Rivista Anarchica Online




Charlie va alla guerra

Non c'è niente di nuovo, e ancora una volta, non è la storia a ripetersi, ma solo l'uomo.
Il 7 gennaio 2015, in altri termini, diventerà presto una data, un punto nel tempo, come tanti altri. Alcune persone sono state uccise, altre sono state accusate. La tragedia – poiché comunque di questo si tratta: morti improvvise, molto sangue, vite spezzate – si è trasformata in tesi politiche, riflessioni sociologiche, farneticazioni demagogiche oppure autentiche indignazioni, strumentalizzazioni a mazzetti. Poi ci son state mobilitazioni contro le strumentalizzazioni, e a seguire nuove strumentalizzazioni delle strumentalizzazioni delle strumentalizzazioni...
A un certo punto di questo percorso, mi sono persa. Mi sono trovata a chiedermi cioè in quale momento esattamente la mobilitazione popolare, l'autentico dolore soprattutto dei ragazzi giovani, la loro volontà di essere davvero dalla parte degli artisti uccisi della redazione di Charlie Hebdo sia stata trasformata in un movimento inutile, svuotato, usato.
E mi sono anche chiesta se non potevamo, noi adulti (e soprattutto quel genere di adulti che si fregiano del titolo di “figura pubblica” o “personalità politica”) fare qualcosa di meglio che ricordare ancora una volta a questi ragazzi in mobilitazione che non contano nulla e non capiscono nulla di quel che accade realmente nel mondo.
Non ho una particolare simpatia per l'effetto gregge, e sono certa che esso abbia avuto un peso molto consistente nella circolazione virale sul web di “Je suis Charlie Hebdo” dopo gli attentati di Parigi del 7 gennaio. Credo che molta gente – persone normali e figure pubbliche – abbiano indossato la protesta in modo poco plausibile e assolutamente non congruente con il loro profilo, usandone le implicazioni in modo, devo dire la verità e almeno in Italia, molto maldestro. Le incitazioni alla crociata anti-Islam, la rivendicazione della necessità di chiudere le frontiere, la pretestuosa insistenza sul bisogno di “mandar via gli stranieri” anche quando pare farsi sempre più chiaro che i responsabili della strage fossero a tutti gli effetti legalissimi cittadini francesi sono state posizioni fin qui talmente goffe, poco credibili, e rudimentali da non rappresentare neanche un vero pericolo per la libertà. O almeno spero.
Quel che mi pare importante, tuttavia, e che rischia di non essere rilevato mai, nella gran confusione di cordoglio e indignazione di questi tempi, si raduna in due punti importanti, due linee di ragionamento che dovevano essere avviate, prima o poi, anche se sarebbe stato auspicabile che non accadesse in modo così intollerabile.
La prima: rendiamoci conto, in Europa, che su questa faccenda degli stranieri non ci stiamo davvero capendo nulla. Non siamo in grado, neanche minimamente, di uscire dalle considerazioni stereotipiche, dalle valutazioni improvvisate e dalla paura, soprattutto, generata dalla nostra profondissima ignoranza.
L'ignoranza, lo si sa, produce panico, ed è questo che stiamo vivendo. E l'ignoranza nasce dal fatto che il cosiddetto “problema” dello Straniero continua a essere mal posto. Andrebbe, una volta per tutte, misurata la realtà, non la sua versione immaginaria in termini di teoria politica. Andrebbe considerato il fatto che l'Europa è popolata di persone, di fedi, culture, colori, religioni, abitudini, rituali e convinzioni molto diverse, alcune nate da sincretismi imprevedibili e pertanto nuove di zecca, non riducibili alle maglie strette di teorie formulate, spesso, da intellettuali che con l'Europa reale non hanno alcun contatto. Andrebbe, questa faccenda, affrontata con umiltà, in modo laico, e con una reale volontà di comprensione.
La seconda: il fatto che noi adulti si sia persa la capacità di indignarsi in modo duraturo non dovrebbe vietare ai giovani di farlo. Non dovrebbe vietar loro di credere che un altro mondo sia possibile. Non dovrebbe condurci necessariamente a svuotare i loro ideali, devastare le loro lotte, trasformare una mobilitazione di piazza in uno show dei potenti.
Insomma, dovremmo almeno avere il pudore, come adulti, di dire che non ci abbiamo capito nulla.

Nicoletta Vallorani