Rivista Anarchica Online






Cantacronache
Un mito della canzone attraverso le sue immagini e la sua musica

Quello che segue è un estratto da un libro in corso di preparazione che ricostruisce, attraverso documenti d'archivio per lo più inediti, il percorso di questo collettivo che anticipò la canzone d'autore, la canzone popolare e di protesta in Italia. La terra della pace, del lavoro... dell'amore.

Un giorno nel mondo finita fu l'ultima guerra,
il cupo cannone si tacque e più non sparò,
e privo del tristo suo cibo dall'arida terra,
un branco di neri avvoltoi si levò.
Dove vola l'avvoltoio, avvoltoio vola via
vola via dalla terra mia che è la terra dell'amor.

I Cantacronache si materializzarono – ancora senza volto – il primo maggio del 1958, in Piazza Castello, durante la manifestazione sindacale a Torino: la loro prima incisione veniva diffusa da un camioncino debitamente attrezzato. La sera stessa avrebbero tenuto il loro primo concerto.
C'è dunque uno strano filo simbolico che lega la prima apparizione dei Cantacronache ai moderni cortei dei nuovi ribelli, dalle proteste del movimento No-Global di fine anni '90/inizio 2000, alla parata dei Centri Sociali che sfila per le vie di Milano ogni primo di maggio: la Mayday Parade. Non tanto per le tenute dei manifestanti, che allora sfilavano con tanto di giacca e cravatta, né per gli striscioni piuttosto smorti, quanto perché il corteo era accompagnato da un furgoncino, attrezzato con altoparlanti, che diffondeva musica. Il progenitore insomma di quello che oggi si chiama sound system. La canzone che più lascerà il segno, fra quelle che accompagnavano quel primo di maggio del 1958 a Torino, era come le altre nuovissima.
L'autore della musica, un bravo e inquieto compagno di 28 anni, militante comunista iscritto al partito, vulcanico musicista di formazione colta, ebreo che ha conosciuto il disonore delle leggi razziali e l'orgoglio della lotta di liberazione, Sergio Liberovici. A rendere però, da allora, particolarmente notevole la colonna sonora di quella manifestazione è l'autore del testo, uno degli scrittori italiani più importanti e noti del secondo '900: Italo Calvino.
Quanti sanno che a lui, e a un manipolo d'intellettuali torinesi, si deve l'inizio della canzone d'autore italiana?
Il brano Dove vola l'avvoltoio – che viene registrato con altri due dai Cantacronache nel loro primo sperimentalissimo 78 giri, e diffuso dagli altoparlanti proprio quel primo di maggio del '58 – è, per la cultura musicale del nostro paese, il prototipo della ballata antimilitarista d'autore. Il tema della denuncia dell'atrocità della guerra è già presente nel canzoniere popolare, ma di tale repertorio c'è per il momento solo una percezione vaga, anzi, il contributo dei Cantacronache sarà fondamentale nel dettare le regole di raccolta e diffusione di tale repertorio. Incideranno loro per primi, nel secondo volume dei “Canti di protesta del popolo italiano”, O Gorizia tu sei maledetta, la canzone che di lì a pochi anni detonerà lo scandalo e le denunce dello spettacolo “Bella Ciao” (giugno 1964).
Il tema antimilitarista è quasi ossessivamente presente anche nei Songs di Brecht (Legende vom toten Soldaten, Kanonen song, ecc.), nelle chansons di Prévert, Brassens o Vian (Barbara, La mauvaise reputation, Le deserteur), che sono fonti d'ispirazione per l'intero gruppo.
Dove vola l'avvoltoio però costituirà in Italia il riferimento per le canzoni che seguiranno, a partire dalla celeberrima La guerra di Piero di Fabrizio De André, che ne cita l'incipit:

L'avvoltoio andò dal fiume
ed il fiume disse “No
nella limpida corrente
ora scendon carpe e trote
non più i corpi dei soldati
che la fanno insanguinar”
(Calvino)

Lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente.
(De André)

Dunque, a contraddire la vulgata che assegna ai Cantacronache un ruolo del tutto marginale e ininfluente, è proprio De André, il più osannato classico della canzone d'autore, l'eterno modello di tutte le generazioni che l'hanno seguito, che ai Cantacronache tributa un debito, prelevando di peso non solo un'immagine, ma diremmo un andamento, un colore, un sentimento musicale. Attraverso De André questo canto si fa modulo, non tanto per la canzone schierata dei poeti della rivolta – Della Mea, Marini, Pietrangeli, Bertelli –, che dei Cantacronache sono i più immediati continuatori, ma getta i suoi semi nell'inquietudine dell'intera musica italiana.
La particolarissima condizione di isolamento e apertura a ogni esperimento, permette a una canzone come questa di nascere da un gruppo addirittura tetragono nel difendere la propria purezza, che esordisce impersonalmente diffondendo le proprie canzoni durante una manifestazione senza pubblicizzare nomi e volti degli autori/interpreti, ma che si misura con un pubblico indefinito, non solo quello dei “compagni di strada”. È sulla tensione caratteristica di un collettivo di intelligenze così critiche che si basa l'unicità e la modernità dell'esperienza Cantacronache.
L'avvoltoio è dunque il brano fondativo composto da uno scrittore che – a parte la vicenda Cantacronache – rimane estraneo alla storia della canzone, e di un musicista poliedrico che sta ancora definendo la sua poetica e i limiti della sua area di ricerca, è l'inizio e il compimento assieme di un percorso espressivo, e raccoglie molti stimoli. Il plot del brano parte dalla rielaborazione di un raccontino pubblicato qualche anno prima (agosto del '54) dallo stesso Calvino sulla rivista “Il contemporaneo” e mai più ripescato per le raccolte in volume (lo trovate solo nelle Opere di Calvino della collana Meridiani Mondadori), Dove va l'avvoltoio che inizia così: “Per un gran numero di anni, nel mondo c'erano state sempre guerre, una dopo l'altra. Un giorno, quella che c'era finì e il mondo si trovò senza guerre tutt'a un tratto. Gli avvoltoi che volavano nel cielo di quell'ultimo fronte...”.
Il tono è fiabesco, il simbolismo evidente, e – come per ogni grande scrittore – la versione in versi del brano non è una piatta riscrittura della prosa, ma racconto e canzone si compendiano mettendo in luce aspetti diversi dell'intuizione originaria. Liberovici, dal canto suo, cucendo al testo una musica ritmata e drammatica, compie una seconda riscrittura musicale, un'altra storia attraverso i suoni, che si svolge su un altro piano, che ricolloca, fa emergere, mette in luce o in ombra le suggestioni del testo, le veste di un abito, le colloca in un ambiente.

Il suono dei carri armati

Se la scrittura dei bassi che accompagnano il parlato introduttivo e finale fa le funzioni di una drammatica colonna sonora (in special modo nella versione cantata dalla Di Rienzo e in quella di Buttarelli, accompagnate dal pianoforte dell'autore), il ritornello, con il coro lugubre che canta in polifonia, ha una reminiscenza russa, da coro dell'Armata Rossa. Calvino era uscito dal Partito Comunista proprio in polemica con la mancata condanna dell'invasione d'Ungheria del '56, Liberovici invece era nel Partito, ma forse inconsciamente, nel volo dell'avvoltoio così ben visualizzato dall'intreccio della melodia, si sente il cingolato dei carri armati di Chruscëv triturare le vie e le speranze di Budapest.
Forse nelle parole di Calvino “ma chi delle guerre quel giorno aveva il rimpianto” c'è l'eco che non vuole più portare i suoni dell'orribile guerra dei tedeschi che massacravano i contadini italiani sulla Linea Gotica, ma anche un'eco più vicina: le alte e terribili parole del Presidente Imre Nagy condannato a morte dai servi del potere sovietico: «muoio per dimostrare che non tutti i comunisti sono nemici del popolo». Quell'eco separava per sempre il più grande scrittore italiano del dopoguerra dal suo Partito, Imre Nagy sarebbe stato impiccato di lì a un mese il 16 giugno del '58, io in questo momento mi trovo a scrivere a San Pietroburgo, l'“Eroica Leningrado” dell'assedio, come dice l'immane scritta nella Piazza della Stazione Moskovskaja, a cento metri da qui. Dove vola l'avvoltoio dunque non è solo una canzone, ma è un urlo, è il nobile e indimenticabile crocevia di molte storie che le stanno dietro e davanti fino a me, fino a noi. In questa canzone ci sono tragedie immense e la dignità del granello di sabbia che si vuole opporre, imbracciando una chitarra, alle ragioni delle guerre e dei partiti.

Potete forse capire allora come mi tremarono le mani quando, fra i vari documenti d'archivio che scartabellavo, mi capitò proprio il manoscritto originale di questa canzone.

“Che è la terra della pace (cancellato) del lavoro (cancellato) dell'amor”.
C'è sempre qualcosa di voyeuristico nell'andare a guardare un manoscritto, il brogliaccio delle intenzioni, dello svolgersi e dell'arrovellarsi dell'autore, che si perde fra forma e contenuto, quando non sai se è l'una a inseguire l'altro o il contrario... eppure c'è qualcosa di così umano e velleitario nel formarsi l'immagine dello scrittore che pensa, fuma, che si dispera davanti al foglio bianco, che s'inceppa su una rima e corre avanti, torna indietro. Scrive un verso, ne cancella altri dieci. Tutto questo ci dà l'impressione di assistere al mistero della creazione di qualcosa di bello... e invece, poi, ne sappiamo quanto prima, nulla di più ci è stato rivelato, e quanto c'innamorava resta celato agli occhi, invisibile.

La terra dell'amore?

Non so se questo caso possa fare eccezione, certo è bello ritrovarsi davanti agli occhi un manoscritto di uno scrittore così grande, anche se quasi solo di prosa. Non sappiamo se questo testo – stranamente di pugno dell'autore e non dattiloscritto – che viene consegnato a Liberovici sia una redazione giunta dopo parecchi tentativi, sembrerebbe di no. La penna scorre fluida ma non pare una copia in bella. Tormentatissima – fra i ripensamenti a penna e gli appunti a matita – solo la strofa dei tedeschi, ed è comprensibile il perché: difficile trovare una chiave corretta che non miri alla colpevolizzazione di tutto un popolo che è stato la prima vittima della disumanizzazione nazista. Per il resto il testo sembra essersi formato già chiaro nella testa di Calvino, prima di venir fermato sul foglio. Solo quell'insistito ripensamento per capire se la terra, libera dalla guerra, quella che scaccia gli avvoltoi, sarà la terra della pace (of course!), del lavoro... oppure dell'amore, che tutto comprende. Italo Calvino se n'è andato ormai da tanti anni e Liberovici pure. Questa canzone ancora la si canta, anche perché purtroppo questa non è la terra della pace, né quella del lavoro. Ma sulla ruggine che prima o poi coprirà l'ultimo inutile cannone ce lo scriveremo che questa è la terra dell'amore.

Alessio Lega
alessiolegaconcerti@gmail.com