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A che punto è l'autoeditoria?

di Claudia Vio


La differenza tra autopubblicazione e autoeditoria non è solo linguistica.
Il settore del self-publishing è in aumento, ma eterodirezione e mancanza di autodeterminazione sono i suoi limiti. L'autoeditoria può incrementare libertà di espressione e creatività, ma le esperienze dei singoli autoproduttori vanno aggregate. Per evitare che si disperdano.


Dopo quasi un decennio di attività, occorre fare un bilancio. A partire da un autoesame. Nel primo libro pubblicato con Unica Edizioni, nata nel gennaio 2006, davo fiato alle trombe della mia personale autoeditoria. “Unica Edizioni – scrivevo in una nota – risponde alla volontà di costruire l'opera letteraria oltre la scrittura, inglobando la produzione del testo e le forme della sua circolazione”.
Poche righe per esprimere un concetto che ho ripetuto in varie circostanze, ma che vale la pena ribadire perché costituisce la chiave dell'autoeditoria. Andare oltre la scrittura significa intromettersi in tutto ciò che, in genere, autori e autrici pensano che non li riguardino. Mi riferisco a ciò che precede e che segue la pubblicazione di un libro: lo scopo per il quale pubblicarlo, la scelta dei destinatari, il modo di relazionarsi con i lettori, la vendita del prodotto-libro (come la decisione di non venderlo). Sono tutti aspetti sostanziali dell'editoria e tutti hanno a che fare con il pubblico: pubblicare significa infatti, nella sua essenza, rendere pubblico. La stampa è solo un mezzo, grazie al quale un autore/un'autrice entra in contatto con il suo pubblico potenziale.
Dunque “pubblicare” non è sinonimo di “stampare”. Mentre stampare è facile per chiunque - basta rivolgersi a una tipografia - pochi autori invece riescono a “pubblicare”, ovvero a collegarsi a un pubblico. Questo dipende dal fatto che il complesso delle operazioni che sono connesse al pubblicare sono monopolio dell'editoria. Contrariamente a quanto comunemente si crede, infatti, il compito principale di un editore non risiede tanto nel produrre libri, quanto nel gestire la loro circolazione. Gli editori detengono il controllo della relazione autore-pubblico. Nella grande maggioranza dei casi selezionano gli autori tenendo d'occhio il pubblico, nella sua accezione di acquirente. Con indagini di mercato intercettano le preferenze degli acquirenti e su di esse orientano le loro scelte. Investono capitali nella pubblicità, cioè nelle varie forme con le quali il pubblico viene persuaso ad acquistare un libro. Attraverso gli editori passano – o non passano – i contenuti culturali. Il loro obiettivo è ottenere il massimo delle vendite, i profitti più elevati.
Molta produzione, dunque, non accede all'editoria, perché non viene considerata interessante per il mercato.

Le varie forme dell'autopubblicazione

Migliaia di “manoscritti” giacciono nei cassetti perché vengono rifiutati dagli editori. A volte si tratta di brutti libri, altre volte invece i libri sono scritti bene, ma l'editore li ritiene di scarso interesse per il pubblico. Spesso gli autori, respinti dagli editori, tentano di pubblicare comunque. Da qui il fiorire delle cosiddette autopubblicazioni, un fenomeno cresciuto enormemente nell'ultimo decennio.
Il termine “autopubblicazione” è ambiguo, perché comprende realtà diverse. Facciamone una rapida carrellata.
Stampare da sé in tipografia è la più tradizionale delle forme di “autopubblicazione”. Da sempre, il libro “pubblicato” in questo modo viene presentato dall'autore con la dicitura “stampato in proprio”, appunto perché non ha un editore. In genere, l'autore stampato in proprio non definisce se stesso come autopubblicato; egli pensa, giustamente, che “pubblicare” sia sinonimo di “editare”, se ne guarda bene perciò dal confondere le acque. Poiché non vuole ingannare il pubblico millantando un editore che non esiste, l'autore stampato in proprio si dichiara per quello che è: un autore senza editore.
Nel Novecento l'autore stampato in proprio era una figura piuttosto comune, una sorta di controcanto malinconico degli esclusi dall'editoria. Esclusi dal rapporto con il pubblico, ovviamente, perché “gestire” la relazione con il pubblico è altra cosa da stampare ed è una competenza degli editori, come abbiamo detto. Autori solitari, ignoti, attorniati tutt'al più dalla cerchia ristretta degli amici e dei parenti.
Una sorte un po' diversa hanno avuto le autoproduzioni generate dalle avanguardie artistiche e letterarie nei primi decenni del secolo, così come quelle nate dalla controcultura nella seconda metà del Novecento. Trattandosi di fenomeni collettivi, che hanno provocato un sensibile rinnovamento del linguaggio e del costume, queste autoproduzioni sono ancora oggi apprezzate e spesso conservano la loro natura refrattaria all'industria culturale e all'omologazione, con una forte carica di vitalità creativa.
Anche i protagonisti delle autoproduzioni, come gli autori stampati in proprio, hanno sempre evitato di definirsi “autopubblicati”. In entrambi in casi c'è comunque una componente di radicalismo (la volontà di non essere confusi con la cultura commerciale), di elitarismo (la manifesta indifferenza verso il pubblico: autoprodurre è considerato un valore in sé), in qualche caso di deferenza verso l' “editoria vera”, dalla quale sotto-sotto si spera di essere scoperti e a cui ci si sente subalterni.
Per l'autore esiste anche un'altra possibilità per “autopubblicare”, quella di pagare un editore che lo pubblichi. Questa forma di autopubblicazione contiene una mistificazione, perciò non viene mai rivelata come tale. Al pubblico si fa credere che l'autore goda dell'accredito di un editore. In realtà l'editore non ha investito un solo centesimo sull'autore, perché è stato pagato dall'autore stesso (nelle varie forme in cui ciò può avvenire: dal pagamento vero e proprio all'impegno per l'autore di acquistare un tot di copie o di comprare quelle invendute).
Questa forma di autopubblicazione è invisa agli editori onesti, che la considerano a ragione una concorrenza sleale. L'editore a pagamento, a differenza degli altri, non rischia; attraverso l'autore si garantisce in partenza un profitto. Per gli autori che la praticano è un controsenso. L'editore pagato dall'autore non ha alcun interesse a cercare un pubblico, perché ha già il suo acquirente, l'autore. Si tratta di una pubblicazione senza pubblico.
Infine, prima di parlare della forma di autopubblicazione oggi più in voga, il self-publishing, è opportuno menzionare anche il crowdfunding o “produzioni dal basso”. È un sistema di finanziamento collettivo – ovvero di una raccolta fondi - a sostegno di uno specifico progetto. I progetti possono essere i più vari, dalla costruzione di un asilo alla realizzazione di una ricerca scientifica, da un'emergenza umanitaria a un evento sportivo. Si tratta senz'altro di una forma eccellente di “finanziamento dal basso”. Il crowdfunding viene usato anche da alcuni autori per pubblicare un proprio libro. Con il crowdfunding essi raccolgono il denaro necessario per pagare un editore che li pubblichi. I loro libri sono dunque autoprodotti? Appartengono alla dimensione dell'autoeditoria? Gli autori ritengono di sì, perché questa pratica è chiamata “produzioni dal basso” (si veda il sito al riguardo).
Io credo invece di no. Dal basso proviene solo il denaro, che però viene immesso in un sistema di editoria a pagamento. È un peccato, perché l'aspetto positivo del crowfunding, cioè la condivisione dell'iniziativa, viene inghiottito nel solito tritacarne.

Self-publishing? No grazie

Nell'ultimo decennio il “self-publishing” è diventato di moda. È una modalità di autopubblicazione legata da un lato alla possibilità, offerta dall'informatica, di “creare” un libro con pochi semplici passaggi, dall'altro, di rendere “disponibile” il libro a un pubblico planetario grazie al web.
Il self-publishing si sta affermando con l'aggressività tipica delle battaglie commerciali per la conquista del mercato. Ha rapidamente assorbito il concetto di “autoproduzione”, di cui spesso si presenta come sinonimo, e ha spazzato via gli “stampati in proprio”, dinosauri dell'epoca del cartaceo. I siti di self-publishing dichiarano di essere “un modo per pubblicare senza ricorrere a un editore”. Come vedremo, usano il termine “pubblicare” in modo ingannevole.
Uno dei siti di self-publishing più noti è ilmiolibro.it, tra i più fortunati c'è lulu.com, ma ve ne sono molti altri. Tutti funzionano più o meno nello stesso modo: l'autore accede alla piattaforma on-line del sito dove trova disponibile, già nella homepage, un software. Di solito il software non si presenta come tale: esso compare con la dicitura “Crea il tuo libro” (in evidenza) con un link sottostante da cliccare: “Inizia subito”. Cliccando sul link l'autore inizia a “creare” il proprio libro, nel senso che lo compone, guidato passo passo dal software. Sceglie il formato, la rilegatura, l'immagine di copertina, inserisce il testo. L'intera procedura è gratuita. Alla conclusione di tutti questi passaggi, con un “clic” di conferma il libro risulta “fatto”. Il software ha creato automaticamente il libro.
I siti di self-publishing enfatizzano due aspetti allettanti della loro offerta: la possibilità di “pubblicare senza un editore” e, per l'autore, di “esprimere se stesso liberamente”. L'editore è dipinto come il grande nemico della creatività individuale, l'ostacolo che impedisce all'autore-creatore di raggiungere il pubblico. In parte ciò è vero. Come abbiamo detto prima, l'editore ha il monopolio del rapporto con il pubblico. Ma non è vero che il self-publishing non abbia un editore, ce l'ha eccome. E non è vero che l'autore guadagni qualche fetta di libertà con il self-publishing. Tanto per fare un esempio, il sito ilmiolibro.it appartiene al Gruppo Editoriale l'Espresso, lo stesso di Repubblica per intenderci.
Lorenzo Fabbri, ideatore del sito ilmiolibro.it, enuncia i dettami della nuova editoria in una intervista rilasciata a Rosalba Rattalino (www.inuk.it). La sua filosofia è la stessa di lulu.com, creato da un imprenditore canadese, Bob Young, il quale ha intravisto nell'autopubblicazione le possibilità di un affare planetario grazie a questo principio ispiratore: “il successo non è fatto da 100 libri che vendono 100 mila copie, ma da 100 mila libri che vendono 100 copie ognuno”. I centomila libri che vendono cento copie ognuno corrispondono ai centomila autori autopubblicati (ciascuno con qualche decina di copie), in contrapposizione ai pochi autori selezionati (i 100 libri) per ciascuno dei quali l'editoria tradizionale si sforza di ottenere il massimo delle vendite (100 mila copie).
Dunque l'editore esiste. Però non compare nei siti di self-publishing. Questi siti forniscono pochissime informazioni su di sé, in genere contengono solo le istruzioni per “autopubblicare”. Non si sa a chi appartengano, né da chi sia formata la redazione. Si presentano con il volto dell'immediatezza (pubblicare subito). Questa immediatezza viene attribuita al mezzo tecnologico. L'utente si convince di poter scavalcare in un balzo gli ostacoli posti dall'editoria in virtù di un mezzo tecnologico, il software, e di internet, che metterà il suo libro “pubblicato” a disposizione di un pubblico oceanico.
In realtà il libro generato usando il software del sito non è affatto “pubblicato”. Esso è solo potenzialmente pubblico, nel senso che può essere conosciuto dal pubblico a condizione che l'autore acquisti una serie di servizi, dall'inserimento in una libreria on-line, al messaggio promozionale, dalla stampa di un tot di copie su richiesta all'iscrizione a una community. L'insieme di questi servizi editoriali, gestiti dal sito, rende evidente il fatto che, ancora una volta, l'editore è il vero intermediatore fra l'autore e il pubblico. L'autore che “pubblica” se stesso con il self-publishing non rinuncia all'editore, al contrario ne esalta il potere. Ciò a cui rinuncia l'autore è sottoporsi al giudizio di un editore, positivo o negativo che sia. Egli aggira l'ostacolo dell'editore (apparentemente), per infilare la testa nel cappio di un'editoria che è esclusivamente commerciale e sostanzialmente identica all'editoria a pagamento.
Per inciso, osserviamo un altro aspetto del self-publishing. La smaterializzazione dell'oggetto-libro, insieme alle potenzialità comunicative del web, spinge l'editoria a spostarsi dalla produzione del manufatto (tipica del cartaceo) alla fornitura di servizi. In effetti, alcuni siti di self-publishing sono gestiti da tipografie e il confine fra l'editoria degli editori e l'editoria dei grafici si fa sempre più incerto. Tutti questi siti puntano sulla “libertà creativa” dell'utente, che però è solo un'espansione della soggettività; essa non ha niente a che vedere con la libertà intesa come autodeterminazione, che invece è minima, perché il potere economico e il controllo della comunicazione restano ben saldi nelle mani dell'editore o delle agenzie editoriali.

Strategie comunicative dell'autopubblicazione

Come ho detto, i siti di self-publishing puntano sull'immediatezza del risultato (pubblica subito!), che coincide con l'automatismo (per pubblicare basta un clic). L'immediatezza viene presentata come un elemento innovativo, in contrapposizione con la lentezza della carta stampata del passato. I giovani, soprattutto, sono i più propensi a cercare un'espressione di libertà attraverso il self-publishing, perché facilmente credono di vivere una svolta tecnologica epocale. In altre parole, la tecnologia viene presentata come portatrice di libertà; il software sostituisce la politica.
Oltre all'immediatezza, i siti di self-publishing puntano molto sulla personalizzazione. L'utente del sito viene sollecitato a “creare” il libro seguendo le proprie preferenze. La gamma delle possibilità offerte dal software è limitata, ma è comunque sufficiente a generare la sensazione di produrre secondo i propri desideri, anche perché l'utente collabora attivamente al lavoro “interagendo” con il mezzo tecnologico.
La personalizzazione del prodotto e l'interazione sono una tendenza che si va affermando rapidamente anche al di fuori del mondo del self-publishing. Il prosumer (il produttore-consumatore) è il nuovo obiettivo del marketing, in sostituzione del “consumatore passivo”. Il prosumer o l'“autore-consumatore” è il nuovo vessillo della libertà contro la massificazione. Il web – si sostiene – è “orizzontale e democratico”. In realtà il massimo di soggettività va di pari passo con il massimo controllo autoritario della comunicazione.
Da questo punto di vista il self-publishing è tristemente interessante non solo perché è una forma aggiornata di editoria a pagamento, ma perché è la spia di uno spostamento del sistema di potere dalla produzione di beni alla produzione di servizi, dove è cruciale il controllo della comunicazione. Paradossalmente, ma mica tanto, i veri grandi editori sono i motori di ricerca. Tra tutti, Google. Sta digitalizzando intere biblioteche in tutto il mondo. Oggi i libri digitalizzati vengono offerti in lettura gratuitamente, domani si dovrà pagare l'accesso ai libri. E forse pagare potrebbe non essere sufficiente.
Ciò significa che si sta spostando il baricentro del potere e che, da gerarchico e piramidale, sta prendendo una forma diffusa, capillare, atomizzata. Non solo. Mentre nel mondo del “cartaceo” il rapporto fra il lettore e il libro è oggettivato perché l'oggetto-libro viene percepito dal lettore come qualcosa di diverso da sé, ciò non avviene nel mondo digitale gestito dall'industria culturale. Qui il rapporto fra l'oggetto e il soggetto appare “fisiologico”. I nativi digitali sono le vittime ideali di questa nuova dimensione. Essi percepiscono lo strumento digitale come un'estensione di sé, del proprio corpo. Manca quella separatezza dal prodotto, che suggerisce un minimo di spirito critico. I nativi digitali non si interrogano su ciò che stanno facendo mentre interagiscono con il software.
Osserviamo: da una parte c'è un individuo, con la sua aspirazione a comunicare, desideroso di “esprimere se stesso”, animato dal desiderio di creare qualcosa di personale e originale. Dall'altra c'è un'entità incognita, anonima, cioè il sito di self publishing, che lo pilota. Che governa quelle pulsioni. L'individuo è completamente eterodiretto, proprio mentre crede di esprimere il massimo di autodeterminazione.
Infine notiamo un altro aspetto preoccupante, la perdita del principio dell'alterità, del dissenso. Quando dico che l'autopubblicazione ha divorato l'autoproduzione non mi riferisco a un mero fenomeno linguistico (che comunque non è mai a se stante). Intendo dire che la propaganda del self-publishing ha fatto proprie anche le parole d'ordine della controcultura, a cui addirittura si richiama, a volte, e di cui si autoproclama erede. Svuotata del suo orizzonte contestatario, la controcultura viene usata per manipolare le aspirazioni alla libertà. Tant'è che oggi chi pubblica in self-publishing lo dice apertamente e ne è orgoglioso.

Cos'è l'autoeditoria, cosa vorrei che fosse

Dire cos'è l'autoeditoria significa descrivere un paesaggio che sta in bilico fra quello che già esiste e ciò che si vorrebbe che esistesse.
L'autoeditoria è l'editoria degli autori e delle autrici che autogestiscono l'intero processo collegato alla creazione e diffusione del libro: dalla sua realizzazione come manufatto (cartaceo o digitale, manuale o stampato in tipografia) alla sua circolazione. Il termine non va inteso in chiave autoriflessiva (mi pubblico da me), ma di autogestione. Nell'autoeditoria tutte le decisioni che contano fanno capo all'autore, che perciò si propone anche come editore. La figura dell'editore non viene affatto cancellata. Essa contiene le funzioni decisionali più importanti che riguardano la circolazione dei contenuti. L'autoeditore non le delega ad altri, se ne fa carico.
Da questo punto di vista l'autoeditoria è parente stretta dell'autoproduzione e certamente ingloba lo stampato in proprio. Non ha niente a che spartire invece con il self-publishing, dove l'autore ha compiti editoriali insignificanti e comunque scorporati dal processo editoriale complessivo. Ovviamente è anche lontanissima dall'editoria a pagamento.
Questa autoeditoria esiste. Da molti anni la praticano i Troglodita Tribe, con la loro Editoria Casalinga Interstellare, e la Casa Editrice Libera e Senza Impegni. Entrambi sono attivi soprattutto sul versante dell'autoproduzione di libelli fatti a mano, sempre con materiali di riciclo. Sul versante della scrittura esistono da tempo la rivista Edizione dell'Autrice e la sottoscritta. Altri si sono aggiunti negli ultimi anni, come Lieve Malore ad esempio, testimoniando una grande vitalità dell'autoproduzione.
Tuttavia le esperienze dei singoli soggetti che autoproducono, benché sempre più numerose, andrebbero disperse se non si fosse fatto lo sforzo di aggregarle, creando occasioni d'incontro e di scambio. Ricordiamo a Venezia, nel 2007, il primo tentativo di riunire le forze locali con “Aut Aut”, una rassegna di autrici e autori autoprodotti organizzata da Unica Edizioni e Scoletta dei Misteri di Antonella Barina. Gli eventi collettivi sono proseguiti con gli incontri annuali di “M'Editare”, di Edizione dell'Autrice, e con altri eventi organizzati da Unica Edizioni, come la rassegna “Dopo l'ultima parola” presso il teatro Fuori Posto di Mestre nel 2010 o presso l'Ateneo degli Imperfetti di Marghera nel 2010-2011.
Tra le iniziative nate per collegare gli autoproduttori, Liber – I Libri Liberi è quella che meglio esprime l'idea di un'autoeditoria libertaria. L'annuale salone milanese, nato nel 2011 per volontà della Casa Editrice Libera e Senza Impegni e di Edizioni Pratiche dello Yajè, è appunto autoprodotto, autogestito e autofinanziato, oltre che organizzato secondo una logica di rapporti non gerarchici. Liber si è rivelato uno straordinario propulsore per l'autoproduzione, contribuendo a diffonderne il linguaggio e la filosofia, come dimostra il moltiplicarsi di nuovi autoproduttori, ispirati da ciò che hanno visto a Milano e già capaci di portare un contributo originale.
Ma, dobbiamo sottolinearlo, nemmeno questo è sufficiente. Non basta creare eventi collettivi, benché rigorosamente autogestiti, autoprodotti e autofinanziati. È necessario anche creare un circuito che sia anch'esso autogestito, autoprodotto e autofinanziato (giova ripeterlo), perché il terreno dove si gioca il rapporto fra autorità e libertà è proprio quello della circolazione del libro, più che la sua confezione. Si faccia caso a quanto è accaduto dopo il primo Liber. Esso ha attirato l'interesse di associazioni che ora riprongono fiere o saloni di libri autoprodotti nelle loro città. Il libro autoprodotto piace. È gioioso, accessibile e, a differenza dei tradizionali “libri d'artista”, non rinuncia mai al suo valore d'uso, pur restando un prodotto unico e bellissimo. Non nasce per finire dentro una bacheca. E può essere “imitato”, infatti gli autori di libri autoprodotti insegnano come farli.
Ma, è questo il punto che mi preme sottolineare, le associazioni culturali che organizzano fiere analoghe a Liber, non si muovono nella filosofia dell'autoproduzione. Si collocano come intermediatori culturali nel processo editoriale della circolazione del libro. Godono di finanziamenti considerevoli, perché spesso hanno il sostegno finanziario del Comune e dei privati. Certo, servono a far conoscere i libri autoprodotti, ma in parte ne mutilano l'essenza. L'intenzionalità politica dell'autoeditoria viene decapitata e con essa, a ben guardare, anche la sua vitalità.
Proprio per non delegare a terzi l'autoproduzione del circuito, negli ultimi due-tre anni si è cercato di creare almeno due poli di circolazione: Milano e Venezia. Così la rassegna Fare Libri Liberi, organizzata con l'Ateneo degli Imperfetti di Marghera, e con lo sforzo notevole degli ospiti partecipanti, ha consentito di scavare un primo solco. Il sostegno di A Rivista Anarchica è prezioso, perché consente di dare diffusione agli eventi e di mantenere nel tempo la continuità dell'ispirazione libertaria.
Quest'anno si prosegue a Mestre con l'“Atelier dell'altra editoria” presso Casa Bainsizza, con la collaborazione del Gruppo di Lavoro Via Piave, un'associazione di promozione sociale che da alcuni anni lavora in un quartiere difficile. Il Liber-salone sarà presente all'Atelier, in trasferta per così dire. È questa un'occasione per potenziare la valenza sociale dell'autoeditoria, senza la quale essa rischia di diventare una variante eccentrica del mercato editoriale.
Ma è necessario anche affrontare il web. Comprendere la natura e la dinamica di potere che si sta realizzando attraverso di esso. Il gruppo Ippolita ha scritto testi eccellenti al riguardo, che l'editrice Eleuthera è stata la prima a pubblicare. Occorre considerare il mezzo tecnologico e utilizzarlo a un fine libertario. E qui il lavoro è tutto da fare.

Claudia Vio