Rivista Anarchica Online


dossier Storia

La guerra dei senzapatria

di Gaia Raimondi

Insubordinazione e antimilitarismo dall'impresa di Libia al primo conflitto mondiale 1911-1918.
Un libro di Marco Rossi, appena uscito presso BFS edizioni, affronta quelle pagine storiche drammatiche e per tanti aspetti ancora poco conosciute.


Lottate contro i campi di battaglia
delle fabbriche e delle miniere,
contro la morte eroica nelle infermerie,
le fossi comuni nelle caserme:
combattete dunque la guerra eterna
degli sfruttati contro gli sfruttatori!
(Ernst Friederich, 1924)1

Sembra incredibile, o almeno nel mio immaginario così pare, che siano passati solo 100 anni dalla prima guerra mondiale. Quando mi ripenso bambina, adolescente e adulta a studiare in maniera sempre più approfondita questo momento storico, tragicamente reale, mi accorgo di come le pagine della storia che si studia nell'istituzione-scuola releghino tutto in un passato lontano e concluso, fatto di brevi capitoletti, schede di lettura, numeri e dati; secoli che iniziano con il numero uno a volte sembrano ormai sepolti in inchiostri faziosi e superficiali, capitoli chiusi di un'umanità fatta di qualche nome, per lo più di padroni e potenti, che distorcono la complessità di un reale riassunto in poche righe da studiare e raccontare come fosse una ricetta: antefatti, cause, azioni, date, personaggi ed epiloghi, per poter poi voltare pagina acriticamente sull'argomento successivo.
Il 2014 segna dunque una ricorrenza in realtà vicinissima, di cui ancora sono tangibili gli effetti; negli affetti familiari chiunque troverà un nonno, bisnonno o un genitore che quell'epoca se l'è vissuta sulla propria pelle. E chi non si è accontentato di ascoltare la versione ufficiale dei fatti, ha continuato a indagare, ricercare e scrivere per dar voce a quella storia fatta di persone, dimensioni individuali e collettive, di un'umanità pulsante che ha visto stravolgere la propria esistenza in un campo di forza di correnti distruttive ed esplosioni in un lampo vorticoso e inghiottente.
Un dossier sulla rivista che potesse invece riportare alla luce le innumerevoli verità e gli aspetti taciuti di una grande guerra fatta però di uomini e donne che scaraventati in un conflitto globale dell'esistenza agiscono, si ribellano, abbandonano, uccidono, era doveroso. A partire dalla condivisa condanna, “Tu sei maledetta!” che il titolo del convegno di Venezia portava con sé passando per altre interessanti iniziative organizzate in ambito anarchico e libertario, alcune delle quali trovano spazio in questo dossier antimilitarista, non poteva mancare uno sguardo anche di indagine storica; capitata ad hoc la proposta di recensione del nuovo testo di Marco Rossi, l'autore del libro da cui prende spunto questo contributo, recentemente uscito col titolo “Gli ammutinati delle trincee” per BFS, che ha suscitato in chi scrive forte interesse perché ricostruisce con dovizia di dettagli gli anni precedenti allo scoppio del conflitto, da Tripoli a Caporetto, arrivando poi agli anni dell'intervento italiano nel panorama bellico mondiale senza però dimenticare l'umanità di cui la guerra si è nutrita, andando a cercarne personaggi dissidenti, storie, lettere, testimonianze, canzoni, fotografie e dandone una chiave di lettura profonda, umana, arricchente e poliedrica.
“Aldilà delle ricorrenze e delle commemorazioni ufficiali, la Prima guerra mondiale rimane l'evento storico che più ha segnato l'epoca contemporanea, attraverso i traumi, i conflitti, le trasformazioni che ha determinato non solo nella società, ma nella coscienza collettiva e nell'esperienza umana di milioni di persone e, in particolare dei ceti popolari e delle classi lavoratrici di ogni paese. Furono infatti loro a pagare maggiormente quell'immane carnaio voluto dal potere economico, dai governi e dai rispettivi nazionalismi per conquistare territori e incrementare i profitti dell'industria bellica, così come era già avvenuto per l'impresa coloniale in Libia di cui si rese responsabile l'Italia liberale” spiega l'autore.
“Per questo, non accettando di morire per interessi e logiche non loro, i contadini e gli operai prigionieri delle trincee combatterono una loro guerra dentro la guerra, ammutinandosi agli ordini criminosi dei generali, disertando, dandosi alla macchia, animando rivolte per difendersi da una patria che li mandava al massacro e li voleva assassini di altri sfruttati. Al loro coraggio di restare umani, anche a rischio della fucilazione per disfattismo, è dedicata questa ricerca al rovescio”, asserisce Rossi, il cui intento è dar voce al coraggio di queste persone di restare umani, anche a rischio della fucilazione per disfattismo.
Le questioni all'interno del libro sviscerate sono molteplici; un'avvincente ricostruzione storica dei fatti antecedenti al conflitto è protagonista del primo capitolo, che racconta dell'aggressione armata italiana in Tripolitania e Cirenaica, dove si manifestarono i primi, consistenti tentativi di insubordinazione, gli episodi di rottura della disciplina militare e dell'ideologia nazionalista nonostante una propaganda interventista che aveva supportato l'avventura coloniale. Sarebbero sepolte nella sabbia libica infatti, secondo l'autore, le prime tracce di quell'antimilitarismo popolare che sarebbe riaffiorato poi, come racconta nelle pagine successive, nelle trincee e nell'esodo di Caporetto.

L'insurrezione negata dalla stampa italiana

Il 5 ottobre 1911 iniziò lo sbarco delle truppe italiane a Tobruk e Tripoli. La popolazione al contrario delle previsioni, non accolse i soldati e i marinai italiani come liberatori e anzi fece causa comune con le truppe turche. In particolare, a Sciara Sciat combatterono non solo le truppe regolari ottomane, assieme agli arabi e ai berberi discesi dalle montagne, ma l'intera popolazione civile dell'oasi e in parte quella di Tripoli. Si trattò di un'autentica insurrezione popolare che vide protagonisti uomini, ragazzi e donne in armi, anche se la stampa italiana negò questa evidenza, fomentando la reazione patriottica e razzista per gli eccidi compiuti dalla «bestia selvaggia che si chiama arabo», come scritto da Enrico Corradini.1 L'ondata d'indignazione nazionale si dimostrò perciò del tutto funzionale nel nascondere all'opinione pubblica le dimensioni della sconfitta militare e la reale entità delle perdite nonché l'incapacità tattica e l'imprevidenza dimostrata dai comandi nell'affrontare la guerriglia anticoloniale, così come vennero taciute le violenze sulle donne compiute dai “nostri” bersaglieri che senz'altro avevano acuito l'avversione popolare verso gli occupanti.2
In Italia, racconta l'autore, tra i quotidiani a riferirne fu solo il socialista «Avanti!», il cui corrispondente venne prima malmenato dai colleghi giornalisti e poi espulso insieme con gli inviati stranieri; ma, grazie anche alle mordaci vignette di Scalarini, in molti poterono intuire l'esistenza di un'altra e scomoda verità. La rappresaglia italiana non risparmiò orrori di ogni tipo, ma la rapida conquista dopo aver messo a ferro e fuoco Tripoli si svelò ben presto una logorante guerra di trincea, in condizioni climatiche estreme, con un lungo conflitto che apportò bilanci disastrosi, legati anche alle gravi patologie che afflissero le truppe italiane e pesarono al contempo sull'economia del regno d'Italia. L'occupazione italiana necessitò inoltre un rinforzo notevole delle forze armate, a causa della combattività delle truppe turche prima e libiche poi e ciò chiamò alle armi dai 20mila soldati iniziali a 110mila effettivi, per riuscire effettivamente a controllare però solo sei centri urbani e una fascia di territorio di 15 km.
Lo scoppio della prima guerra mondiale vide il riaccendersi della rivolta arabo-berbera e, nel timore di tradimenti, venne deciso il trasferimento di circa 5.000 ascari libici da Tripoli alla Sicilia e il ripiegamento degli italiani nelle zone costiere. Intanto continuavano gli orrori: nel «radioso maggio» 1915, mentre l'Italia entrava nel conflitto mondiale, i suoi soldati in Libia, assieme a carabinieri e borghesi, si resero responsabili di nuovi massacri, stupri e saccheggi a cui però rispondevano resistendo i locali.
Intanto in Italia gran parte del mondo culturale e artistico dell'élite propagandava l'entrata in guerra, con letterati interventisti, a cui rispondevano le reazioni polemiche di una sinistra poliedrica; nel libro la “querelle” fra le varie aree politico culturali è ben approfondita e non starò a riportarla qui, preferisco dar voce alle storie che più ci interessano, quelle dei rifiuti.
Già nell'ottobre 1911 infatti, alcuni giorni prima di Sciara Sciat, a Tripoli il soldato Giovan Battista De Giorgi dell' 82° rgt. fanteria, davanti ai suoi commilitoni, aveva gridato «Abbasso il re! Viva l'anarchia!», venendo condannato dal tribunale di guerra per «insubordinazione e grida sediziose» a sette anni di reclusione militare.

Il gesto di Augusto Masetti

Poche settimane dopo, all'alba del 30 ottobre 1911 a Bologna, nel cortile della caserma Cialdini affollato da reparti di fanteria, poco prima del discorso di saluto alle compagnie in partenza per la Libia, il colonnello Stroppa veniva ferito da un colpo di fucile sparato da un soldato di leva, matricola n. 30504.
Il responsabile dell'atto di «insubordinazione con vie di fatto verso superiore ufficiale» più noto forse fu Augusto Masetti, muratore di San Giovanni in Persiceto già immigrato in Francia per lavoro, che era stato richiamato in servizio militare il mese precedente e sorteggiato la sera prima per partire alla volta della Tripolitania: ironia della sorte, era stato l'ultimo estratto della VII compagnia del 35° reggimento. Secondo le testimonianze, prima di venire bloccato mentre stava ricaricando l'arma, Masetti avrebbe gridato «Viva l'anarchia, abbasso l'esercito!» e, rivolto ai commilitoni, «Fratelli, ribellatevi» (o «Compagni, ribellatevi»), forse sperando in una sedizione solidale. Dai verbali d'interrogatorio si apprende che, oltre a dichiararsi un «anarchico rivoluzionario», sostenne di aver «voluto vendicare i compagni che cadono in Africa» e che «Alla guerra deve andare il re, il generale Spingardi e i deputati e non mandare noi a conquistare della terra che i capitalisti andranno poi a sfruttare». L'impegno libertario di Masetti, sino a quel momento, si era limitato alla diffusione della stampa antimilitarista e all'attività sindacale nell'ambito della Camera del lavoro di S. Giovanni in Persiceto; ma il fragore della sua fucilata varcò immediatamente le mura di quel cortile, esplodendo nel problematico contesto determinato nella società italiana dall'intervento militare in Tripolitania.
Masetti che, in base al codice militare rischiava la fucilazione, col suo spontaneo ma determinato gesto di rivolta impose quindi a tutte le parti in causa scelte di campo nette e conseguenti, sia sul piano etico che quello politico. Se per le destre, nazionaliste e monarchiche, divenne motivo per inscenare dimostrazioni belliciste e forcaiole, a sinistra dette modo alle forze coerentemente contrarie alla guerra coloniale di unirsi e intensificare la mobilitazione per il ritiro delle truppe italiane dall'Africa e per sottrarre il «soldato ribelle» prima al plotone d'esecuzione e poi alla segregazione nel manicomio criminale di Reggio Emilia e in seguito di Montelupo Fiorentino, ove fu rinchiuso in quanto «ritenuto irriducibilmente inadatto alla sociale convivenza e pericoloso a sé e agli altri». Tale esteso movimento di protesta riuscì solo parzialmente a difendere Masetti, comunque costretto a lunghi anni di detenzione, ma nell'immediato fu alla base della nascita dell'Unione sindacale italiana nel 1912 e dell'insorgere della Settimana rossa nel 1914.
Il miraggio libico andò dissolvendosi appena la guerra coloniale si palesò nella sua crudezza. In poco tempo, si fece strada l'opinione comune che si era trattato di un'impresa «disgraziata» e neanche la forte mobilitazione dei nazionalisti e l'appoggio offerto da esponenti democratici e del socialismo riformista, impedì lo sviluppo di un significativo dissenso sociale, sia tra i militari che tra i civili, in patria come sul suolo africano, che secondo alcuni prefetti – tra cui quello di Milano – era «alimentato dalla stampa libertaria».3
Arrivarono lettere di anonimi cittadini e richiamati alle armi, talvolta con toni intimidatori, spedite direttamente a Giolitti, al ministro della Guerra e al re Vittorio Emanuele che testimoniano l'esistenza nel Paese di un malcontento nei confronti della spedizione, tra i soldati delle classi coinvolte (1887-90) si manifestarono fenomeni di aperta ribellione, soprattutto quando il periodo di servizio superò i sei mesi previsti.

Marco Rossi, Gli ammutinati
delle trincee. Dalla guerra di Libia
al Primo conflitto mondiale. 1911-1918
,
BFS edizioni, Pisa, 2014, pp. 84, € 10,00

Propaganda sovversiva e “Settimana Rossa”

Altra causa di allarme per il ministero dell'Interno era l'agitazione antimilitarista svolta capillarmente, oltre che da alcuni gruppi anarchici, soprattutto dalla Federazione giovanile socialista schierata sulle posizioni rivoluzionarie espresse da Amadeo Bordiga4. L'intenso attivismo dei giovani socialisti era rivolto ai soldati nelle caserme, negli ospedali militari e nei porti d'imbarco delle truppe, ma anche presso i reparti di stanza in Libia, invitati sia a disobbedire agli ordini che a fraternizzare con le popolazioni libiche, così da meritare l'epiteto di «turchi» o «arabi» d'Italia.
Questo efficace lavoro politico comprendeva anche la creazione di una rete clandestina di collegamento tra l'Italia e Tripoli, e poi anche a Bengasi. Numerosi furono gli episodi di rifiuti, di segnalati, di tumulti spontanei all'interno dell'esercito in Italia come in Libia. L'espatrio massivo per sfuggire all'arruolamento in Italia determinò decine di arresti. Di conseguenza, al fine di scongiurare l'estensione della latente insubordinazione, vennero rafforzate le misure repressive e giudiziarie.
A partire dai primi anni del Novecento, parallelamente con lo sviluppo della propaganda internazionalista contro la guerra quale elemento centrale della lotta di classe, l'apparato statale aveva aumentato la sua attenzione repressiva contro socialisti, anarchici e sindacalisti «accusati ora di turbare la pace del popolo, provocando lotte fratricide, ora di essere antimilitaristi e perciò disfattisti, eccitatori alla disobbedienza»5.
L'aspetto dell'agitazione sovversiva ritenuto più pericoloso per l'ordinamento politico era la sua penetrazione semi clandestina nelle caserme, finalizzata a suscitare lotte per miglioramenti materiali nel vivere dei soldati, organizzare le proteste contro la dispotica disciplina interna e invitare i militari a rifiutarsi di sparare contro i manifestanti o gli scioperanti. In questo modo, infatti, veniva messo concretamente in discussione il monopolio dell'esercizio legittimo della violenza da parte dello Stato. L'applicazione delle leggi da parte della magistratura fu di conseguenza indirizzata alla punizione di reati quali la cospirazione, l'istigazione all'odio di classe, l'eccitamento alla disobbedienza delle leggi, estesi anche alle associazioni che li propugnavano nei confronti dei militari. In questo contesto, le principali misure per mantenere il controllo sulle truppe furono le Compagnie di disciplina e il carcere militare. Nel periodo considerato, l'antica rocca di S. Leo, ancora oggi esistente tra Urbino e Rimini, dopo essere già stata una galera dell'Inquisizione divenne così il simbolo oppressivo della coercizione militare in epoca liberale. Con la caduta dello Stato pontificio e l'Unità d'Italia, il forte aveva mantenuto le proprie caratteristiche di Casa penale fino al 1906 quando, con Regio decreto, ne fu decisa la soppressione per motivi di ordine economico. Chiuso nel 1906, il forte fu riaperto per “accogliere” ben due di questi reparti disciplinari formati da soldati di «cattiva condotta» e, prima dell'entrata in guerra dell'Italia, il penitenziario di S. Leo fu al centro delle mobilitazioni antimilitariste contro le cosiddette Compagnie di disciplina6 e in generale contro i reclusori militari in cui erano stati imprigionati anche numerosi soldati sovversivi; le mobilitazioni culminarono nella «Domenica sanguinosa» del 6 giugno 1914 ad Ancona che avrebbe innescato la Settimana rossa.
Il susseguente movimento insurrezionale, dilagando velocemente dalle Marche alla Romagna e ai più importanti centri urbani (Roma, Milano, Torino, Firenze...), scosse con inattesa violenza l'assetto sociale e istituzionale, nonostante la mobilitazione di 100.000 soldati in assetto di guerra. Seppur naufragato come tentativo rivoluzionario, anche per la contrarietà della CGL e della maggioranza riformista del Partito socialista che il 10 giugno misero fine allo sciopero, il governo comunque optò per la rapida liberazione di Antonio Moroni e di altri non sottomessi, contribuendo a placare gli animi.7
Fino alla vigilia della guerra, la struttura militare, con i suoi rigidi principi gerarchici e l'autoritario paternalismo, era stata generalmente ritenuta di per sé un mezzo per disciplinare il popolo italiano; consapevoli della sostanziale assenza di motivazioni ideali nelle file dei soldati italiani, strappati alle famiglie e alle loro pacifiche occupazioni, le istituzioni politiche e militari per assicurarsi il «governo delle truppe» non esitarono quindi a impiegare strumenti repressivi implacabili e disumani quali tribunali militari, fucilazioni, decimazioni, esecuzioni sommarie, carcere e punizioni spietate, sino a dare ordine di cannoneggiare e mitragliare i reparti che, durante un assalto, esitavano ad avanzare sotto la tempesta di fuoco e ferro del nemico.

Repressione. La guerra nella guerra

I comandanti optarono per una deterrenza di tipo terroristico, minacciando di morte immediata e disonorevole, tramite fucilazione, gli incerti e i sediziosi, e annunciando persino ritorsioni morali e materiali sulle loro famiglie. La ricorrente accusa di «disfattismo» non risparmiò neppure i Reparti d'assalto: nella primavera del 1918 si registrarono tre distinte pesantissime condanne del tribunale militare nei confronti di arditi; i reati erano codardia, diserzione e rifiuto d'obbedienza. Di singolare rilevanza la condanna a 20 anni di reclusione militare per «espressioni di codardia».
Parallelamente a tali strumenti, veniva mobilitata anche la psichiatria, oltre che per gestire gli innumerevoli casi di «psiconevrosi bellica», per “curare” come malattia mentale taluni atti di criminalità militare dalla diserzione al rifiuto col fatto, attraverso l'internamento in manicomio dei soggetti «alienati». Innumerevoli i casi di esecuzioni sommarie, processi assurdi per anche solo aver tentato di sposarsi durante la leva, oltre alle incarcerazioni, alle compagnie di disciplina che non riuscirono però a fermare l'onda insubordinatrice di fronte ad un orrore così plateale.
Dalla lettura della corrispondenza dalle zone di guerra, dalle testimonianze come dalle poesie scritte dai soldati, appare evidente come la permanenza al fronte rappresentò un'esperienza di orrori, privazioni e ingiustizie indicibili, sempre a un passo dallo sterminio e sotto l'incubo dei gas asfissianti. Si trattava di una dimensione così anomala rispetto al vissuto di ogni individuo che, nel riferirne, era inevitabile ricorrere a fotogrammi e metafore dell'immaginario. Se la guerra fu a tutti gli effetti una fabbrica di morte, questa produsse autentiche mutazioni socio-antropologiche: dalla fratellanza tra morituri in grigioverde al loro avvertirsi come classe di soggetti il cui «sfruttamento» doveva «rendere» ed «essere produttivo» sul piano bellico, secondo la ricorrente terminologia militaresca che rifletteva, palesemente, la logica produttivista. Il fante appariva come un addetto di questa industria, tanto che nel linguaggio della trincea i soldati semplici si definivano «operai», così come viene confermato da uno di loro che scrisse, come didascalia di una foto, «In trincea si lavora sempre».8 In questa dimensione, al soldato-massa era riservato solo un ruolo subalterno ed esecutivo, senza alcun margine individuale di controllo sui tempi e sulla tecnologia usata, in modo da richiamare sia la subordinazione rurale che la disciplina di fabbrica. Egli viveva dunque un'esperienza che «assomiglia molto a quella del lavoro alienato, [è] fatta di compiti ripetuti nella monotonia, per scopi che non si conoscono o che sono comunque incomprensibili»9 e che, in numerosi casi, si sarebbe rivelata l'anticamera di una patologica alienazione psichica. La stessa identica divisa, indossata da milioni di individui, divenne quindi il simbolo identitario ed egualitario dei combattenti, «qui dove quanto ci riveste ha preso la tinta uniforme della materia in disfacimento, dello sterco, della terra»10.

Una copia del quotidiano socialista

Solidarietà e disfattismo

In contrasto con il volere dei comandi, nelle trincee vennero perciò a stabilirsi rapporti di complicità, mentre attraverso un'informale rete di comunicazione clandestina circolavano notizie proibite, propositi di rivalsa e scritti non autorizzati: contrariamente a quanto asserito da certa letteratura patriottica, si creò una base solidale di mutua comprensione e ribellione antistatale, che accomunava tutti nell'odio per i responsabili del massacro. Riferimenti alla temuta presenza di elementi sovversivi all'interno dell'esercito si riscontrano fin dall'inizio del conflitto: già nel maggio 1915, a pochi giorni dell'entrata in guerra, i carabinieri fecero fuoco su reparti in rivolta della brigata Ancona «costituiti da elementi non buoni: da soldati della provincia di Firenze, travagliati dagli apostolati socialisti e anarchici». Moltissime le condanne per scritti o lettere sequestrate. Per tutta la durata della guerra si registrarono episodi di ammutinamento, diserzione, oltre alle numerose testimonianze scritte che spesso costarono dura repressione agli autori. Si contarono numerosi episodi di rivolta, puntualmente sedati oppure sanzionati con fucilazioni collettive e pesanti pene detentive. Il culmine di intensità di questi episodi si ebbe nel 1917, stesso anno della disfatta di Caporetto e episodi analoghi si verificarono anche in Francia, con 151 insubordinazioni collettive dell'esercito francese al Chemin des Dames e nello Champagne.
Le relazioni prefettizie segnalano inoltre in molte regioni italiane il protagonismo delle donne nelle dimostrazioni e agitazioni, sempre più violente, contro la guerra, la penuria alimentare e il caro vita.
Le operaie, introdotte massicciamente nelle fabbriche, in sostituzione della manodopera maschile, tanto da raggiungere nel 1918 le 180.000 unità nell'industria bellica controllata dallo Stato, furono le prime a rallentare o sabotare la produzione di munizioni e armi per accorciare il conflitto; ma ancora più consistente risultava il fenomeno nelle campagne, dove le donne promossero e animarono ribellioni rovesciando anche molti stereotipi sull'arretratezza contadina e la tradizionale sottomissione di genere nei contesti rurali. Assai opportunamente, Mario Isnenghi11 ha fatto riferimento a «una tripla e contemporanea trasformazione: da donne – figlie, mogli, madri – a lavoratrici salariate, da contadine a operaie, da campagnole a cittadine»12. A Milano, all'inizio del maggio 1917, consistenti gruppi di donne giunte dalle campagne limitrofe, inscenarono forti proteste, lanciando pietre contro gli stabilimenti bellici e inducendo gli operai a entrare in sciopero; di fronte a ciò, il principale esponente del socialismo riformista, Filippo Turati, dimostrò di non comprendere la rilevanza politica della sommossa, ritenendola una sorta di jacquerie animata da «furie» forse ispirate dal clero13. Negli stessi giorni a Conselice e Massa Lombarda, le risaiuole ravennate iniziavano uno sciopero con analoghe motivazioni, quali un aumento del sussidio governativo, il mantenimento delle razioni di farina e il ritorno degli uomini dal fronte, sino a scontrarsi con carabinieri e poliziotti gridando «Abbasso la guerra, Viva la pace, Abbasso i preti, Viva la rivoluzione»14.
Tra i reparti italiani, col passare dei mesi, si contarono sempre più interi reggimenti che optarono per il rifiuto, venendo puniti con la morte il che intensificò le funzioni di vigilanza olitica nel contronti dei “disfattisti”, demandate poi all'Ufficio Centrale di Investigazione incaricato di contrastare lo spionaggio e i collegamenti tra la sinistra anti-interventista e i militari in servizio di leva. Nel contempo le lettere censurate e sequestrate scritte dai forzati delle trincee appaiono percorse da un rancore di classe. In questo clima di crescente consapevolezza rabbiosa la presenza di soldati schedati come “sovversivi” preoccupava i comandanti, sempre più impegnati nel controllo repressivo dei non-sottomessi che sul finire del conflitto iniziarono essi stessi a dar cenni di sfinimento e disillusione.
L'armistizio firmato dagli Stati belligeranti lasciò aperte ferite sociali e umane impossibili a rimarginarsi. Da subito s'infranse l'ambizioso disegno della classe dirigente liberale di utilizzare nel dopoguerra il mito della grande guerra nazionale per l'affermazione di una nuova ideologia interclassista a garanzia della pace sociale Sepolta la retorica patriottica nei carnai tra le trincee e, a tutti gli effetti, il reduce appariva un uomo bloccato nella transizione post-bellica la cui caratteristica divenne l'«essere senza patria», in quanto «nell'esperienza di guerra la “patria” divenne più estranea di qualsiasi nemico»15. Un sentire collettivo era maturato tra trincee, ospedali e nei campi di prigionia, che si iniziavano a porre il problema del rimpatrio. Infatti, per gli operai e i contadini il tanto agognato ritorno dal fronte si trasformava in un altro dramma, quello della crescente disoccupazione che nel novembre 1919 raggiunse i due milioni, tra i quali anche 60-70.000 giovani ex ufficiali (complessivamente 160.000, secondo Salvemini), provenienti dal ceto medio, travolti da una “proletarizzazione” che li avrebbe portati su posizioni politiche estreme.
La riconversione civile della produzione bellica, commissionata dallo Stato, con minori margini e garanzie di profitto rappresentò un'ulteriore destabilizzante eredità della guerra, determinando nel settore industriale crisi e licenziamenti.
Con la progressiva smobilitazione e col lentissimo rientro dal fronte di questo esercito di spostati, venne a formarsi un variegato movimento combattentistico che raccolse ed espresse le rivendicazioni politiche, sindacali e anche morali della quasi totalità di coloro che avevano indossato un'uniforme durante gli anni di guerra, coagulandone pure il disagio psicologico per una normalità troppo stridente col proprio recente vissuto. A partire da questa lacerazione interiore, l'esperienza bellica attraversò più in generale la vita sociale, in quanto i proletari già in divisa portavano nei conflitti di classe, assieme alla risolutezza di una generazione che aveva acquisito abitudine alla violenza e all'uso delle armi, l'antagonismo di chi sentiva di aver patito uno sfruttamento “supplementare”, oltre a quello insito nei rapporti di produzione. Non fu infatti casuale che nel cosiddetto Biennio rosso del 1919-20, fin dalle prime occupazioni di industrie, le lotte sindacali cambiarono volto mentre gli stabilimenti venivano presidiati e difesi come ridotti militari dagli operai con in testa l'elmetto “modello Adrian”, simbolo stesso del combattentismo, e il fucile '91 in spalla. Contemporaneamente, dal magma inquieto dei reduci congedati o ancora in servizio, si formò un esteso e diversificato associazionismo di rivendicazione sia sindacale che morale, con la comparsa di numerose sigle di ogni orientamento politico e con diversi livelli di adesione. Iniziarono a verificarsi rivolte di arditi, in numerose città italiane, sostenute da sovversivi e lavoratori che temevano di essere coinvolti in nuovi combattimenti in Albania.
Come asserisce l'autore in chiusura, visti i presupposti e analizzate le condizioni il passo dalle trincee alle barricate fu inevitabilmente breve.

Gaia Raimondi

Note

  1. M. Rossi, Gli ammutinati delle trincee, p.15, Pisa, BFS edizioni, 2014.
  2. M. Rossi, Gli ammutinati delle trincee, p.17, Pisa, BFS edizioni, 2014.
  3. Ibidem, p. 26.
  4. Il Congresso giovanile socialista, tenutosi a Bologna nel settembre 1912 aveva, tra l'altro, deciso di dare vita a una specifica struttura di propaganda antimilitarista, collegata a una cassa di solidarietà, presentata con opuscolo-manifesto redatto da Amadeo Bordiga, pubblicato a Roma nel 1913. Cfr. M. Fatica, “Il Soldo al Soldato” di Amadeo Bordiga, «Giano», n. 18, settembre-dicembre 1994. Sull'esperienza della Cassa per il soldo al soldato si veda anche G. Oliva, Esercito, paese e movimento operaio, Milano, Franco Angeli, 1986, pp. 216-220.
  5. R. Canosa, A. Santosuosso, Magistrati, anarchici e socialisti alla fine dell'Ottocento in Italia, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 147.
  6. Vedi box “Chi finiva nelle compagnie di disciplina”. Tratto da “Passaggio alle compagnie di disciplina” in Regio Esercito Italiano, Libretto personale del Regio Esercito italiano, 1915.
  7. Vedi box “Uno scritto antimilitarista di Errico Malatesta”, Questo articolo di Malatesta è stato pubblicato in E. Malatesta, Scritti antimilitaristi, Milano, Edizioni Segno libero, 1982.
  8. M. Rossi, Gli ammutinati delle trincee, p.54, Pisa, BFS edizioni, 2014.
  9. A. Gibelli, L'universo mentale del soldato nella Grande Guerra, in Questioni di guerra, Gorizia, Museo della Grande Guerra, 2009, p. 49.
  10. P. Caccia Dominioni, 1915-1919, Milano, Longanesi, 1970, p. 114.
  11. M. Isnenghi, La Grande Guerra, Milano, Giunti, 1993, p. 87.
  12. Cfr. G. Procacci, La protesta delle donne nelle campagne, in Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 207-250. Sull'attivismo delle socialiste e delle anarchiche contro il militarismo si veda M. Scriboni, Abbasso la guerra! Voci di donne da Adua al Primo conflitto mondiale (1896-1915), Pisa, bfs, 2008.
  13. Turati descrisse l'agitazione in una lettera ad Anna Kuliscioff, pubblicata in R. De Felice, Ordine pubblico e orientamenti delle masse popolari italiane nella prima metà del 1917, «Rivista storica del socialismo», settembre-dicembre 1963, p. 472. Analoghe mobilitazioni di donne lombarde contro la guerra avvennero negli stessi giorni anche a Gallarate, Busto Arsizio e Lecco, nonostante l'opera dissuasiva svolta dai socialisti.
  14. Cfr. A. Nataloni, Le rivolte delle donne durante la Grande guerra nella Romagna ravennate (www.arsmilitaris.org/pubblicazioni/Proteste%femminili.pdf ).
  15. Cfr. E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 257-281. Tra l'altro, in questo saggio vi è l'interessante descrizione dei gravissimi disordini avvenuti in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti nel 1919 a opera di soldati in rivolta: in particolare, circa duemila tra fanti e artiglieri britannici – ancora a Calais, in Francia – costituirono una sorta di soviet che costrinse il governo inglese a trattare; così come accadde negli usa, nello stato di Washington, dove un soviet di reduci affiliato all'iww giunse a scontrarsi con la polizia per le strade di Tacoma e successivamente a Seattle.
  16. Cfr. Dizionario biografico degli anarchici italiani, vol. ii, Pisa, BFS edizioni, 2004, ad nomen (scheda curata da A. Luparini). Moroni, dopo essersi rifugiato in Svizzera per sfuggire all'obbligo della leva, nel 1912 al ritorno in Italia fu perciò incorporato in un reparto punitivo a Napoli venendo subito denunciato per «diffamazione dell'Autorità Militare e del Regio Esercito». Seppure prosciolto dal tribunale di Cagliari, venne assegnato alla Compagnia di disciplina a S. Leo sino al giugno 1914. In seguito, paradossalmente, allo scoppio della Prima guerra mondiale, Moroni avrebbe assunto posizioni interventiste e combattuto valorosamente al fronte.


Come si finisce nelle compagnie di disciplina

Passa in una compagnia di disciplina di punizione fino al termine della ferma sotto le armi:
a) il soldato che, dopo esauriti a suo riguardo tutti i mezzi disciplinari, persiste nella cattiva condotta, dando prova di non essere suscettibile di ravvedimento;
b) il militare che si macchia di colpe avente carattere indecoroso, come camorra, indelicatezza, pederastia, tentativo di stupro, pubblica mendicazione, simulazione d'infermità;
c) il militare colpevole di mene o propositi sovversivi contro le patrie istituzioni, o che – direttamente o indirettamente – partecipa a qualche associazione avversa alle istituzioni stesse;
d) il militare che dopo subita una condanna al carcere o alla reclusione militare è immeritevole di rientrare al corpo, sia per la natura del reato commesso, sia per la condotta tenuta durante l'espiazione della pena;
e) il militare che il comandante di corpo, per qualche causa eccezionale e non contemplata nei precedenti capoversi, crede utile, nell'interesse della disciplina, di proporre per l'assegnazione alle compagnie di punizione;
f) i caporali e i soldati che si ammogliano in opposizione al prescritto del n. 510 del regolamento di disciplina militare, previa la retrocessione dal grado ai primi. Passa ad una compagnia di disciplina speciale fino al termine della ferma sotto le armi il militare che ha subito condanna per furto commesso dopo l'arruolamento.

Passaggio alle compagnie di disciplina” in Regio Esercito Italiano, Libretto personale del Regio Esercito italiano, 1915.


Le vittime del militarismo

L'Internazionale di Parma pubblica una lettera di un gruppo di soldati della compagnia di disciplina di San Leo, in cui sono rivelate nuove infamie a danno del nostro compagno. Il Moroni16, se non fosse stato inviato alla compagnia di disciplina a causa delle sue idee, da un pezzo avrebbe dovuto essere congedato. Invece non solo è trattenuto sotto le armi, nel luogo infame che tutti sanno, ma in questo momento si trova in carcere, in attesa d'essere trasportato qui in Ancona, per essere giudicato da questo Tribunale militare, a cui è stato denunciato dai suoi superiori per aver denunciato insistentemente nella stampa gli orrori delle compagnie di disciplina.
E come se questo non bastasse, l'autorità militare di San Leo si accanisce ferocemente contro tutti quegli altri disgraziati soldati che mostrano come che sia un po' d'interessamento e di simpatia pel Moroni. I soldati Gaiato e Leonardi sono stati puniti con venti giorni di rigore ciascuno per vendicarsi su loro d'un atto d'umanità e di bontà; per aver cioè i due suddetti fatta una colletta per venire in qualche modo in soccorso del Moroni. A nulla è valso che l'intera compagnia testimoniasse aver voluto unanimemente tutti quella sottoscrizione. La condanna è rimasta; ed i due ora sono nelle terribili celle di punizione di San Leo. L'Internazionale pubblica anche una lettera del Moroni al fratello, in cui notiamo con piacere che il suo morale è elevato, malgrado la costante persecuzione e l'atroce tortura cui è sottoposto.
Egli dagli antri di San Leo conduce dal primo giorno che vi fu trasferito una campagna efficace contro le compagnie di disciplina; più efficace di mille arringhe d'avvocati!
Egli scrive da una cella di rigore di appena due passi di lunghezza, costretto a giacere la notte sul duro tavolaccio, con le ossa indolenzite dal freddo e dall'immobilità forzata; in un mese non gli si sono conceduti neppure cinque minuti di aria libera. «Qui siamo completamente inermi – egli dice –, ci levano perfino il cucchiaio;... siamo impotenti, eppure siamo temuti! La compagnia di disciplina è destinata a sparire. Se a nulla varrà lo sforzo dei compagni a persuadere il popolo a cancellare queste barbarie, non ci resta che affidarci a ciò che la disperazione può suggerirci».

Errico Malatesta

Stralcio dell'articolo ”Le vittime del militarismo” apparso sulla rivista Volontà il 15 novembre 1913.


Dal carcere di Ponza

Il compagno Raffanini in un momento di ozio sta scrivendo una lettera a me, dove egli si lamenta delle sue sofferenze. Viene colto dal sottotenente- jena Antero, l'anima più viscida e più sordida ch'io abbia mai conosciuto.
Gli viene sequestrato il manoscritto ed ha 20 giorni di cella. Venti giorni di cella non significano soltanto venti giorni di fame, di freddo e di sofferenze, ma significano pure altri quattro mesi di compagnia di disciplina. Ma dov'è cosa più orribile di questa: essere condannato a quattro mesi di carcere per indirizzare una lettera ad un amico? Non è più onesto il più sadico assassino del mondo, l'ammiraglio Horty, quando fucila o impicca tutti coloro che manifestano idee socialiste?
Il compagno Giovanni Ciccomascolo, soldato con quattro anni di servizio, che ha fatto la guerra per tutta la sua durata, è colto dallo stesso rinnegato tenente Antero in possesso di un vecchio pezzo di Umanità Nova. Ah! Che occasione questa per poter satollare il proprio odio contro i socialisti! Quindici giorni di cella... e cioè, altri quattro mesi di compagnia. Io sfido chiunque a citarmi un'altra parte del mondo civile dove avvengono simili mostruosità.
In verità la spudorataggine di Giolitti, capo del governo d'Italia, quando afferma che questo disgraziatissimo paese di assassini è il fior fiore della democrazia e della libertà, non ha classificazione.

Smeraldo Presutti

da L'Avanguardia, giornale socialista, 2 gennaio 1921.


Una canzone disfattista

La stampa venduta
Di tante menzogne
Ha pieni i suoi fogli
Vi han fatto abbagliar
Di mille fandonie
v'han piena la testa
per meglio portarvi supini a morir.
Ai vecchi confini
voi tutti correste
gridando a gran voce
vai fuori o stranier.
Ma il vero nemico
dei vostri interessi
con riso satanico
in cuore gioì.
E ancora una volta
le maglie stringeva
di quella catena
che servi vi fa
il vero nemico del vostro avvenire
un solo è davvero
il gran capital.

Questa canzone - nata senza titolo, ma ripresa dalla stampa socialista con i titoli “Lavoratori soldati” e “Guerra e pace” - è opera dei soldati messinesi Umberto Fiore e Pietro Pizzuto e del veneto Pietro Pietrobelli, incriminati e condannati per disfattismo in occasione del cosiddetto Processo di Pradamano (luglio-agosto 1917). Sul libro Plotone d'esecuzione. I processi della prima guerra mondiale di Enzo Forcella e Alberto Monticone (Editori Laterza, 2008) se ne trovano i particolari.


Lettera dal fronte

(...) ormai nissuno a più fiducia nella vittoria tanto cantata, tutti cominciano a comprendere, che non si fa altro che massacrare giovani vite inutilmente, la sfiducia è generale come è generale il sentimento ostile al prolungamento delle ostilità tanto nelle nostre file, come nelle file dell'Esercito Nemico, così si apprende da disertori, che si presentano a noi sovente, ormai quasi tutti sanno, che la colpa e le origini della guerra sono i malvagi Governi democratici borghesi, assecondati dalle barbare mani Militariste, che mirano alla distruzione del libero pensiero per assoggettare i popoli al loro tirannico regime, ed alla demolizione di quelle energie che prima della guerra tenevan quasi tutto in sacco, la loro forza brutale [...] Questa lettera la farai leggere a qualche signore interventista che possa farsi chiaro il concetto del nostro pensiero, o del male fatto con l'opera loro.

La lettera, scritta da un fante anonimo, è tratta da La censura di trincea. Il regime postale della Grande Guerra di Alessandro Magnifici (Nordpress, Chiari, 2008, pp. 67, € 18,50).

 

Proletari in divisa

Foto-cartolina di anonimi soldati e marinai (dalla collezione privata di Marco Rossi)

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