Rivista Anarchica Online


pedagogia

Le sfide dell'educazione libertaria oggi

di Francesco Codello


La vera rivoluzione pedagogica ruota attorno a un principio fondamentale: sostituire la cultura adulto-centrica con una reale prospettiva bambino-centrica. Questa la tesi centrale della postfazione alla recente riedizione del volume di Joel Spring “L'educazione libertaria”.


A Primer of Libertarian Education, pubblicato negli Stati Uniti nel lontano 1975 e tradotto per la prima volta dalle edizioni Antistato nel 1981 con il titolo L'educazione libertaria, conserva ancor oggi, a quarant'anni dall'uscita, un'attualità e una freschezza apprezzabili.
L'autore, docente di pedagogia alla City University di New York, nei sei capitoli di cui si compone il testo affronta alcune tra le più importanti questioni che ogni studio e riflessione sull'educazione libertaria deve porsi, se si vuole essere all'altezza delle attuali e ormai ineludibili sfide in ambito pedagogico e scolastico. In una prospettiva di liberazione anti-autoritaria, appare quanto mai urgente, di fronte alla crisi irreversibile dei sistemi educativi (famiglia, scuola, società), indicare possibili alternative e sperimentare pratiche che riportino l'educare alla sua imprescindibile connotazione originaria di ex-ducere (tirare fuori), piuttosto che a quella prevalente di plasmare (formare) e riempire. Spring affronta in maniera essenziale, ma non per questo poco documentata, l'evoluzione del concetto di educazione libertaria, a partire dalle prime intuizioni di William Godwin e Max Stirner, fino a educatori come Alexander S. Neill, Wilhelm Reich, Paulo Freire e Ivan Illich, che nel corso del ventesimo secolo hanno contribuito a definire i principali tratti concettuali di questo filone pedagogico.
Il punto di partenza che l'autore sottolinea è quello di una concezione della pedagogia libertaria come mezzo per trasformare la realtà. E non poteva essere altrimenti se si colloca questa prospettiva educativa all'interno di quelle che per Spring sono le tre principali idee radicali che storicamente si sono fatte carico di promuovere una vera e propria rivoluzione in questo ambito: l'anarchismo, il marxismo critico, la sinistra freudiana. L'anarchismo parla soprattutto attraverso l'opera di Stirner, tesa a smontare le idee dominanti che si sono impadronite di ogni singolo essere umano e dalle quali occorre liberarsi. Il marxismo e la sua analisi solida e precisa del mondo industrializzato trovano espressione in Freire e nelle sue critiche alla concezione depositaria dell'educazione. Reich dà sostanza, con le sue idee analitiche, alla necessità di modificare la complessa struttura caratteriale attraverso una visione psicoanalitica opposta a quella giustificativa freudiana borghese. Ecco che, in questo quadro storico interpretativo, l'autore affonda la sua critica severa nei confronti della famiglia, della repressione sessuale, della condizione della donna e di ogni sorta di autoritarismo, ovvero quella logica del dominio di cui è intrisa ogni istituzione sociale. Tutto questo anche attraverso la descrizione di alcune tra le più rilevanti esperienze di educazione libertaria, ognuna delle quali portatrice, a suo avviso, di uno o più tasselli che vanno a comporre una visione sempre più complessa e articolata della prospettiva anti-autoritaria in ambito educativo.

Nuova edizione del volume
pubblicato nel 1988 da Elèuthera
(pp. 176, € 14,00)

La morte della scuola

Sono due, a mio giudizio, le questioni che assumono in questa disamina un posto centrale, intorno alle quali è possibile cercare di costruire una critica radicale delle realtà istituzionali che governano la riproduzione del consenso e della sottomissione. La prima, che parte da Godwin e arriva a Paul Goodman, Ivan Illich e a tutte le istanze descolarizzatrici, riporta al centro della discussione l'attualità della «morte dell'istituzione scuola» così come l'abbiamo concepita fin dalla nascita degli Stati-nazione nel diciassettesimo secolo. La seconda, peraltro collegata alla prima, è l'idea sviluppata da Philippe Ariès, nel suo ormai classico libro Padri e figli nell'Europa medievale e moderna, circa la necessità di liberare il bambino dal concetto di infanzia.
Naturalmente, dopo il lavoro di Spring, numerosi sono stati gli studi che hanno sviluppato questi e altri contigui filoni di ricerca, e la letteratura internazionale è vasta e variegata. Ma continuare a scrivere questa storia e a sviluppare queste idee è non solo fondamentale ma anche utile per evitare di fossilizzare i correlati valori di libertà, autonomia, responsabilità, offrendo nuovi spunti e incentivi critici a ulteriori sperimentazioni. Il punto di partenza può essere l'ultimo capitolo del lavoro di Spring, proprio perché capire la realtà presente e intuire alcune prospettive future rappresenta la vera sfida di questa impostazione libertaria.
La questione che Spring pone rispetto al peso che l'ideologia dell'infanzia mette in campo nel definire i presupposti dell'educazione è di estrema attualità. Noi assistiamo oggi a un'overdose di attenzioni più o meno interessate che l'intero sistema sociale e culturale riversa sui bambini e sulle bambine fin dai primi mesi della loro vita. Paradossalmente, quello che la pedagoga svedese Ellen Key prevedeva in un suo fortunato libro, Barnets århundrade (Il secolo dei fanciulli), già nel lontano 1906 si è in effetti concretizzato in un periodo storico durante il quale abbiamo assistito a una vera e propria esplosione di attenzioni intellettuali e culturali nei confronti delle generazioni dei più piccoli. Ma queste considerazioni sulla centralità di una dimensione spazio-temporale della vita, l'infanzia appunto, ha finito per produrre nelle pratiche educative comuni e tradizionali una sorta di dominazione adulta senza precedenti. Mai come in questo inizio di secolo l'intera società, in tutte le sue manifestazioni, ha prodotto così tanti studi e ricerche che hanno coinvolto innumerevoli ambiti disciplinari e intere politiche sociali e statali. Mai come ora le giovani generazioni sono state oggetto di una così elevata attenzione che le ha poste al centro di programmi politici e strategie di consumo e vendita che hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro e di moralismo. Ma il paradosso che ora emerge chiaramente è che, a fronte di questa massiccia azione globale che ha al centro la formazione, lo studio, l'analisi a tutto campo, assistiamo a una violenta e spesso sottile opera di manipolazione di milioni di bambini e ragazzi. Infatti, mai come ora l'edulcorata infanzia è afflitta da problemi e tragedie di varia natura (fisiche, psicologiche, materiali, culturali), che le notizie di cronaca non smettono di raccontarci.
Nel momento del massimo investimento si evidenzia il massimo disastro al quale sono sempre più assoggettati i piccoli e gli adolescenti. Cercare le ragioni di questo mostruoso imbroglio è quindi importante e quanto mai urgente. Una possibile chiave di lettura può essere proprio questa ideologia dell'infanzia, così come si è venuta delineando in anni di teorie e di ricerche. Infatti, se abbiamo separato drasticamente le fasi della vita degli esseri umani, ne abbiamo probabilmente anche ghettizzato le caratteristiche, a scapito di una più autentica specificità libera da dogmi e verità. È possibile che questa ideologia, nascondendosi dietro falsi miti e contraddittorie considerazioni, sia stata in realtà la formula più efficace per produrre quella che appare come la più pervasiva dominazione adulta.

Resistenza al potere degli adulti

Quelle che le varie scienze psichiche e mediche, insieme alle teorie sociali e pedagogiche, definiscono come patologie potrebbero allora essere interpretate come risposte di resistenza e di disagio, di rifiuto e di contrasto, a un imperante potere degli adulti e dei loro modelli di riferimento. Collocarsi in questa prospettiva ci farebbe cambiare l'intera postura che assumiamo nelle relazioni educative, inducendoci a sperimentare rapporti non adulto-centrici. Scuola, famiglia, associazionismo, ecc., seguendo questa nuova visione, ne risulterebbero radicalmente cambiati e forse una società più libera, autonoma, responsabile, potrebbe finalmente emergere.
L'opera da intraprendere è pertanto quella di considerare bambini e bambine (nei fatti, non solo in teoria) come soggetti autonomi e liberi delle relazioni educative e sociali, e non più come oggetti. Infatti, questa nuova prospettiva è in grado di mettere in crisi il predominio adulto che si esprime in termini relazionali, educativi, sociali, culturali, economici e psicologici. L'infanzia è divenuta, come già scriveva Spring, una sorta di terreno di caccia per un'infinità di operazioni seduttive e manipolative che si concretizza in variegate azioni di notevole impatto.
Grazie all'enfasi posta su questa ideologia «infantilistica», la condizione delle giovani e giovanissime generazioni presenta oggi una serie di devastanti condizioni. I bambini e le bambine sono sempre più iper-gestiti dall'adulto, divenendo l'oggetto di un'ansia e di un'attenzione mai viste prima nella storia, e questo a partire dalla convinzione, chiaramente interessata, che l'infanzia in quanto tale è troppo preziosa per essere lasciata nelle mani dei bambini. L'invasione tecnologica si traduce a sua volta in un'ipertrofia del controllo, che entra in scena ancor prima della nascita, fin dal concepimento. Cibo, giochi, attività, spostamenti, sport, ecc., sono sistematicamente monitorati, programmati, controllati, pensati e organizzati sempre dall'adulto e dalle sue visioni. I risultati di questa colonizzazione sono riconoscibili anche in ambito psicologico e medico: obesità, bulimia, anoressia, disturbi cardio-vascolari, logoramento degli arti per l'eccessiva dimensione competitiva dello sport rispetto a quella naturalmente ludica. Inoltre, depressione e auto-lesionismo sono ormai presenti in maniera costante e diffusa nelle nostre comunità. I dati diffusi da diverse fonti nazionali e internazionali parlano di un bambino su cinque che soffre di disturbi psicologici, di patologie mentali che fra pochi anni costituiranno una delle prime cause di morte e invalidità tra i giovani, di tentativi di suicidio tra gli adolescenti in spaventosa crescita, senza considerare il fenomeno tipicamente giapponese (ma in espansione nel resto dei paesi industrializzati) degli adolescenti-eremiti (Hikikomori) che non escono dalla loro stanza anche per mesi e comunicano con il mondo esterno solo attraverso le tecnologie digitali.
I modelli prettamente consumistici che il mercato per l'infanzia ci ha imposto ruotano attorno a celebrità, successo, competizione, bellezza, producendo una crescente dipendenza da tutto ciò che il mercato stesso offre per raggiungere quegli obiettivi, compresi i farmaci per gestire l'ansia da prestazione e le sconfitte che questa selezione consumistica produce.
Insomma, bambini e bambine, adolescenti e giovani, sono diventati dei veri e propri progetti per il complesso mondo adulto che li circonda. Ciò che conta non è tanto stimolare una relazione educativa che permetta e inciti i vari soggetti a essere ciò che sono e a diventare ciò che desiderano, quanto collocare il trofeo giusto nella bacheca giusta e barrare la casella opportuna per essere «degni» membri di questa società.
Un elevato narcisismo ha imposto una trasformazione quasi genetica del nostro essere rendendoci, attraverso la seduzione che la logica del consumo esercita, esistenze che cercano di consolidarsi con sguardi continui e rassicuranti, ma soprattutto riflettenti in uno specchio che ci impedisce di vedere gli altri. I nostri piccoli sono ormai divenuti una sorta di api operaie, eccellenti nel procedere secondo le regole del sistema, incapaci di una scintilla di originalità. Ciò che conta in realtà è sempre quello che vogliono gli adulti, i quali alternano comportamenti, peraltro speculari, che oscillano tra autoritarismo e permissivismo, esercitando il proprio ruolo di padri amiconi e madri giovanili, nella convinzione di poter così penetrare più efficacemente nelle coscienze «infantili».

Uniformare per controllare

L'altra grande questione che occorre affrontare è quella della sempre più necessaria trasformazione della scuola partendo proprio da queste considerazioni generali sull'idea di infanzia. A partire da Goodman e Illich, ma volendo già da Godwin, il ruolo dell'istituzione scolastica è stato svelato nella sua natura più intrinseca: uniformare per controllare secondo le necessità dello Stato e degli interessi di ogni forma di dominio. La scuola, così come la conosciamo a partire dall'avvento degli stati-nazione, ha appunto assolto questo compito, estendendo sempre più il suo ruolo di formazione istituzionalizzata e isolandosi progressivamente dalla vita reale e viva delle varie comunità.
Il processo di globalizzazione ha avuto un ruolo predominante nell'affermazione di un pensiero unico sia a livello culturale che di rappresentazione immaginaria, traducendosi in due concetti che sono diventati i capisaldi delle varie politiche internazionali a cui i sistemi scolastici nazionali hanno subito aderito: la pedagogia delle competenze e il concetto di meritocrazia. Attorno a questi due capisaldi si sono uniformati i comportamenti governativi e professionali che incidono sulle strategie scolastiche e sulle pedagogie dell'apprendimento. In realtà, come ho scritto più volte (cfr. per esempio La pedagogia delle competenze e la Meritocrazia, «Libertaria», a. 13 n. 1-2, gennaio-giugno 2011), si tratta di azioni che nascondono nuove forme, più sottili e aggiornate, di selezione e di dominio. Ma appaiono inevitabili anche altre considerazioni che rivelano alcuni contrasti insanabili all'interno di questa logica, accomunando i vari obiettivi sia di conservazione che di riforma dei sistemi scolastici. Il primo è quello dell'inconciliabile relazione tra velocità dell'economia globale e sacrosanta lentezza dei processi di acquisizione delle conoscenze. Apprendere richiede tempi, spazi, pause e riflessioni che mal si conciliano con le logiche imperanti dell'efficienza così come sono declinate nel pensiero dominante. Il sapere viene consumato e diviene a sua volta un consumo, allontanandosi sempre più da quel senso originario di ricerca condivisa e sperimentata che dovrebbe caratterizzarlo, soprattutto se si desidera che divenga interiorizzazione di conoscenze e non semplice spot di informazioni banalizzate.

Francesco Codello

La logica mercantile tra i banchi

Ciò che domina il panorama culturale è una formazione-addestramento a un sapere specifico, veloce, frammentario, che appare lontano da una problematizzazione articolata e generale del senso della conoscenza. Il secondo contrasto mi pare si evidenzi nella realizzazione di un'informazione globale diffusa che si sviluppa in parallelo a una progressiva ed estesa mancanza di apprendimento profondo. La maggioranza degli esseri umani che vivono nei paesi ricchi del mondo possiede molte informazioni ma poche conoscenze, quasi che queste non fossero più indispensabili per poter esercitare una cittadinanza attiva e consapevole. Il bombardamento e la velocità con cui si diffondono e consumano le informazioni costituiscono dei veri e propri ostacoli alla sedimentazione e metabolizzazione di ogni conoscenza che sia strumento di revisione e critica fondate e documentate. Il terzo grande contrasto che si produce è rappresentato da un'invadente abbondanza di stimoli e suggestioni senza corrispondenza alcuna con il tempo necessario alla sperimentazione, cosa che comporta un progressivo impoverimento dell'esperienza.
La psicologia dell'età evolutiva e il marketing per l'infanzia lavorano da tempo fianco a fianco per omologare un ideal-tipo di bambino e adolescente tramite operazioni di matrice consumistica che hanno trasformato il gioco in sport competitivo o l'abbigliamento in divise firmate, provocando la scomparsa di comportamenti, linguaggi, desideri ritenuti pericolosi, devianti, patologici.
Accanto a fenomeni di questa natura, la scuola è stata investita da una crescente strumentalizzazione volta ad asservirla alla logica mercantile: oggi non ci sono più esseri viventi, contradditori, diversi, che la abitano, ma «risorse umane», merci economiche che devono essere sempre e ovunque disponibili per un mercato globalizzato e funzionale alle nuove divisioni del lavoro su scala planetaria. La stessa istituzione scolastica è divenuta un'impresa industriale di servizi che ha fatto proprie le logiche di gestione e organizzazione prettamente aziendali, e sempre più florido appare anche il mercato dell'istruzione. Ormai la logica dominante è quella della selezione dei cosiddetti migliori e non quella di una valorizzazione delle capacità specifiche di ogni allievo. Come aveva ben intuito Illich, la grossa fetta di PIL che gli stati investono nel sistema educativo è strettamente funzionale a un disegno di condizionamento formativo in grado di reggere il passo con le esigenze del mercato del lavoro internazionale (ed è in questo quadro che vanno lette, per esempio, le raccomandazioni della Comunità europea rispetto alla pedagogia delle competenze). A tutto questo concorre la massiccia penetrazione nel sistema scolastico delle nuove tecnologie per l'apprendimento, che molto spesso non fanno altro che rafforzare, con altri mezzi, la centralità della lezione frontale, sfruttando quella parte di cervello votata allo sviluppo della dimensione iconica e visiva della personalità. Il ruolo dell'istruzione è sempre più quello di dare agli studenti la capacità di interpretare i cambiamenti attraverso l'offerta di strumenti finalizzati al mero adattamento. Il sistema educativo, insomma, si configura sempre più come mezzo di legittimazione delle nuove divisioni sociali – i connessi perenni rispetto agli esclusi dall'era dell'accesso – nel contesto di una società che ha superato, nelle sue parti più sviluppate, l'epoca industriale. Si va così consolidando una nuova stagione del sistema della conoscenza, intesa come somma di informazioni e basata su una sopravvalutazione della dimensione meta-cognitiva a scapito di una visione sempre critica della conoscenza stessa. Non solo, ma si delinea una nuova visione dell'uomo stesso, non più legata a un senso filosofico dell'esistenza, bensì improntata a uno spirito imprenditoriale diffuso che vorrebbe piegare ogni aspetto della vita alle logiche dell'impresa.

L'aristocrazia del talento

La grande sconfitta del privilegio ereditario ha lasciato il posto a una nuova presunta aristocrazia del talento che conserva i vizi della tradizionale classe aristocratica, in quanto i nuovi «meritevoli» non riconoscono obblighi reciproci con gli altri e si considerano inattaccabili. Queste élite si nutrono di un'auto-stima infinita e fanno del narcisismo un elemento di forte differenziazione e discriminazione, anche posturale, nei confronti del resto degli uomini e delle donne che non ce l'hanno fatta a emergere in questa competizione selvaggia.
Ecco dunque che, in base a queste considerazioni, appare del tutto attuale riprendere in esame le teorie della descolarizzazione di Goodman, Illich e altri. Se la scuola è morta, perché defunta è la sua forza propulsiva ed emancipatrice per le classi meno abbienti, resta il dovere di pensare e realizzare spazi, tempi, modalità, obiettivi di una nuova stagione educativa. In un progetto come questo, la pedagogia libertaria ha ancora molto da dire e da suggerire, offrendo a chi ha davvero a cuore un'autentica e completa emancipazione degli esseri umani le sue idee originali e innovative. La storia delle esperienze educative libertarie, così come si sono realizzate a partire da Tolstoj, Faure, Robin, Ferrer e molti altri (cfr. La buona educazione. Esperienze libertarie e teorie anarchiche in Europa da Godwin a Neill), insieme alle numerose scuole democratico-libertarie che vivono e praticano oggi questi principi in tutti i continenti, sono la testimonianza concreta della possibilità di attuare una radicale rivoluzione dei sistemi educativi e di istruzione.
La forza dirompente che i principi e le pratiche di queste realtà educative mettono in campo rappresenta un motore di cambiamento alla portata di tutti, in tempi prossimi e non remoti. La vera rivoluzione pedagogica ruota attorno a un principio fondamentale: sostituire la cultura adulto-centrica con una reale prospettiva bambino-centrica. Ciò significa, traducendo questo assioma concettuale in azioni e sperimentazioni nell'ambito dell'istruzione e dell'educazione, che il centro da cui partire per sviluppare tutta l'organizzazione dell'acquisizione delle conoscenze è rappresentato dai tempi, modi, stili, specificità, motivazioni, domande dell'apprendimento (del soggetto che apprende), al posto di un apparato scolastico che ha al centro del proprio sistema quello dell'insegnamento (del soggetto che insegna). Se si parte da questa concezione capovolta dell'educazione e dell'istruzione, se si garantisce una visione filosofica dell'educazione come «educare a essere» e non a «dover essere», è forse possibile offrire alle future generazioni un mondo più libero e felice di quello che tutti noi stiamo vivendo.

Francesco Codello


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