periodicamente dagli orrori del suo mondo spirituale e dalle tante difficoltà materiali furono elementi fondamentali perché insediamenti umani si potessero affermare in condizioni, altrimenti insopportabili.

Storia di navi, d'oro, d'argento, di sacrifici, di nodi e cordelle

Di loro, invece, sappiamo con precisione da dove venivano e perché.
Anche loro scappavano ed erano affamati.
Erano affamati di gloria e di ricchezze, cercavano una mitica città dove le strade erano lastricate d'oro, cercavano una immaginaria montagna d'argento, scappavano dalla misera vita che conducevano in Spagna o in Portogallo, per molti di loro i rischi della traversata dell'Oceano Atlantico erano stati una facile via di fuga dai roghi dell'inquisizione.
Quando Pizarro e suoi scagnozzi giunsero sugli altipiani andini, l'impero Inca si era imposto da oltre trecento anni, si estendeva dall'Ecuador al Cile e i contadini Quechua avevano imparato a coltivare e a selezionare settecento varietà di patata.
Per arrivare ai tremila e settecento metri di altitudine del Lago Titicaca quegli uomini vestiti di ferro, in sella ai loro cavalli, armati di archibugio, avevano utilizzato le strade che solcavano le Ande e che avevano permesso l'interscambio di prodotti dalla costa alla montagna, garantendo al mais e alla patata di arrivare ai quattro angoli dell'impero.
Avevano attraversato canyon paurosi ed apparentemente invalicabili, grazie ai ponti sospesi sopra ai fiumi, fatti di corda ricavata intrecciando erba secca, solitamente usati dai chaskic, i messaggeri imperiali che annunciavano il loro arrivo soffiando dentro il pututu, una tromba ricavata da una conchiglia e che con un sapiente gioco di staffette riuscivano a raggiungere Quito, partendo da Cuzco, in meno di una settimana.
Non poterono non notare il sistema di acquedotti che permetteva l'irrigazione di terre altrimenti sterili e che, grazie al controllo delle acque, aveva avuto una parte non indifferente nell'espansionismo Inca.
Quelli tra di loro che erano stati poveri contadini in Castiglia o in Aragona, probabilmente avranno deriso i loro “colleghi” che aravano il terreno armati di ”Taclla”, poco più di in bastone, e che in gruppo, cantando, preparavano il terreno per la semina delle patate.
Abituati a piegare la schiena per qualche latifondista prima di indossare un'armatura, li avranno guardati con disprezzo quando si accorsero che a mettere le patate per terra, a raccoglierle, a riempire sacchi e a caricarseli sulla schiena erano le donne!
Li disprezzarono, ignorando il valore simbolico che i contadini dell'antico Perù davano al fatto che solo chi genera vita può fecondare la terra e raccoglierne i frutti.
Cercavano l'oro e lo trovarono, ne trovarono una quantità incredibile, cercavano l'argento e lo trovarono, ne trovarono una montagna.
Cercavano le mitiche Amazzoni, si “accontentarono” delle Vergini del Sole, che trovarono rinchiuse dentro le Mamakuna, specie di conventi dove venivano educate le bambine consacrate a diventare concubine dell'Inca.
Altri di loro, senza armature ma coperti da un saio, avevano il compito di cercare ben altro, cercavano l'anima nascosta dentro gli Indios e, come vuole la tradizione, gliela cercarono a forza di botte!
È anche grazie alla furia evangelizzatrice di queste bestie e alla loro maniacale abitudine a catalogare tutto ciò che, dal loro punto di vista, puzzava di demoniaco, utile a realizzare dei veri e propri manuali da destinare ai nuovi missionari, che oggi siamo a conoscenza di tutta una serie di riti che, basandosi su di una concezione animista della religione Inca, ponevano al centro animali, astri e piante tra cui anche la nostra amica patata.
Cieza de Leon, nelle sue Cronache del Perù, ricorda questo fatto, raccontatogli da un frate, avvenuto nel 1547:
“A Lampa, nel Collao; si era svolto un grande raduno di Indios chiamati a raccolta dal rullo dei tamburi.
Quando i capi, nei loro abiti più belli, si furono seduti su stoffe riccamente ricamate, entrò una processione di giovanetti vestiti con sfarzo; ognuno di questi ultimi stringeva un'arma con una mano e con l'altra un sacco di coca; erano accompagnati da un gruppo di giovanette con vesti altrettanto lussuose e lunghi strascichi sostenuti da donne più anziane.
Le fanciulle portavano dei sacchi contenenti ricche vesti, oro e argento.
Seguivano poi i contadini locali con l'aratro sulle spalle, a loro volta scortati da sei giovani ognuno dei quali portava un sacco di patate; venne quindi introdotto un lama di un anno, col vello “di un unico colore”, che venne ucciso davanti a uno dei capi; le sue interiora furono consegnate agli stregoni, poi alcuni Indios raccolsero quanto più sangue poterono e lo versarono nei sacchi di patate.”
Purtroppo un catecumeno eccessivamente zelante, dopo aver severamente rampognato i presenti disperse il raduno...
Giovani uomini e giovani donne, coca, oro e argento, sangue e patate.
L'insieme di questi elementi, presenti in un rito celebrato quando gli spagnoli erano già padroni del Perù e 300 anni dopo che gli Inca avevano cancellato con la forza ogni presenza delle civiltà andine precedenti, spinsero gli archeologi, molto tempo più tardi, a sviluppare interessanti teorie sul significato di numerosi vasi ritrovati che avevano come soggetto dominante la patata.
Se la maggior parte delle sculture ritrovate appartenenti alle civiltà Chimu e Nazca erano rappresentazioni terrificanti del loro mondo spirituale che riproducevano i vecchi nemici, il boa e il giaguaro, trasfigurati in divinità dai mille piedi e dotati di artigli mostruosi, fu immediato ipotizzare che mais, manioca, fagioli e patate, spesso presenti sui vasi, avevano cessato di essere semplici prodotti alimentari ed erano entrati a pieno titolo nel pantheon andino.
Patate gemelle, simbolo di fertilità, patate che assumevano forme umane, intrecci con espliciti rimandi sessuali fra uomo e patata, ma soprattutto patate che diventavano volti umani con evidenti menomazioni sono il “catalogo” che possiamo ancor oggi ammirare.
Oggi, chiamiamo “occhi” le gemme dormienti da cui si svilupperanno le nuove piante di patata, è presumibile ipotizzare che i nativi andini li chiamassero “bocche” e che, di conseguenza, le posizionassero sotto il naso del volto dell'uomo patata,
Le bocche spesso venivano rappresentate con le labbra tagliate e i nasi mozzati.
Testimonianza brutale di un rito che, a fronte di un raccolto andato male, prevedeva il sacrificio di labbra e bocche visti come possibili ostacoli affinché i denti della patata potessero arrivare facilmente a nutrirsi della terra madre.
Tutto fa supporre, inoltre, che il lama sacrificato nel '500 non fosse nient'altro che un innocuo surrogato di giovani e giovanette che vedevano il loro sangue sparso sui campi di patate...
Prima di abbandonare il Perù, per accompagnare nel suo viaggio verso l'Europa la patata, è utile fare una riflessione che, solo apparentemente ci porterà fuori tema.
Centinaia di libri, addirittura migliaia di siti internet, oggi possono essere consultati nel tentativo di approfondire la conoscenza della civiltà incaica e tutti, almeno quelli più seri, concordano nell'assegnare alla statistica un ruolo centrale nell'amministrazione dello Stato.
I peruviani non conoscevano un sistema di scrittura ma avevano sviluppato un metodo ingegnoso per registrare le informazioni: era un sistema di cordicelle annodate chiamate Quipu che avevano alla base un sistema decimale.
Ogni singola attività veniva registrata e ogni necessità veniva calcolata matematicamente, la suddivisione delle terre, il loro rendimento, i calcoli necessari per progettare e costruire i canali di irrigazione, le armi necessarie per intraprendere una guerra di conquista o per sedare una rivolta interna, tutto passava attraverso i nodi e le cordelle del Quipu.
Persino quando gli spagnoli, forse per curiosità, forse per dimostrare in Europa di aver assoggettato un grande Impero, si posero il problema di ricostruire la storia dei popoli che avevano sterminato, avendo tagliato la gola a tutti i cantori che insieme alle lodi al sole le cantavano anche ai loro imperatori ricordandone le gesta, avendo distrutto tutti gli strumenti musicali che gli facevano da sottofondo, fu necessario interrogare i quipu-kamayoc, detentori della conoscenza di quell'intreccio di corde e nodi.
Qualcuno interpretò questo fatto con la possibilità che dietro quello strumento si nascondesse una forma misteriosa di scrittura, la realtà era un'altra, il Quipu era lo strumento migliore che quegli “storici” conoscevano per aiutare la loro memoria a non perdere la conta degli Inca che si erano succeduti e i fatti che erano accaduti nel passato.
Anche se sottomessi, la storia che raccontarono era una storia vista con gli occhi dei vincitori e cancellarono ogni traccia delle civiltà che le precedettero e da cui tanto avevano imparato come se la conquista del sapere fosse nata con gli Inca.
Si comportavano, inconsapevolmente, come gli spagnoli che nel giro di quarant'anni, dal rango di divinità li avevano ridotti a quello di selvaggi.

Stati Uniti d'America, 1884 - Vendita per corrispondenza
delle gemme (“occhio”) della patata

Storia di guerre ammantate di religione, di solchi tracciati dal passaggio degli eserciti, di piedi scalzati

La Guerra di successione bavarese combattuta a cavallo tra il 1778 e il 1779 è passata alla storia come Kartoffelkrieg ovvero “guerra delle patate”.
Diverse sono le teorie sostenute a spiegazione di questo nome, la prima si basa sul fatto che le truppe prussiane e austriache trascorsero molto tempo a compiere manovre militari in Boemia per cercare di ottenere il cibo dal nemico, privandolo del principale sostentamento della regione, le patate appunto.
La seconda prende spunto semplicemente dal fatto che la terra di Boemia era disseminata di un gran numero di campi coltivati a patate.
La terza, infine, quella a cui diamo maggior credito, sostiene che ad un certo punto in mancanza di rifornimenti, si usassero anche le patate nei cannoni a sostituire le palle in ferro.
Al di là di questo episodio, è strettissimo il legame che intercorse tra guerra e diffusione della patata in Europa nei due secoli precedenti e anche in quelli successivi.
La più terribile di tutte le guerre di religione europee è quella che scoppia nel ´600 in Germania, nota come la guerra dei 30 anni - dal 1618 al 1648.
Si scatena a causa della politica di Ferdinando II d'Asburgo, che unisce in sé molti titoli e poteri: è signore delle terre d'Austria, che costituiscono i beni di famiglia della dinastia asburgica, è anche re di Boemia ed Ungheria ed inoltre, come da secoli è prerogativa degli Asburgo, è imperatore di Germania.
Ferdinando è un cattolico convinto, educato dai Gesuiti, che sono uno degli ordini più attivi ed impegnati nella riscossa del cattolicesimo contro quella che viene considerata l´eresia protestante.
I progetti politici di Ferdinando II mirano a creare una forte monarchia nel centro dell´Europa e di tenerla saldamente unita sotto un´unica religione, quella cattolica, che dall´Austria dovrebbe estendersi a tutta la Germania.
Questa politica provoca una forte reazione antiasburgica e infatti, nonostante le iniziali vittorie, il progetto degli Asburgo fallisce dopo trent´anni di lotte dure, rese ancora più sanguinose dagli odi religiosi che contrappongono cattolici e protestanti.
Sono gravissime le conseguenze pagate dalla Germania, che viene percorsa e saccheggiata da numerosi eserciti: austriaci, bavaresi, spagnoli, danesi, svedesi, francesi.
Oltre alle devastazioni proprie di ogni guerra, la lotta religiosa conosce le più dure forme di violenza: massacri perpetrati dai cattolici contro i protestanti e massacri perpetrati dai protestanti contro i cattolici.
Basti ricordare il saccheggio della città di Magdeburgo, compiuto dall´esercito cattolico nel maggio del 1631: i protestanti sono vittime di uno dei massacri più atroci e brutali che la storia ricordi.
Dopo saranno gli eserciti protestanti degli svedesi che risponderanno al sacco di Magdeburgo con altre atrocità: questa volta contro i cattolici.
Fra le tante sofferenze inflitte al popolo della Germania vi sono anche migrazioni forzate di popoli da una regione, posta sotto una fede, ad un´altra soggetta all´altra confessione religiosa.
Così avviene con una legge imperiale, l´editto di restituzione del 1629, che accorda a chi governa uno stato cattolico di cacciare i sudditi protestanti, causando esodi di masse disperate e miserabili.
Molte terre restano spopolate ed in più bisogna aggiungere la desolazione provocata dalle carestie e dalle epidemie, che sono il lascito inevitabile del passaggio di eserciti dediti al saccheggio.
Paradossalmente è proprio questa continua migrazione che contribuirà notevolmente alla diffusione della coltivazione della patata nell'Europa centrale. Infatti nessun altro prodotto agricolo, grazie al fatto di crescere sottoterra, si dimostrò più resistente alla devastazione provocata dal passaggio di interi eserciti
I contadini erano consapevoli che le principali vittime di guerra e carestia sarebbero stati loro, fossero stati cattolici o protestanti. Questi ultimi, però, avevano già assaggiato sulla loro pelle la durezza della repressione e dell'esilio quando negli anni a cavallo tra il 1524 e il 1526 osarono insorgere ed allungarono le mani sulle proprietà della nobiltà e del clero.
La Guerra dei Contadini tedeschi, analizzata da Engels e raccontata da Luther Blisset, in Alto Adige venne chiamata la “Guerra rustica” e costò la vita a 100.00 persone.
Fonte di ispirazione fu il movimento insurrezionalista denominato “Bundschuh” (Lega della scarpa) che scoppiò in varie riprese in Germania tra il 1443 e il 1522.
Il “Bundschuh” che inizialmente stava a indicare la scarpa dei contadini tenuta da legacci, in contrasto con gli stivali dei signori e cavalieri, divenne poi simbolo del partito contadino, talvolta grido di guerra delle fanterie e finalmente segno di reciproco aiuto contro gli oppressori dei contadini e di tutta la povera gente senza diritti.
Con altri intenti e in tutt'altra parte d'Europa ci fu chi delle scarpe decise di farne proprio senza e che ebbe un ruolo non indifferente nella diffusione della patata.
I primi tuberi di patata arrivarono in Spagna, a Siviglia, il solo porto spagnolo al quale, per disposizione regale, dovevano approdare tutti i navigli provenienti dal Nuovo mondo, per poterne meglio controllare i carichi di oro e di altre possibili merci preziose e non certo per sorvegliare i traffici di patate, ancora del tutto sconosciute: queste vi arrivarono quasi clandestinamente, alla spicciolata.
E infatti non si sa chi ve le abbia introdotte né, con esattezza, quando ciò sia avvenuto. Ma proprio a Siviglia, nel 1576, abbiamo le prime notizie su di esse dai registri dell'Hospital de la Sangre della città, gestito, come tante altre opere caritative, dall'ordine religioso dei Certosini.
Con certezza non sappiamo nemmeno perché acquistarono un carico di patate, l'ipotesi più accreditata fa supporre che le utilizzassero per preparare zuppe per i ricoverati ma non è escluso che le utilizzassero come alimento per i maiali che allevavano all'interno dell'ospedale.
Di sicuro sappiamo, invece, che nel 1578, con una lettera, nientepopodimeno che Teresa D'Avila, una delle figure di spicco della Chiesa cattolica, ringraziava la superiora del monastero di Toledo per aver ricevuto in dono alcune patate.
Teresa è una donna, a dir poco, particolare. Giovanissima fuggì due volte da casa, la prima, con un fratello, la motivò con l'intenzione di andare nella “terra dei mori” per sacrificare la propria vita in continuità con i martiri cristiani. La seconda quando decise di farsi monaca carmelitana.
Donna intelligente ma integralista integerrima, condusse una durissima battaglia all'interno del suo ordine per attuare una riforma che lo riportasse all'ispirazione originaria che si basava sull'estrema povertà.
Inizialmente ignorata e considerata poco più che pazza, fu guardata con sospetto d'eresia e accusata di essere posseduta dal demonio quando raccontò al suo confessore lo stato d'estasi che raggiungeva quando si congiungeva in preghiera con il Signore:
“Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d'oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po' di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c'era da desiderarne la fine, né l'anima poteva appagarsi che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po', anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l'anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento.”
Sottoposta a processo ne uscì completamente assolta a tal punto che riuscì a portare a termine la sua idea di riforma e chiamò “scalzi” i frati e le monache che aderirono al nuovo ordine.
Mistica, sì, ma anche ottima organizzatrice pratica, si fece promotrice della fondazione di numerosi monasteri in Spagna dove, inevitabilmente, vennero realizzati degli orti dove la patata faceva bella figura di sè, e quando decise di espandere la sua visione in Italia individuò nel suo confratello padre Nicolò Doria la persona più adatta allo scopo, per le sue buone capacità imprenditoriali.
Costui, infatti, di chiara origine genovese, si era straordinariamente arricchito in Spagna come banchiere, al punto da poter concedere prestiti allo stesso re, ed era passato poi alla vita monastica con il nome di Nicolò di Gesù Maria.
Egli iniziò la sua opera partendo proprio da Genova, dove la Repubblica gli concesse una chiesetta dedicata a sant'Anna, ai margini della città, che divenne così il primo convento riformato in Italia.
E se egli qui gettò il seme della riforma teresiana, che poi condusse con successo contro la resistenza dei confratelli romani (che, di riforme, non ne volevano sapere), contemporaneamente nell'orticello di cui la chiesetta era dotata vennero piantate anche le prime patate in suolo italico; forse non proprio da lui, incaricato di ben altri problemi, ma dai due fratelli che lo accompagnarono nell'impresa, i quali magari se n'erano portati qualche tubero nelle bisacce.

Irlanda, 1845 - Una famiglia di contadini consuma
il proprio pasto a base di patate

Storia irlandese, di sfruttamento, di fame, di miseria, di migrazione

Se in tutta l'Europa continentale la patata stentò ad affermarsi, se quasi ovunque la sua coltivazione fu conseguenza di editti imperiali che minacciavano pesanti sanzioni nei confronti dei contadini che si fossero rifiutati di farlo, se altrove permaneva la diffidenza nei confronti di questo nuovo tubero, se la sua appartenenza alla famiglia della velenosa Belladonna la faceva guardare con sospetto, se il fatto che non fosse menzionata nella Bibbia la faceva diventare causa della diffusione della lebbra, perché nella cattolicissima Irlanda le cose andarono diversamente?
L'Irlanda adottò la patata subito dopo la sua introduzione a tal punto che contribuì non poco a consolidare l'identità di questo paese, ancora incerta nella cultura inglese.
Rimane avvolta nel mistero la storia della prima introduzione della patata in Irlanda, la più intrigante racconta di un galeone spagnolo, carico di tuberi, che naufragò sulla costa nel 1588.
Comunque sia andata, l'ambiente politico, culturale e biologico dell'Irlanda non avrebbe potuto adattarsi meglio alla nuova pianta. I cereali crescevano male sull'isola e, nel XVI secolo, i puritani dell'esercito di Cromwell confiscarono le poche terre arabili per consegnarle ai latifondisti inglesi.
Costretti a fare i conti con un suolo avaro e zuppo di pioggia dove praticamente non cresceva nulla, i contadini irlandesi scoprirono che pochi acri di terra producevano patate sufficienti a sfamare una famiglia numerosa e il suo bestiame. Inoltre si resero conto che potevano coltivarle con un investimento minimo di lavoro e attrezzatura.
I tuberi venivano distesi al suolo in un rettangolo, poi, con la vanga, il contadino scavava una trincea di drenaggio lungo entrambi i lati del letto di patate, ricoprendole con il terriccio, le zolle o la torba provenienti dalla trincea.
Niente terra da arare e niente filari!
Certo, anche niente bei campi ordinati, ma chi ha fame può perdere tempo con l'estetica?
Ora potevano sfamarsi liberi dalla morsa economica degli inglesi e non dovevano preoccuparsi troppo per il prezzo del pane o dell'entità della paga.
Una dieta a base di patate e latte bovino era completa dal punto di vista nutrizionale. Le patate erano facili da coltivare e anche da cucinare, bastava bollirle o gettarle sulla brace ed erano pronte da mangiare.
La fortuna della patata in Irlanda e il suo pericoloso ruolo in termini di potenziale fattore di indipendenza economica dai “padroni” inglesi divenne argomento di acceso dibattito in Inghilterra, quando nel 1794 il raccolto di frumento venne a mancare ed il prezzo del pane bianco divenne inavvicinabile per le classi povere.
Scoppiarono rivolte per il cibo e non furono pochi gli agronomi che proposero l'intensificazione della coltivazione della patata in Inghilterra come valida alternativa ai cereali.
Ci fu anche chi, però, con intelligente lungimiranza, metteva in evidenza i pericoli legati alla dipendenza di un unico alimento per garantire la sopravvivenza di un'intera nazione.
William Cobbet, un giornalista radicale, di ritorno da un viaggio in Irlanda, negli appezzamenti di terreno coltivati a patate non vide uno strumento di “autonomia”, ma solo dipendenza e miserabile sussistenza.
Il suo ragionamento è questo: se è vero che la patata sfama gli irlandesi, allo stesso tempo li impoverisce, incrementando la popolazione rurale e diminuendone i salari.
La generosità della patata diventava una sventura!
Nei suoi articoli Cobbet descriveva questa “dannata radice” come una sorta di forza gravitazionale, che allontanava gli irlandesi dalla civiltà ricacciandoli nella terra, vanificando la distinzione tra uomo e bestia, e perfino tra uomo e radice. Descrive un pasto consumato in una povera capanna dove non esistono pavimento né camino e dove a tavola mangia tranquillamente un maiale che si serve direttamente dalla pentola contendendo il cibo ai bambini che, seminudi, mangiano con le mani.
La patata si era disfatta della civiltà, restituendo l'uomo al controllo della natura.
Il fatto che la patata venisse consumata senza nessun intervento da parte dell'uomo se non il semplice bollirla in acqua o cuocerla sulla brace, divenne argomento di dibattito filosofico e religioso. Si arrivò a sostenere che la patata non poteva reggere il confronto con il pane di frumento in quanto questo era frutto di un elaborato intervento culturale grazie al quale una massa informe di acqua, lievito e farina, si trasformava in un gradito alimento e non a caso si identificava con il corpo di Cristo.
Anche gli economisti entrarono nel dibattito e, seppur con argomentazioni scientifiche, non si allontanarono dalla preoccupazione che, attraverso la patata, la natura potesse prendersi una rivincita sulla civiltà.
Malthus, Smith e Ricardo pur con sfumature differenti consideravano il mercato un meccanismo sensibile, capace di adeguare la numerosità della popolazione alla domanda di lavoro, e il regolatore di tale meccanismo era il prezzo del pane. Quando il prezzo del frumento aumentava, il popolo era costretto a reprimere i suoi appetiti animali e così nascevano meno bambini.
Lo scambio capitalista era assimilabile alla panificazione, poiché costituiva un modo per civilizzare la natura anarchica, sia delle piante che del popolo. Senza la disciplina del mercato delle merci, un uomo è costretto a fare ritorno ai propri istinti: cibo e sesso senza limiti conducono inesorabilmente alla sovrappopolazione e alla miseria.
La patata, ai loro occhi, divenne il simbolo di questa regressione, al contrario del frumento non poteva essere immagazzinata, non poteva trasformarsi in merce e in conseguenza denaro e minacciava di vanificare il progresso compiuto da un'economia avanzata nel liberare il genere umano dalla dipendenza dalla natura infida.
Con tutte le critiche possibili ed immaginabili, dobbiamo ammettere che questi galantuomini non avevano tutti i torti.
Gli irlandesi si sarebbero presto resi conto che la benedizione con cui accolsero la patata si sarebbe presto rivelata un'illusione crudele. La dipendenza dalla patata li avrebbe resi un popolo estremamente vulnerabile, se non alle vicissitudini dell'economia, certo a quelle della natura.

Felipe Guaman Poma de Ayala, cronista indigeno della conquista del Perù,
riporta alcune scene di vita contadina dove fa la sua comparsa la patata

L'arrivo della peronospora

Lo scoprirono bruscamente quando nella tarda estate del 1845 la peronospora della patata arrivò in Europa e nel giro di qualche settimana condannò la patata e coloro che se ne nutrivano.
“Il 27 luglio andai da Cork a Dublino, e questa pianta dal destino segnato prosperava in pieno rigoglio promettendo un abbondante raccolto. Tornando indietro il 3 agosto vidi con dolore una vasta distesa di vegetazione in putrefazione. In ogni dove la povera gente era seduta sulle recinzioni di campi marcescenti torcendosi le mani, e piangeva amaramente la distruzione che l'aveva lasciata senza cibo”.Questa lettera scritta da padre Mathew, un sacerdote cattolico, nel 1846 ci dà un quadro preciso di ciò che avvenne in quegli anni in terra d'Irlanda.
L'arrivo della peronospora fu annunciato dal fetore delle patate marce, che era ovunque nella tarda estate del 1845, e poi anche nel 1846 e nel 1848. Con il vento che ne trasportava le spore, il fungo faceva la sua comparsa nei campi letteralmente da un giorno con l'altro: alle macchie nere sulle foglie seguivano le macchie cancrenose che si diffondevano lungo tutto lo stelo della pianta; poi si annerivano i tuberi, che si trasformavano in poltiglia maleodorante. Bastavano pochi giorni a distruggere un campo, che da verde diveniva nero; persino le patate nelle dispense non avevano scampo.
La ruggine della patata colpì tutta l'Europa, ma solo in Irlanda causò una catastrofe. Altrove, quando il raccolto era distrutto, la popolazione poteva ricorrere ad altri alimenti base, ma i poveri d'Irlanda, che si cibavano di patate e non partecipavano all'economia del lavoro, non avevano alternative. Come spesso capita in caso di carestia, il problema non si limitava alla scarsità di cibo. Al culmine della crisi, nei porti irlandesi erano ammassati sacchi di grano assegnati all'esportazione in Inghilterra. Ma il grano era una merce, destinata ad andare dove c'era denaro; dato che i mangiatori di patate non avevano denaro per pagare il grano, questo veniva inviato in un paese più ricco.
La carestia delle patate fu le peggiore catastrofe ad abbattersi sull'Europa dopo la peste nera del 1348. La popolazione irlandese fu letteralmente decimata: in tre anni un irlandese su otto (un milione di persone) morì di fame; altre migliaia divennero cieche o malate di mente per mancanza di vitamine. Poiché le leggi sui poveri stabilivano che chiunque possedesse più di un quarto di acro di terra non avesse diritto ai sussidi, milioni di irlandesi furono costretti a cedere la loro fattoria per mangiare; sradicati e disperati, quelli dotati di mezzi ed energia emigrarono.
Le cronache dei tempi della carestia riportano visioni infernali: pile di corpi per le strade che nessuno aveva la forza di seppellire, eserciti di mendicanti seminudi che avevano impegnato i vestiti per un po' di cibo, case abbandonate, villaggi spopolati. Alla carestia seguirono le malattie: tifo e colera si diffusero a macchia d'olio tra la popolazione indebolita. La gente mangiava erba, animali domestici, carne umana...
Le cause del disastro furono molteplici e complesse, e includevano il criterio di distribuzione della terra, la brutale economia di sfruttamento degli inglesi, un'opera di soccorso insensibile e i consueti fattori determinati dal clima, dalla geografia e dalle abitudini culturali.
Non fu la patata, quanto piuttosto la monocultura della patata a gettare il seme della catastrofe in Irlanda. Qui si sperimentò la follia della monocultura che portò l'agricoltura e la dieta degli irlandesi a dipendere interamente non solo dalla patata, ma addirittura da un unico tipo di patata.
Nell'Irlanda sotto il dominio inglese la logica dell'economia decretò la monocultura della patata; nel 1845, la logica della natura esercitò il proprio veto, e un milione di persone morirono di fame
Anche gli Inca costruirono la loro civiltà sulla patata, ma ne coltivarono una tale varietà che nessun fungo avrebbe mai potuto farla crollare.

Copertina e controcopertina della dispensa realizzata dal Centro Studi Canaja

Storia di narratori di cibo e di cibo che manca

Il grido d'allarme lanciato dalla tragedia irlandese, le sue nefaste conseguenze, anche se può sembrare paradossale, servirono da formidabile stimolo alla diffusione della patata nel mondo. Migrando negli Stati Uniti e in Australia, gli irlandesi, portarono con loro la cultura della coltivazione della patata che, intercettata da imprenditori milionari, divenne produzione su scala industriale.
Oggi la patata è la quarta coltura al mondo, è coltivata in oltre cento Paesi, 18 milioni di ettari sono destinati alla sua coltivazione, nel 2008 la produzione totale ha raggiunto 326 milioni di tonnellate.
La patata ha smesso i poveri panni di cibo per gli ultimi della terra ed è diventata business, le sue qualità, l'amido in particolare, sono sfruttate dall'industria farmaceutica e da quella della cosmesi, da quella della carta a quella dei collanti, la patata si è trasformata in bio-plastica, in bio-carburante e, inevitabilmente, è diventata oggetto di ricerca per le multinazionali dell'agro-alimentare e della trasformazione genetica.
Scrivendo questa dispensa, inconsapevolmente, siamo andati a vestire i panni di “narratori di cibo”, quei panni che proprio con questa definizione, in modo sprezzante, i sostenitori accaniti degli OGM lanciano come accusa nei confronti di chi continua a combatterli.
E “narratori di cibo” vogliamo e dobbiamo continuare ad esserlo, vogliamo continuare a pensare che dentro al piatto debba trovare spazio la politica, l'etica, la sociologia, la solidarietà, le migrazioni bibliche e le soluzioni per fermare queste migrazioni, la gestione delle risorse idriche.
Vogliamo continuare a pensare che la gestione del nostro frigorifero e della spesa che facciamo abbia una valenza politica e sociale.
Vogliamo continuare a stare dalla parte dei “polverosi intellettuali europei” che si ostinano a pensare che debbano e possano esistere dei vasi comunicanti tra i piatti ricolmi di prelibatezze dei cittadini del nord del mondo con le ciotole semi-vuote dei cittadini del sud impoveriti da politiche esproprianti.
Vogliamo continuare a pensare che un sistema che condanna alla morte per fame milioni di uomini e donne è un sistema da ribaltare perché è lo stesso sistema che condanna alla povertà dieci milioni di uomini e di donne in Italia.
Vogliamo continuare a gridare con forza che a “sfamare il pianeta” non saranno le multinazionali che riempiranno i padiglioni della prossima Esposizione Universale ma la forza, la coscienza e la determinazione dei prossimi “beati costruttori di barricate”.

La Dispensa è dedicata a Mario Martinelli
Compagno camminante,
camminando, camminando...
E noi, siamo qui seduti nella nebbia
a mangiare acqua
la mente aperta
decantiamo...

Centro Studi Canaja

Bibliografia:
Redcliffe N. Salaman – Storia sociale della patata – Garzanti, 1989
David Gentilcore – Italiani mangia patate – Il Mulino, 2013
Michael Pollan – La botanica del desiderio Il mondo visto dalle piante – Il Saggiatore, 2013


Sorel, Marx e la patata

In una conferenza tenuta lo scorso novembre al Circolo ARCI Scighera di Milano, un'analisi originale del tubero e del suo “uso” politico.

Premessa
Come risulta ovvio consultando gli itinerari coloniali e mercantili del Cinquecento, giungendo dall'America, la patata approda in Spagna prima di diffondersi nel continente europeo. Che si sia diffusa – e parecchio – lo sappiamo. Meno si sa degli ostacoli che questa diffusione ha incontrato sulla propria strada.

1.
Dopo una vita a dir poco avventurosa e prima di un'altra vita a dir poco avventurosa – scienziato, fisico, inventore di cucine, spia degli inglesi in America, spia dei tedeschi in Inghilterra e, presumibilmente, spia degli inglesi in Baviera –, Benjamin Thompson conte di Rumford (1753-1814) giunge al servizio del principe palatino, l'elettore Carlo Teodoro, sovrano della Baviera negli ultimi anni del Settecento. Ivi, dimostrando ulteriormente il proprio eclettismo, si occupa di riforme sociali – dall'istituzione di scuole pubbliche all'alimentazione dei poveri che, all'epoca, in Baviera, costituivano il 5% della popolazione. Inventa, allora – in tutta segretezza –, la zuppa Rumford, necessaria e sufficiente per il pranzo del nullatenente e dell'operaio. Tenendo presente che un'oncia vale suppergiù 28 grammi, potrebbe tornare utile conoscerne la ricetta: 1 oncia di orzo perlato, 1 oncia di piselli, 3 once di patate, un quarto di oncia di pane (abbrustolito prima perché ci si impiegasse più tempo per masticarlo – più tempo ci impieghi, più ti sembra di aver mangiato), un quarto di oncia di sale, mezza oncia di aceto e 14 once d'acqua. Il tutto a cuocere per due ore a fuoco lento.
Alludo al fatto che la ricetta fosse segreta perché, all'epoca, in Baviera, la patata non era considerata commestibile. Come parecchi altri alimenti nella storia dell'alimentazione umana ha dovuto superare un tabù.

2.
Nel 1908, il teorico dell'anarco-sindacalismo Georges Sorel pubblica Le illusioni del progresso. Nel terzo capitolo – dedicato alla storia della scienza nel Settecento -, si sofferma anche sulla storia della patata, che definisce “brillante”. Racconta che l'economista Robert-Jacques Turgot cercò di diffondere la patata a Limoges già nel 1761 e che, nel 1765, il vescovo di Castres ne fa l'oggetto di una pastorale; che, prima del 1773, una nobildonna francese convince anche il re di Svezia a piantare patate; che lo stesso Luigi XIII interviene personalmente promuovendo invenzioni gastronomiche aventi la patata per oggetto preferenziale e che, infine, con il Traité sur la culture et les usages des pommes de terre, de la patate et du topinambour di Antoine-Augustin Parmentier, pubblicato nel 1778 e destinato a costituire una pietra miliare, si può considerare concluso il cammino trionfale della patata in Francia. “Dopo esser stato l'ortaggio filosofico” – è la conclusione di Sorel –, la patata, durante la Rivoluzione diventa “l'ortaggio patriottico”. (Questa distinzione meriterebbe un commento. Forse, Sorel attribuisce qui a “filosofico” il significato che, suppergiù, doveva avere all'epoca dell'Illuminismo in Francia, quando i “filosofi” venivano considerati fonte di possibili attentati contro l'ordine costituito, portatori di nuove idee e, pertanto, “rivoluzionari”. Che, con il conferimento del potere a Napoleone, il patriottico prenda il sopravvento sul rivoluzionario – e che, anzi, ne costituisca presto la tomba – è quasi ovvio).

3.
Con metafora odierna, si potrebbe sostenere che, in Italia, la patata giunge già “sdoganata” dalla Francia. O, almeno, quasi sdoganata, perché fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio.
Nel 1777, per esempio, la nobildonna Teresa Ciceri Castiglioni di Como – che aveva avuto delle dritte dalla Francia – pregò Alessandro Volta in procinto di partire per la Savoia di riportarne alcuni esemplari (gli appuntò sulle camicie un bigliettino con scritto “Ricordati di portare le patate”). L'idea, infatti, era già quella di coltivarle per darle da mangiare ai contadini. Più tardi, nel 1785, la Società Patriotica di Milano istituita da Maria Teresa d'Austria ne fece arrivare altre e si cominciò a coltivarle sperimentalmente in alcune zone della Lombardia – nella brughiera della Grovana, a Gallarate, a Somma, nella Valsassina e al Monte di Brianza. A Milano, le prime patate – questa volta di derivazione inglese – furono coltivate nell'orto Botanico del Ginnasio di Brera.

4.
Karl Marx nasce nel 1818. Della sua vita faticosa e della famiglia numerosa – e difficile da mantenere – che formò si sa quasi tutto. Per sua fortuna, poteva contare sul suo amico Frederich Engels. Rifugiatosi a Londra, in una drammatica lettera del 27 aprile 1852, Marx informa Engels che “il fornaio da venerdì non ci darà più pane”. Qualche mese dopo racconta che: “Da otto giorni, ho nutrito la mia famiglia di pane e di patate e mi chiedo se potrò procurarmene oggi. Questa dieta, naturalmente, non è stata molto favorevole, data la temperatura attuale” (8 settembre 1852). In quegli anni, cattiva alimentazione, denutrizione portano a pessime conseguenze: lui, che già soffre di una fastidiosissima foruncolosi al sedere, si ammala agli occhi. La moglie Jenny, la figlia Eleanor e la figlia Jenny si ammalano. Il figlio Edgar (detto Musch) muore.

5.
Torniamo a Sorel. In una nota delle sue Illusioni del progresso, Sorel parla anche dei pregiudizi che sono sopravvissuti riguardo la patata per tutta la prima metà dell'Ottocento. E qui, come esempio, tira in ballo Marx, che, nella Miseria della filosofia – scritta in francese fra il 1846 e il 1847 contro la filosofia di Proudhon –, accusa la patata di “aver provocato gli ascessi tubercolari”, ovvero la scrofola. E dice che il problema è stato trattato da Morel, nel 1857, nel suo trattato sulle degenerazioni. Qui Sorel dileggia Marx. Usa l'argomento della patata per dare consistenza all'impianto critico nei suoi confronti. Per Sorel, infatti, “il grande errore di Marx è stato di non rendersi conto dell'enorme potere che, nella storia, appartiene alla mediocrità; egli non ha sospettato che il sentimento socialista (così come lui lo concepiva) è estremamente artificiale”. Sorel, dunque, si scaglia contro la “mediocrità democratica” e, senza saperlo, diventa il teorico del fascismo. Non a caso, Mussolini lo citerà come propria radice culturale nella voce “Fascismo” dell'Enciclopedia. L'espediente critico, ovviamente, è ingeneroso, perché Marx – come ben sappiamo oggi - non ha tutti i torti. Anche “Virchow studiando le condizioni della popolazione della Slesia”, rilevò che “una dieta a base solo di patate produceva stati di denutrizione”, come ricorda Gilberto Corbellini nella sua storia del pensiero immunologico.

Appendice
A questo punto la conferenza sembrerebbe conclusa – ma soltanto per quel che concerne il significato proprio della patata. La vita di Marx ci porta anche alla considerazione di un aspetto metaforico che non va trascurato del tutto. A casa Marx operava, infatti, anche una domestica. Si chiamava Emma Demuth e, senza prendere il salario, si prendeva cura della famiglia Marx. Anche del capofamiglia. Dorme, infatti, nella stessa stanza dove Marx lavora fino alle tre di notte (la stesura del Capitale e delle altre opere marxiane merita ben il sacrificio di qualche ora di sonno nonché qualche momento di rilassatezza) – e rimane incinta. Per evitare lo scandalo – perché anche per i pensatori rivoluzionari in fin dei conti non è facile liberarsi dei pregiudizi borghesi –, il figlio viene riconosciuto da Engels.
Manca ancora, però, un'osservazione di ordine linguistico. Nora Galli de' Paratesi, nel 1964, ha pubblicato Le brutte parole che, in origine, da sua tesi di laurea si intitolava Semantica dell'eufemismo. In quest'opera, la de' Paratesi registrava e indagava i processi metaforici cui sono stati sottoposti i designanti degli organi sessuali nel tentativo – sociologicamente necessario, politicamente discutibile – di non nominarli con quel che essendo sottoposto a tabù viene chiamato il “loro nome”. Bene, in quest'opera, non viene registrato “patata” come equivalente dell'organo sessuale femminile. E, tuttavia, nel 1982, nella versione italiana di Le sourire di Claude Miller, Emanuelle Seigner si dice certa che Jean-Pierre Marielle ha tutte le intenzioni di “sfondarle la patata” (che, presumibilmente, sarà stata la “patate” – patata dolce – e non “pomme de terre”).
Per quanto potesse amare la patata metaforica, Marx questo non poteva saperlo.
Nell'odio di Marx per la patata, allora, manca qualcosa. Manca la consapevolezza di un processo metaforico che l'avrebbe seguito – di là ancora da venire. E manca per forza di cose: perché per lui la patata ha valore negativo – non solo perché “causa” della scrofola, ma perché “causa” della stessa sopravvivenza del proletariato in quanto “esercito di riserva” del capitalismo. Se poi avesse saputo come il sesso sarebbe stato usato dal sistema capitalistico per assoggettare e opprimere le classi lavoratrici avrebbe detestato anche la patata metaforica.

Felice Accame

Nota
Per la storia di Emma in casa Marx, cfr. P. Durand, Marx, l'amore e il matrimonio, Bertani editore, Verona 1971, pag. 60-61. Il nome della patata vien fatto derivare da “papa”, designante il tubero in quechua, e dall'haitiano “batata” (M. Cortellazzo e P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1985). Va anche tenuto presente, inoltre, che la “patata dolce” in francese si chiama “patate” e che, in francese come in italiano, è stata presto metaforizzata per designare il “tonto”.
Non ricorda forse, questo processo, il “mona” veneto! All'organo sessuale femminile – e non solo a quello femminile – vengono attribuiti disvalori e impersonificati negli stigmatizzati sociali.

Vedi alla voce patata

Patata (fr. pomme de terre; sp. patata; ted. Kartoffel; ingl. potato). La patata (Solanum tuberosum L., della famiglia Solanacee) è pianta annuale, ha rami sotterranei chiamati “stoloni”, che ingrossano trasversalmente alla loro estremità, formando “tuberi” di varia forma e di varia colorazione, i quali tuberi costituiscono appunto la parte commestibile della pianta, e sono ricchi in amido e in sostanze azotate; le radici sono sottili e lunghe, e non tuberizzano.
I fusti sono aerei, eretti, erbacei, ramosi con foglie bianchicce di sotto, pennato-partite con due-tre paia di segmenti grandi ovato-acuminati, alternati con segmenti più piccoli; i fiori in corimbi ascellari, con lunghi peduncoli, sono bianchi, rosei o violetti secondo la varietà; il frutto è una bacca globosa, verdastra, gialla a maturità, con parecchi semi minuti. La patata si moltiplica per tuberi; la riproduzione per semi si fa per avere tipi nuovi, provenienti dall'ibridazione di varietà diverse.
Le patate, in relazione al periodo di maturazione, si classificano in: “precoci”, che sono le prime a maturare nel mese di marzo o di aprile; “medio-precoci”, che producono da 10 a 20 giorni dopo; “semi-tardive” o “medio-tardive”, che maturano da 25 a 40 giorni dopo le precoci; “tardive”, a lungo ciclo vegetativo, maturanti da 40 a 60 giorni più tardi delle precoci. Per l'esportazione dall'Italia interessano le patate “precoci” e “medio-precoci”, perché trovano favorevoli mercati esteri in un momento in cui la produzione in quelle regioni è esaurita, e non è ancora pronta la nuova produzione.

Enciclopedia italiana (1935)


Repubblica Democratica Tedesca (DDR), 1960
I bambini vengono istruiti a riconoscere
e distruggere la terribile dorifora

La dorifora della patata

Impossibile parlare di “Tuberosum Solanum'' (patata) senza imbattersi nella “Laptinotarsa Decemlineata'' (dorifora) ammorsicata com'è alla sua pianta e con le gialle uova deposte, come un racconto, sulle pagine inferiori delle foglie esposte ad est.
Piscinin ma gnuch, tenace, testardo, vorace, senza vergogna, vendetta indiana e insetto “politico'' per eccellenza, usato in tempo di guerra come “arma biologica” reale o di propaganda.
Con le sue orde ha ricolonizzato l'America, invaso il capitalismo come il comunismo, repubbliche e monarchie, dittature e democrazie, è accusato di acriticità verso il potere, in verità questo giallo Gengis Kan a strisce nere persegue un proprio disegno territoriale lungo 12 milioni di chilometri quadrati. La “Meridiana della Dorifora''.
Storia di stalla, sacchi di juta e strada dei carri. Una lunga stalla piena di contadini dalle tinte e lingue diverse, come i molti colori delle tante varietà dei tuberi e i 10 racconti messi per la lunga sulla brillante livrea della Dorifora.
Dedichiamo questa breve dispensa ai bambini di ieri, anziani di oggi, alle donne e uomini che sono andati, vanno, andranno, con tolle, barattoli e bottiglie nei campi di patate a raccogliere dorifore.

Centro Studi Canaja


Le canaje si presentano

La muraille est le papier de la canaille
Si sa solo che seduti in sella
Su di una sola natica
Come nei momenti di riposo
Che colpiscono anche le avanguardie
Essi guardavano il futuro grattandosi il mento
E le file sopravvenienti sbattevano
Bestemmiando su quelle che si arrestavano
(G.L.P.)

Canaja, un nome che viene da lontano, da quel dialetto milanese con venature spagnole, che rimanda ad un'imprecazione da America Latina.
Canaja nasce a metà degli anni '80 (D.C.-Dopo il Ciclostile) come rivista autoprodotta e fotocopiata in proprio, che si propose come progetto “Contenitore”, una pesca a strascico di quello che ancora restava e respirava in tempo di riflusso.
14 numeri tra nullità e genialità, da ricordare il pluripremiato fotoromanzo “Due cuori e una traversa” pubblicato in occasione dei mondiali di calcio in Italia.
A metà degli anni '90, preso atto della fine della sua spinta propulsiva, nel punto ristoro di Benzinopoli, davanti alla raffineria di Pero, la redazione decise di sciogliersi nell'aria morbata di fine secolo.
Il giorno dopo nacque così il Centro Studi Canaja, con lo scopo di fronteggiare una realtà mutata e mutante sulle coordinate di “memoria e confine”.
Nel 1998 esce il libro “C.T. L'Onda assassina”, un corto saggio su uno dei più importanti personaggi della cultura metropolitana. Un Nostradamus popolare, che scrisse le sue centurie sulle pagine d'asfalto dei marciapiedi di mezza Milano.
Nel 2003 in piena colonizzazione fieristica (delle terre a Nord-ovest di Milano) pubblica “TIRritorio – La terra dei TIR”. Un foto saggio auto pagato che tutt'oggi rimane l'unica produzione indipendente.
Con il Collettivo Oltre il Ponte mettono in piedi 2 monumentali esposizioni, una sulla civiltà contadina “Oh Signur di Puaritt, quell di Sciuri el gh'ha i Curnitt” e lo “Stabilimento”, sull'inciviltà industriale. Con la Compagnia musico teatrale Clerici-Ferrè collabora alla ricerca e alla stesura di “Sacro e Profano”, rappresentazione delle tradizioni popolari.
Nel 2014, in collaborazione con il Circolo la Schigera della Bovisa, lancia il progetto “Mondo-IN.FAME”. L'altra Exposizione, accompagnandola con la pubblicazione della DISPENSA, dove l'infamità parte dal diritto al cibo per estendersi all'istruzione, al lavoro, alla salute... Dando seguito al progetto viene proposta a Rho un'iniziativa sull'amianto in quanto l'unica vera exposizione universale.

Centro Studi Canaja