Rivista Anarchica Online





Dal feuilleton al neorealismo

1.
Per nascita, il feuilleton potrebbe essere considerato il risultato di una rapida degenerazione. In cerca di clienti, nei primi decenni dell'Ottocento, in Francia, i giornali arricchirono il loro contenuto informativo (e formativo per le classi più abbienti) pubblicando al fondo del foglio (feuillet) che materialmente li costituiva recensioni di eventi artistici e letterari. Fu questa innovazione che diede il la ad un metodo per accalappiare il lettore tenendoselo vincolato più a lungo possibile. In quello spazio, infatti, si cominciò a pubblicare romanzi a puntate - in Italia, detti “romanzi d'appendice” per il semplice fatto che, nei nostri giornali, vennero destinati all'ultima pagina.

2.
Uno dei primi scrittori “da feuilleton” fu Honoré de Balzac. Nella sua accuratissima biografia di Balzac – qua e là fin troppo complice, ma mai fino al punto di mistificarne la contraddittoria esistenza -, Stefan Zweig ci dà un'idea di cosa poteva voler dire essere uno scrittore da feuilleton. Balzac scriveva ad una delle sue pletoriche ammiratrici che “se ho un posto sono perduto. Diventerei un commesso, un macchina, un cavallo da circo che fa trenta o quaranta giri, beve, mangia e dorme a date ore: sarei come tutto il mondo”, chiedendosi altresì se “si chiama vivere questo rotolare da macina di mulino, questo ritorno perpetuo delle medesime cose?”. Ma, ciò nonostante, – cominciando a sorbirsi le sue famose cinquanta mila tazzine di caffé per tenersi sveglio -, nel 1830, pubblica 70 opere e 65 l'anno successivo. Va da sé che, per quanto infaticabile potesse esser stato, non tutte le ha scritte lui, e, presumibilmente, buona parte di questa zuppa sia uscita dalla penna di altri poveracci costretti a vendere la propria penna perché oberati da debiti come Balzac stesso che, mantenendo imperturbabilmente il passo più lungo della propria gamba, passò la vita intera ad inventare stratagemmi per sfuggire ai creditori.
D'altronde, il meccanismo messo in atto dagli editori dei giornali non andava troppo per il sottile. Come racconta Walter Benjamin nel suo saggio sulla Parigi del secondo impero in Baudelaire (oggi nel ricchissimo volume Proust e Baudelaire, dovuto alla curatela di Francesco Cappa e di Martino Negri), accadeva perfino che gli editori “all'acquisto dei manoscritti, si riservassero il diritto di farli firmare da un autore a loro scelta”, il che la dice lunga sulla presunta sacralità investita dalla borghesia nell'opera d'arte. Non si lesinava in quanto a quattrini – Balzac dilapidò fortune intere, Eugène Sue incassò centomila franchi di anticipo per i suoi Misteri di Parigi, Lamartine mise assieme qualcosa come cinque milioni di franchi – anche perché questo tipo di letteratura, surrettiziamente, svolgeva la sua funzione politica e sociale – in nome dell'ordine costituito e di quelle idee che avrebbero dovuto formare i tratti principali di un'identità nazionale. Nel 1846, Alexandre Dumas, per esempio, venne inviato a Tunisi e strapagato dal governo per scrivere un romanzo che giustificasse la politica coloniale francese.

Una scena dal film Ossessione, di Luchino Visconti

3.
Nello stesso saggio, Benjamin dedica anche alcune osservazioni al processo di “assimilazione” del letterato francese dell'epoca a quella società borghese da cui, in definitiva, dipendeva la sua sorte. C'è un tocco di urbanistica nel ruolo sociale di ciascuno di noi e così è anche nel caso dello scrittore parigino che, per l'appunto, sul boulevard “ostentava il panneggio e i suoi rapporti con colleghi e con la gente di mondo; e dai risultati di queste relazioni sociali dipendeva, come la cocotte dalla propria capacità di travestimento”. “Sul boulevard”, dice ancora Benjamin, “trascorre i suoi momenti d'ozio, che egli presenta alla gente come parte del suo orario di lavoro. Si comporta” – e qui l'analisi si raffina – “come se avesse imparato da Marx che il valore della merce è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario alla sua produzione”. E qui Benjamin finisce con il portare alla superficie uno dei nodi più problematici del rapporto tra l'arte e la classe sociale che, potendoselo permettere, obtorto collo, metabolizzandola, la fa propria. Per quanto sia ovvio che il risultato estetico – un quadro come una poesia, un racconto come un brano musicale – non dipenda in alcun modo dal tempo necessario alla sua esecuzione, l'ideologia borghese applica all'operare estetico gli stessi canoni categoriali del lavoro cosiddetto produttivo. Come suo bisogno di classe, finge l'assimilazione dell'artista al passatempista che realizza navigli con gli stuzzicadenti. Esige, cioè, la trasformazione dell'arte in merce, trovando, peraltro, nell'artista – parlo dell'artista cui è riservato un posto nella storia dell'arte che ha un prezzo o che, almeno, ambisce a ciò - un pronto complice.

4.
Con il cinema le cose non sono andate poi troppo diversamente. In una lucida disamina del Cinema del neorealismo, Gaspare De Caro contestualizza come mai fatto dai tanti che hanno inzeppato l'argomento negli anni precedenti il sistema produttivo del cinema nella condizione politica e sociale del nostro Paese nell'immediato dopoguerra. Porta alla luce continuità spesso trascurate con il cinema del regime fascista (per esempio: il Vittorio De Sica dei telefoni bianchi non era lo stesso del De Sica di Ladri di biciclette o di Umberto D? Il Luchino Visconti di Ossessione non era lo stesso del Visconti di La terra trema?), disseziona una categoria – quella di “neorealismo” – evidenziandone articolazioni niente affatto coerenti e, soprattutto, chiarisce il compito che, al di là delle singole volontà, delle rassegnazioni e delle rese (De Sica, da questo punto di vista, rappresenta una biografia artistica esemplare), il cinema ha svolto in nome e per conto dello Stato. De Caro cita un'affermazione di Giuseppe De Sanctis (spesso ricordato per il dimenticabilissimo Riso amaro) che toglie ogni dubbio: “la mia generazione può vantare l'orgoglio di aver fatto un cinema al servizio dello Stato”. Di che servizio si trattava è palese. Si trattava di porre le fondamenta alla mitologia di una Resistenza di popolo sostanzialmente unitaria, di ottenere un'identità nazionale anche al costo di parecchi colpi d'accetta inferti alla storia di tanti, e si trattava di favorire un quadro ideologico in cui Ricostruzione, Subalternità e Mercato, saldandosi, potessero segnare la via che il Paese avrebbe dovuto seguire da lì in avanti.

5.
Non sarà stato un ipertaylorismo alla Balzac, ma è indubbio che il periodo neorealista del cinema italiano – grazie all'impegno dei vari Rossellini, Visconti, De Sanctis De Sica, Zampa, o il riverniciatissimo Blasetti – sia stato frenetico. Un film dietro l'altro nella breve stagione di un dopoguerra spinto a nuovi consumi. Ma non è alla scarsità di tempo a disposizione che possono essere ascritte le lacune nell'analisi. Certe carenze – come la degenerazione del feuilleton – risultano funzionali al sistema complessivo. Un secolo dopo, il meccanismo è analogo. L'innesco del suo funzionamento è costituito dalla riduzione a merce del prodotto artistico.

Felice Accame

Nota
Cfr. Stefan Zweig, Balzac, Castelvecchi, Roma 2013; Walter Benjamin, Proust e Baudelaire, Raffaello Cortina, Milano 2014 e Gaspare De Caro, Rifondare gli italiani? Il cinema del neorealismo, Jaca Book, Milano 2014.