Rivista Anarchica Online





Il Muos è abusivo:
lo dice anche il TAR

Dopo 110 giorni il Tribunale Amministrativo Regionale di Palermo si è pronunciato sui ricorsi presentati contro l'impianto Muos di Niscemi, affermando che il Muostro è illegittimo e pericoloso. Inoltre ha censurato il comportamento del governo Crocetta che precipitosamente, nel luglio del 2013, aveva ritirato la revoca delle autorizzazioni alla costruzione del mega sistema satellitare.
Adesso il governo italiano e la marina militare statunitense si affretteranno ad impugnare la sentenza del TAR, che per la seconda volta ribadisce che il Muos non poteva essere costruito. Ma la Federazione Anarchica Siciliana ritiene che questo risultato non sia il semplice pronunciamento di un tribunale, perché indica, a tutte le persone che hanno allentato la guardia dopo la fine dei lavori alla base NRTF, a quanti hanno provato un senso d'impotenza davanti all'arroganza degli invasori americani e di tutti i loro complici, da che parte è sempre stata la ragione: dalla parte di chi si è opposto con ogni mezzo alla costruzione del Mostro, subendo denunce, repressione, ingiurie e denigrazioni.
Gli attivisti NO MUOS, e noi anarchici con loro, hanno sempre sostenuto che quella base non si doveva costruire, che la Sughereta di Niscemi andava liberata dalla servitù militare; che uno strumento di morte e di guerra, già di per sé nocivo per la salute delle persone e dell'ambiente, non poteva essere accettato.
Oggi, con più forza di prima, la ragione di chi lotta deve imporsi sulla vigliaccheria e la forza dei signori della guerra, invasori, abusivi, indesiderati. Il TAR ha fatto la sua parte, adesso sta agli attivisti, ai comitati, al movimento, alla popolazione, esigere con la mobilitazione, che il Muos venga smantellato e il territorio niscemese definitivamente liberato dalla presenza militare.
Nessuna base di morte – Nessuna guerra – Fuori i militari dalla nostra terra!

Federazione Anarchica Siciliana
federazioneanarchicasiciliana@inventati.org



Carmelo Bene
e il futbol

Non saranno in molti a ricordare L'extra-ordinario del calcio, appuntamento settimanale andato in onda su Tele + sul finire degli anni novanta in cui un compassato Carmelo Bene (1937 Campi Salentina - 2002 Roma) vestiva i panni di commentatore e, in poco meno di cinque minuti, licenziava degli atipici editoriali in materia. Filosofeggiando o, spesso, abbandonandosi a dei lucidi deliri, il geniale Carmelo leggeva e interpretava il futbol sulla scorta di una personale predilezione per i tecnicamente dotati e baciati dalla dea eupalla. E faceva una netta distinzione tra un fantasista e un giocatore, tra un estroso che toccava la palla da brasileiro e tutti gli altri, cioè i calciatori che considerava “manovali della sfera, condannati al ludibrio perpetuo della mutanda”.
Per il novanta per cento della loro durata, secondo Bene, le partite sono sempre spettacoli mediocri e noiosi, solo di tanto in tanto, come avviene in teatro, possono animarsi dal colpo di genio del campione che, con la sfera tra i piedi, trascende i limiti stessi dei gesti consueti. Al dissacratore numero uno del nostro teatro - che darà un'altra convincente prova di esperto pallonaro in Discorso su due piedi (il calcio) (Bompiani, 1998), trascrizione di una conversazione avuta con il critico cinematografico Enrico Ghezzi - non sono mai interessati gli schemi o le tattiche, la routine di una gara o le marcature, il gioco duro o la zona, i gol o il risultato, lui era solo e semplicemente attratto dagli atti, dai gesti straordinari dei solisti, dei funambolici che hanno esistenza a parte nel campo e possono risolvere le partite in qualsiasi istante. “Nel calcio amo l'atto non l'azione - dichiarava - perché l'atto è disintenzionato, è staccato dalla volontà, è manifestazione dell'infinito”.

Carmelo Bene

Non teneva per una maglia in particolare l'attore pugliese, non riusciva a tifare per una squadra, ma si schierava per “chi gioca meglio” e “lascia accadere in campo qualcosa”. Amava e delirava in particolare per due fuoriclasse: l'olandese Marco Van Basten quotato da lui “come uno dei tre attaccanti più grandi di tutti i tempi” e il brasiliano Romario “capace di stare con le braccia conserte o a penzoloni per tutta la partita come se fosse avulso, ma al tempo stesso capace di imprevedibili invenzioni che gli permettono poi di realizzare carrettate di gol”.
A Carmelo Bene stavano sulle scatole quegli allenatori elucubratori di tattiche che mettono il bavaglio all'estro, “infestano le panchine e sono strapagati per umiliare il calcio”. Per questi tecnici, sentenziava, “mai nessuno che ne invochi l'interdizione psichiatrica. Si limitano a licenziarli. Troppo poco. Troppo facile”. La sua acida e sarcastica favella non si accaniva solo sui tecnici, detestava certi commentatori (in un Processo del lunedì di Biscardi fece a pezzi il logorroico Maurizio Mosca) e si scagliava contro il tifo “trasformato in rissa fra giovanotti”.
Forti ed insistenti erano, inoltre, le critiche che rivolgeva alla nazionale italiana, un sentimento di repulsione verso gli azzurri opposto a quello che esprimeva per la seleção verdeoro. “L'ultima volta che ho visto giocare al calcio - scrisse in un articolo - era il Brasile del 1982, il più grande di ogni tempo, quello di Falcao, Cerezo, Socrates”. Sarà stata pure forte la nazionale di Zico, Socrates, Falcao, ma ci permettiamo di non convenire col divino Carmelo. Molto altro era stato il Brasile del trio Didì-Vavà-Pelè e tantissimo superiore fu lo squadrone costruito per i mondiali del 1970 in Messico da quel maestro senza rivali di Joao Saldhana.

Mimmo Mastrangelo



Ricordando Roy Bhaskar/
Filosofo della scienza e rivoluzionario

Roy Bhaskar (15 maggio 1944 - 19 novembre 2014), deceduto a settant'anni per un attacco di cuore, si era dedicato alla filosofia solo dopo avere ricevuto un incarico da ricercatore in economia all'università di Oxford, alla fine degli anni sessanta. Riflettendo sul fatto che la scienza economica non aveva concretamente niente da dire sulle questioni del mondo reale attinenti alla ricchezza e alla povertà, si era impegnato in una ricerca che portò alla fondazione della scuola filosofica che ora si chiama realismo critico.
Il corso di studi umanistici di Oxford definito dalla sigla PPE (philosophy, politics, economy) offriva la formazione ad aspiranti politici e funzionari pubblici, e con molte probabilità avrebbe nella migliore delle ipotesi limitato se non accentuato i problemi sociali, invece di risolverli. Roy decise di offrire strumenti per una comprensione più profonda e strutturata delle problematiche sociali e per dare modo di correggerne le storture.
In breve tempo si era reso conto della difficoltà del problema: la scienza e la teoria sociale in Occidente si basavano su una serie di errori logici che producevano false dicotomie, quali quelle tra individualismo e collettivismo e tra analisi scientifica e critica morale. L'errore più grave, da lui definito “fallacia epistemica”, nasceva dallo studio convenzionale delle forme di conoscenza, cioè dell'epistemologia. I filosofi hanno quasi invariabilmente posto nello stesso modo due interrogativi diversi: “Esiste il mondo?” e “Possiamo provare l'esistenza del mondo?”. Ma è perfettamente plausibile che il mondo esista e che noi non siamo in grado di provarlo, per non parlare della possibilità di arrivare a una conoscenza assoluta di qualsiasi oggetto presente nel mondo.
In questo modo, argomentava Roy, i due campi nei quali si è divisa la sinistra, quello positivista, il quale presuppone che, data l'esistenza del mondo, si potrebbe un giorno averne una conoscenza esatta e predittiva, e quello postmoderno, il quale crede che, poiché tale conoscenza non sarebbe possibile, non ci è per nulla consentito di parlare di “realtà”, non fanno che ripetere diverse versioni dello stesso fondamentale errore. Infatti gli oggetti reali sono proprio quelli le cui proprietà non saranno mai esaurite da qualsiasi descrizione noi siamo in grado di farne. Possiamo avere una conoscenza completa degli oggetti che possiamo costruire.

Roy Bhaskar
(Londra, Regno Unito, 1944-Leeds, Regno Unito, 2014)

L'approccio di Roy utilizzava una versione del metodo trascendentale kantiano, che si chiede: “Che possibilità ci sono che ciò che sappiamo sia vero?” Per la scienza, è necessario porre due domande fondamentali: in primo luogo, perché gli esperimenti scientifici sono possibili, e in secondo, perché sono necessari, al fine di arrivare a una conoscenza verificabile di quelle che gli scienziati chiamano leggi naturali. Come mai è possibile escogitare una situazione in cui si possa prevedere esattamente che cosa succederà, quando, per esempio, l'acqua viene riscaldata a una certa temperatura in un ambiente controllato, e invece non si possono mai fare previsioni simili in un ambiente naturale? Per quanto vaste siano le nostre conoscenze scientifiche, per esempio, non siamo ancora in grado di fare previsioni meteorologiche precise. Perché, in altre parole, ci vuole tanto lavoro per creare una situazione in cui si sa esattamente che cosa accadrà?
Roy giunge alla conclusione che il mondo deve essere costituito da strutture e meccanismi che esistono indipendentemente, che sono perfettamente reali, ma che devono anche essere “stratificati”, secondo il termine da lui utilizzato. La realtà è fatta di “livelli emergenti”: la chimica emerge dalla fisica, per il fatto che le leggi della chimica comprendono quelle fisiche, ma non sono riducibili a quelle; la biologia emerge dalla chimica e così via. A ciascun livello c'è un qualcosa di più, una sorta di salto verso un nuovo livello di complessità e anche, sostiene Roy, di libertà. Un albero è più libero di un sasso, proprio come un essere umano è più libero di un albero. Quello che si fa in un esperimento scientifico, pertanto, è l'eliminazione di tutto tranne un meccanismo a un livello emergente di realtà. Il che richiede un lavoro enorme. Ma nelle situazioni del mondo reale, per esempio nella meteorologia, sono sempre presenti meccanismi di ogni genere a vari livelli emergenti, che operano insieme, e il modo in cui interagiscono sarà sempre intrinsecamente imprevedibile.
I libri che illustrano le sue tesi, A Realist Theory of Science (1975) e The Possibility of Naturalism (1979 – trad. it. Le possibilità del naturalismo, Marietti 2010), hanno fatto di Roy una delle voci più influenti nel campo della filosofia della scienza.
In seguito applicò il suo metodo alla critica del new realism di Tony Blair, che veniva fatto passare come un tardo adeguamento ai fatti della vita politica. Roy sostenne che il new realism non riconosceva le strutture sottese e i meccanismi che l'originavano, come la proprietà e lo sfruttamento della manodopera, i quali producevano fenomeni ed eventi osservabili: bassi salari e condizioni di lavoro intollerabili. In altri termini, il New Labour si basava su un realismo del tipo più superficiale. Roy illustrò queste e altre implicazioni politiche al Gruppo di lavoro filosofico delle conferenze socialiste di Chesterfield, che alla fine degli anni ottanta erano legate alle figure di Tony Benn e a Ralph Miliband. Il suo studio uscì poi in forma di libro dal titolo Reclaiming Reality (2011).
Roy fu un rivoluzionario in politica. L'obiettivo unificante della sua opera era quello di stabilire come il perseguimento del sapere filosofico comportasse necessariamente la trasformazione della società; la lotta per la libertà e la ricerca del sapere in ultima analisi coincidevano.
Il suo impegno nel mondo era fatto di attenzione, di allegria, di scarso senso pratico, in continua evoluzione e teso a imparare. Non cessava mai di annunciare nuove rivoluzioni. Negli anni novanta affermò che la dialettica hegeliana (tesi-antitesi-sintesi) altro non fosse che una versione originale e precipua del principio universale che stava alla base di ogni pensiero e sapere umano. Si avviava così la seconda fase del suo pensiero, che culminò con la pubblicazione di un libro dall'ambizioso titolo Plato Etc: The Problems of Philosophy and Their Resolution (1994), ispirato dalla celebre frase di Alfred North Whitehead, “tutta la filosofia è solo una nota a margine su Platone”.
Roy si era reso conto che Whitehead si riferiva solo alla filosofia occidentale; il rispetto per tutte le manifestazioni del pensiero umano imponeva un impegno anche verso la filosofia orientale. Il che doveva comportare una seria riflessione sulle idee spirituali, un ambito dell'esperienza umana che la sinistra aveva abbandonato nelle mani della destra fondamentalista. In una serie di libri, soprattutto in The Philosophy of MetaReality: Creativity, Love and Freedom (2012), Roy sostenne la necessità di considerare le esperienze spirituali quali caratteristiche costanti della vita quotidiana: ogni atto positivo di comunicazione è in effetti un esempio del principio spirituale del non dualismo, ove le due parti diventano momentaneamente una stessa persona.
Questa evoluzione del suo pensiero produsse accese dispute tra i sostenitori del realismo critico, ma Roy non smarrì mai la sua sorridente generosità di spirito, svolgendo un ruolo attivo nel Centre for Critical Realism e nell'International Centre for Critical Realism, mai cessando di avanzare progetti, visioni e idee.
Era nato a Teddington, un quartiere a ovest di Londra, suo padre, Raju Nath Bhaskar, era un operatore sanitario di origine indiana, sua madre Kumla Marjoorie Skills era inglese. Roy aveva studiato alla St Paul's School di Londra, si era laureato nel 1966 in scienze umane al Balliol College di Oxford. Lì conobbe Hilary Wainwright, che come lui era critica nei confronti del piano di studi PPE ed era impegnata nel movimento studentesco: nel 1971 si sposarono e continuaro a collaborare intellettualmente e politicamente fino alla morte di Roy.
Roy si batté per tutta la vita contro le convenzioni del pensiero filosofico accademico. Dopo aver lavorato come ricercatore in economia al Pembroke College di Oxford, ebbe incarichi al Linacre College di Oxford, all'Università di Edimburgo, al Collegio di Studi Avanzati in Scienze Sociali di Uppsala e all'Università di Tromso in Norvegia.
Nel 2008 gli fu amputato un piede a causa della malattia di Charcot, era finito su una sedia a rotelle e campava grazie a uno stipendio ridotto come studioso presso l'Institute of Education di Londra. Ciò nonostante restò una persona di insuperabile energia e inventiva, di una gentilezza quasi sovrannaturale, senza mai perdere il buon umore.
Lascia la sua seconda moglie e assistente Rebecca Long, la prima moglie Hilary e suo fratello Krish.

David Graeber
traduzione dall'inglese di Guido Lagomarsino
Originariamente apparso su The Guardian il 4 dicembre 2014


Il simbolo Mattarella




Ucraina e Crimea/
Alle radici del conflitto

Nel caso dell'Ucraina, la semplice sovrapposizione dei confini statali attuali ad una serie di carte politiche storiche (dal 1200 ad oggi) e di carte linguistiche evidenzia quanto i confini di oggi siano “costruiti”. Cioè quanto siano il risultato (soprattutto nel XX secolo) di vicende belliche sempre più intrecciate al conflitto ideologico seguito alla rivoluzione russa del 1917 e alla costituzione dell'URSS. Si possono notare 3-4 «Ucraine» ciascuna dai confini incerti o sfumati, ad eccezione della Crimea che è una penisola ben definita. L'Ucraina occidentale, a lungo (250 anni) sotto il controllo Polacco-lituano, la cui parte più a ridosso dei Carpazi e intorno alla città di Leopoli è stata della Polonia tra 1920 e 1945 e prima dell'impero austroungarico. L'Ucraina orientale, dai contorni indefinibili, storicamente più legata all'Asia e alle ripetute invasioni mongole e tatare ed alla riconquista moscovita di questi territori. L'Ucraina centrale, di Kiev e a cavallo del fiume Dnepr fino ad Odessa e il mar Nero, corrispondente alla storica Rus di Kiev (IX-X secolo) che i russi («di Mosca») considerano culla della loro storia religiosa e linguistica. Infine la Crimea, con una storia (che coinvolge anche l'impero ottomano), una conformazione geografica peninsulare ed un clima che ne potrebbero fare una caso a sé.
Le differenziazioni tra russo e ucraino (e bielorusso) possono provocare una guerra accademica tra linguisti e/o esperti di letteratura, ma solo strumentalmente per rivendicare appartenenze identitarie e affermazioni di diversità/separazione «da sempre», viste le frequenti «sovrapposizioni» storiche e gli intrecci culturali intercorsi. In concreto l'Ucraina coi confini attuali ha la distribuzione dei due maggiori gruppi linguistici parlati, con i russofoni maggioritari a est e gli ucrainofoni a ovest e la parte centrale di Kiev variamente sfumata nel passaggio linguistico tra le due parti dell'est e dell'ovest. La Crimea è maggioritariamente russofona (58%) con una significativa presenza tatara (12%).
L'impero degli zar e soprattutto i settant'anni di Unione Sovietica hanno lasciato il segno omologante sia sulle strutture urbane che nelle abitudini di vita. Il processo di cambiamento e di differenziazione, anche socio-economica individuale, in Ucraina è iniziato solo dopo la fine dell'URSS (1991) ed è quindi un fatto molto recente che ha interessato più le aree a contatto con l'Unione Europea rispetto a quelle geograficamente più lontane dell'est, la cui economia è ancora strettamente legata a miniere, acciaierie e industrie del periodo sovietico e quindi alla Russia. Le aree linguistiche corrispondono quindi, a grandi linee, anche ad aree socio-economiche.
Dal punto di vista religioso la maggioranza degli ucraini si dichiara non religioso; per il resto, pur nell'ambito di una generale diffusione largamente maggioritaria della religione cristiana ortodossa, ci sono divisioni interne sia con la chiesa di rito orientale, ma unita (da cui il termine «uniate») alla chiesa cattolica e più presente a ovest e nel centro, che con le due chiese/patriarcati «autocefali» che non riconoscono l'autorità del patriarcato di Mosca, con posizioni e argomenti simili al nazionalismo politico e con diffusione più forte nel centro (e ovest).
La Crimea, luogo di vacanza dall'epoca imperiale e poi sovietica, con Sebastopoli base militare navale russa di primaria importanza da almeno un paio di secoli, può (e potrebbe) essere un mondo a sé. «Passata» all'Ucraina nel 1954 per decisone squisitamente iconografico-politica (commemorare i 300 anni dall'unione politica di Kiev con Mosca) all'interno di un sistema di repubbliche (URSS) indifferenziate socio-economicamente e ideologicamente “sorelle”, i suoi cittadini russofoni considerano l'avvenuta (anche se non riconosciuta) reintegrazione nella Federazione Russa come un «ritorno a casa»; e così i russi. Sul piano pratico e anche su quello iconografico questo cambiamento geopolitico ha tutte le caratteristiche per poter essere «indolore»; le questioni pratiche (es.: titolarità dei funzionari pubblici, pagamenti e tasse, monete di scambio, import-export, ecc.) possono essere risolti su un piano pratico funzionale.
Purché non vengano poste le questioni della sovranità lesa e dell'integrità territoriale da non modificare.
Nel caso Crimea la ben identificabile separazione fisica ha favorito una dinamica che non è stata cruenta; anche la presenza militare russa nella base di Sebastopoli, e non solo, ha certo contribuito a smorzare velleità di azioni di forza da parte del governo di Kiev, che era inoltre ancora in preda agli scompensi che un cambiamento rapido di regime e leader comporta.
Più complicato il caso delle regioni ribelli dell'est Ucraina che pure hanno una situazione socio-economica simile alla Crimea, ma con due deficit rilevanti rispetto a quella: 1) non erano già presenti le truppe russe (anche se ci sono oltreconfine); 2) manca una possibile delimitazione «naturale», fisica, cui trasferire iconograficamente il senso della richiesta di indipendenza; i confini sono quelli amministrativi decisi in periodo sovietico. Anche questa dinamica avrebbe potuto essere gestita sul piano funzionale (con una trattativa sul grado di autonomia da concedere) e senza arrivare alla secessione dei territori. Ma in questo caso i due fattori mancanti hanno dato più peso ai tabù politico-mentali e ai mantra mediatici della sovranità intaccata e dell'integrità territoriale da difendere «a qualunque costo» che hanno avuto il sopravvento; e quando da ambedue le parti si mobilità l'iconografia della patria e ci si considera reciprocamente terroristi le possibilità di negoziazione si riducono a quasi niente e non resta sul campo concreto che la vittoria del più forte (se c'è) o una strisciante conflittualità asimmetrica il cui prezzo viene pagato prevalentemente dai civili. In questo contesto anche «un grave fatto» come l'abbattimento di un aereo civile con quasi trecento passeggeri (luglio 2014), con il solito reciproco scambio di attribuzione di responsabilità, ha portato solo a degli accordi a inizio settembre 2014, ma mai efficaci ad interrompere la spirale di violazioni e ritorsioni sul terreno. E a livello dei decision makers e mediatico la forza simbolica di sovranità e integrità territoriale è ancora molto, molto forte.
Nel caso Ucraina, l'Occidente si è schierato subito con il nuovo governo ucraino dopo la fuga del presidente Janukovic che, pur essendo stato eletto democraticamente nel 2010, a detta dei mass media occidentali avrebbe perso la propria legittimità per la repressione cruenta dei manifestanti di piazza (un centinaio di morti). Anche Bashar Assad, presidente siriano, avrebbe perso la propria legittimità, se mai l'Occidente gliel'ha mai concessa, perché ha bombardato i quartieri delle città occupati da gruppi armati ribelli (variamente finanziati da Qatar, Arabia Saudita, Turchia e… Occidente). Il generale egiziano Al Sisi, autore di un colpo di stato contro il presidente eletto democraticamente, che ha provocato nel giro di qualche mese più di mille morti tra i manifestanti di opposizione, la messa fuori legge del partito del vecchio presidente (incarcerato), con condanne a morte in blocco a centinaia di attivisti dei Fratelli Musulmani accusati di terrorismo, sembra non aver perso legittimità perché un Egitto di nuovo gestito dai militari è funzionale alla struttura egemonica cioè alla cosiddetta «stabilità», in particolare del Medio Oriente così come lo concepiscono le potenze egemoni.
La logica della sovranità, dell'integrità territoriale indiscutibile nel quadro del doppio standard nel valutare le crisi non fanno altro che alimentarle invece che risolverle. E chi paga sono i civili.

Fabrizio Eva