Rivista Anarchica Online


violenza sessuale

Tra archetipi e stereotipi

di Julka Fusco


Le matrici culturali della violenza sessuale dall'antica Roma ai giorni nostri.
Appunti su donne, stupro, visione sociale e leggi.


La tradizione romana assegna alle condotte sessuali illecite il ruolo di primo piano in rivolgimenti di ordine costituzionale o avvenimenti importanti per la vita della città-stato, dal punto di vista socio-economico. Lo stupro di Lucrezia da parte del figlio di Tarquinio il superbo, determina la fine della monarchia e l'avvento della repubblica1; un tentativo di violenza ai danni della fanciulla romana Virginia pone fine al decemvirato legislativo2.
La moderazione sessuale è, per converso, una delle virtù che stanno alla base della conservazione delle famiglie, delle comunità di uomini liberi e di regni: chi pratica la continenza ricava benefici che possono concernere l'intero popolo romano. Dalle condotte sessuali, in particolare femminili, possono derivare conseguenze gravissime, tali da comportare la crisi di assetto di poteri, e non solo quando si riflettono direttamente sulla sfera politica, ma anche quando rimanendo nell'ambito privato, ne risentono comunque i consociati.
Tutto un ordine sociale, infatti, rischia di vacillare, indebolito da atti che ne intaccano le basi: da qui la necessità di controllare da parte della famiglia, o dal complesso di cittadini attraverso gli organi della città a ciò preposti, comportamenti potenzialmente pericolosi e la rappresentazione della “pudicizia”, sin dalla fase più antica della storia di Roma, come uno dei valori su cui si fonda il modello perfetto ed ideale di donna.
Gli studiosi che si sono confrontati col tema della violenza sessuale sono tutti d'accordo nel ritenere che il moderno reato di stupro non appare, nel diritto romano, con una sua specifica configurazione, ma questo comportamento fu attirato, nel corso del tempo, nell'ambito repressivo di molteplici fattispecie giuridiche. Si dovrà, infatti, attendere il diritto bizantino, che punirà in modo autonomo questo illecito.
Sin dall'inizio appare opportuno fare una precisazione terminologica: sebbene nella lingua italiana la parola stupro, indicante il rapporto sessuale violento con un soggetto non consenziente, derivi dal vocabolo latino stuprum, questo termine, nel mondo romano, non ha mai fatto riferimento alla violenza o alla mancanza del consenso, ma ha sempre, semplicemente, indicato un rapporto sessuale non consentito, dagli usi prima e dal diritto dopo.
La pudicitia, intesa come onorabilità sessuale, rappresenta, sin dalla fase più antica della storia di Roma, nella sua originaria emersione in ambito religioso (col culto della dea Pudicitia3), uno dei valori su cui si fonda il modello perfetto ed ideale di donna, e, come i famosi racconti di Lucrezia e Virginia dimostrano, un bene prezioso per la sopravvivenza stessa civitas.

“Solo se vestita da donna perbene”

Le fonti ci riportano la presenza forte e reale di questa virtù4, che condiziona profondamente lo statuto etico delle donne, inizialmente nei termini di incoraggiamento a coltivare tale attitudine, che doveva avere una necessaria manifestazione pubblica, andando, successivamente, a rivelare l'esigenza di una sua specifica protezione e tutela.
Tale tutela arriva dal pretore con l'editto de adtemptata pudicitia5, con il quale vengono puniti, a titolo di iniuria, dei comportamenti ritenuti oltraggiosi per la pudicitia di una donna onorata. Le fattispecie previste erano tre: l'appellare, nel senso di abbordare con lusinghieri discorsi; il comitem abducere, cioè l'allontanamento dell'accompagnatore della donna, e l'adsectari, il suo silenzioso inseguimento, laddove, però, oltrepassassero il limite dei boni mores (buoni costumi).
Da questo punto di vista, appare strano che, a fronte di una punizione di comportamenti ben lontani dalla violenza sessuale, anche se potenzialmente prodromici alla stessa, manchi, una punizione netta e severa per chi avesse materialmente obbligato una donna, contro la sua volontà, ad avere un rapporto sessuale.
Probabilmente, le ragioni di questo sono da ricercarsi proprio in quella rilevanza pubblica della pudicitia, che portò alla concezione secondo la quale una donna per bene doveva comportarsi sempre in modo tale da non attirare mai minimamente l'attenzione: doveva evitare il più possibile di uscire di casa, e se lo faceva, oltre a dover essere scortata, doveva indossare degli abiti che la coprissero completamente. Anche il viso, infatti, era nascosto dalla stessa stola o dal velo che scendeva dal capo. Non a caso le statue della dea pudicitia erano velate e lo stesso editto de adtemptata pudicitia operava pienamente si matronali habitu femina fuerit, cioè solo se la donna fosse stata vestita da donna perbene.
In un contesto del genere, chiaramente, risultava difficile credere che una donna potesse subire, proprio malgrado, un approccio maschile, anzi, il fatto stesso di essere oltraggiata la faceva apparire come essa stessa oggetto di sospetto, essendo quasi impossibile dimostrare di aver fatto di tutto per evitarlo.
Ancor più difficile a credersi a fronte di un'idea fortemente radicata nel mondo romano, fin dalle origini, l'idea della debolezza del sesso femminile, che rendeva le donne incapaci di resistere alle tentazioni e scarsamente capaci di controllare le emozioni. I vocaboli usati per indicare la debolezza femminile sono numerosi, ma le locuzioni più frequenti sono levitas animi e infirmitas sexus, entrambe indicanti una debolezza fisica che, esprimendo in senso negativo un difetto, vanno a caratterizzare la condizione della donna e ne giustificano l'esclusione dall'essere titolare di situazioni giuridiche soggettive.
Da questo punto di vista, la violenza sessuale non solo era difficile da sanzionare, ma anche solo da concepire, e la tutela della pudicitia, nella quale si sarebbero potuti far rientrare tutti gli atti volti a “trasformare una persona da pudica ad impudica”, era di tipo privatistico, poiché avveniva con la concessione dell'actio iniuriarum. Ed anche quando, dopo l'istituzione da parte di Silla di una quaestio de iniuriis, dal carattere probabilmente non permanente, il giudizio subì una trasformazione, questo non perse la sua natura privatistica, poiché, pur essendo strutturato come una quaestio criminale, avrebbe potuto essere promosso non, come le altre quaestiones, da un quivis de populo (qualsiasi cittadino), ma solo dalla parte lesa, che avrebbe incamerato la pena pecuniaria inflitta al colpevole.
In ogni caso, sul piano giuridico, la donna non sembra emergere come parte lesa, ma paiono offesi altri soggetti ad essa collegati, come il suo paterfamilias, il marito, ed anche il fidanzato, e altri sono gli interessi offesi, come la buona reputazione, i boni mores, etc., e così sarà anche quando, con la lex Iulia de adulteriis coercendis (sulla repressione dell'adulterio), ci si sposterà dal piano privatistico a quello pubblicistico.
Nell'ambito di un vasto piano propagandistico, improntato all'idea di restaurare i buoni costumi della res publica, Augusto nel 17-16 a.C., fece votare una legge comiziale che vietò, assumendoli nella repressione pubblica, una variegata serie di atti: l'adulterium, cioè il rapporto sessuale tra una donna coniugata e un altro uomo; lo stuprum, nella congiunzione sessuale tra un uomo e una donna di buoni costumi maritata (honesta, vidua o virgo); l'incestum, l'unione tra parenti e affini e il lenocinium, lo sfruttamento o favoreggiamento dei suddetti crimini.
Pertanto, la lex Iulia de adulteriis non si limitava a punire la violazione della fedeltà coniugale, ma aveva un intento moralizzatore ben più ampio, che affidava la speranza di ottenere risultati concreti a una profonda trasformazione dell'ottica con cui si guardava a determinati atti sessuali, per alcuni dei quali la punizione era stata affidata, per secoli, alla giurisdizione domestica. Ora essi diventavano un crimen, vale a dire un reato pubblico, giudicato da un apposito tribunale, la quaestio de adulteriis, e perseguibile su iniziativa non solo dei congiunti, ma di qualunque cittadino prendesse l'iniziativa di denunciare la donna.
Dalle fonti non emerge che vi fosse riferimento nel testo della lex Iulia de adulteriis all'ipotesi di un rapporto sessuale violento, forse perché l'atto di violenza, veniva assorbito nella sanzione dell'adulterium-stuprum (che era uguale per i due casi) e quindi risultava irrilevante; quanto alla donna non risulta mai contemplata come vittima, ma sempre come còrrea, quindi mai sottraibile, nemmeno in caso di violenza, alla sanzione.
Tuttavia, la giurisprudenza non fu insensibile, e in particolare, quella del III sec. d.C., quando la violenza iniziò ad operare come scriminante per la donna “adultera” violentata. I giuristi, infatti, fanno leva sul principio generale della lex Iulia, che richiedeva per la punibilità il riscontro della coscienza e volontà del fatto criminoso, a fronte delle quali la vis opera come elemento che escludeva la colpevolezza. Tuttavia, anche quando fosse stata affermata l'innocenza della vittima, nessuna riparazione era prevista dalla lex Iulia, poiché il bene protetto dalla legge era il matrimonio e i boni mores, non di certo il diritto soggettivo della donna.

Attenta valutazione e severa repressione

Ulteriori cambiamenti intervennero, sempre ad opera della giurisprudenza del III sec. d.C., attraverso la riflessione sul cosiddetto crimen vis, punito prima dalla lex Plautia (o Plotia) de vi, del 78 o 63 a.C., e poi dalle due leggi augustee de vi publica e de vi privata, del 19 e del 16 a.C.
Con la prima legge si sanzionavano, con l'introduzione di una apposita quaestio de vi non permanente, una serie di comportamenti ritenuti politicamente eversivi, quali le prevaricazioni contro le funzioni del senato e i magistrati, le adunate sediziose, l'occupazione abusiva di luoghi pubblici.
Le leggi augustee, poi, reprimevano tutti gli atti inconciliabili con l'autorità pubblica, che andava a coincidere con quella del princeps: abusi dei magistrati (ad es. illegittima imposizione di imposte, negazione della provocatio), intralcio alla giustizia, turbamento dei comizi, detenzione non autorizzata di armi, spoglio violento di navi e immobili, etc.
Nessuna delle due leggi de vi faceva riferimento alla violenza sessuale, in ragione dei loro obiettivi politici, tuttavia la giurisprudenza, utilizzando l'elemento della vis come elemento costitutivo del reato, elaborò una categoria che si avvicina alla concezione moderna di questo illecito: lo stuprum per vim, facendo, quindi, rientrare la repressione della violenza carnale nel crimen vis. Nelle fonti giurisprudenziali si sancisce la punibilità ex lege de vi di chi abbia sessualmente abusato di un uomo o di una donna per vim, cioè con violenza, mostrando come la lex Iulia de vi sia stata sottoposta ad una interpretazione estensiva, per farvi rientrare lo stuprum violento.
Tale inquadramento tende a consolidarsi nel dominato, in cui vediamo tutti i comportamenti sessuali diventare oggetto di attenta valutazione e severa repressione da parte della legislazione.
Diocleziano stabilisce, in una costituzione del 290, che alle donne che subiscono involontariamente uno stuprum per vim non dovrà essere vietato, nonostante l'oltraggio, di convolare a giuste nozze. È comunque ancora evidente la mancanza dell'intento di tutelare la parte lesa, ma solo quello di evitare un immeritato castigo.
In seguito, la nuova legislazione, seguita alla svolta costantiniana, indusse a giudicare con ancora maggiore severità i costumi sessuali, verificandone l'aderenza alle regole etiche della dottrina cristiana. Per fare un esempio, ricordiamo una costituzione del 326, in cui Costantino condanna a morte la donna che si congiunge con lo schiavo, indipendentemente che sia suo o meno, disponendo anche che lo schiavo sia bruciato vivo. Il tutto con un procedimento attivabile d'ufficio, da parte di chiunque, anche persone di condizione servile, a cui verrà data la libertà, in caso di accusa fondata.
Sempre su questa linea, vediamo punito con la morte il rapporto omosessuale, condannato come un sovvertimento delle leggi di Dio e della natura: la repressione è attuata, anche in questo caso, con la pena della vivicombustione.
In tema di rapporti uomo-donna, l'imperatore interviene con una punizione severa e minuziosa in materia di ratto, per cui, chi avesse rapito una donna giovane e nubile, sarebbe stato condannato a morte, senza nessuna esimente per lui, anche in caso di consenso della donna.
La vittima diventa una compartecipe del crimine, sia se il rapimento la vede consenziente (volens), e, in tal caso, le spetterà la stessa morte del rapitore; sia se la donna abbia fatto inizialmente opposizione (invita), ma poi sia divenuta accondiscendente.
Se, invece, l'intenzione della donna fosse rimasta contraria, si vedeva comunque esclusa dalla successione paterna e materna, per una sorta di “presunzione di scarsa diligenza nella difesa della propria pudicizia”6. Essa infatti avrebbe potuto evitare l'accaduto, se fosse rimasta chiusa in casa fino al giorno del matrimonio. Se, nonostante ciò, il rapitore avesse sfondato con forza la porta di casa, avrebbe sempre potuto urlare, per richiamare l'aiuto dei vicini e difendersi in tutti i modi possibili.
Anche per i complici le pene non erano leggere: si considerando tali le nutrici che abbiano istigato all'azione, raccontando fabulae e impartendo consigli cattivi, per le quali è prevista la morte attraverso il versamento di piombo fuso in gola, mentre per chi avesse materialmente collaborato al rapimento, liberi e schiavi, veniva fissata la pena della vivicombustione.
I genitori, inoltre, avevano l'obbligo di denuncia, pena la deportazione; l'accusa era pubblica, per cui chiunque poteva dare avvio al processo, ed erano previste delle premialità per i delatori (ad es. lo schiavo diventava libero). Infine, la sentenza era inappellabile.
La prassi del ratto, prevalentemente, veniva posta in essere non tanto con il fine dell'unione sessuale, quanto a scopo di matrimonio, e si diffuse a tal punto da far temere per l'ordine sociale, tanto da essere sentita come una minaccia, in particolare per l'autorità religiosa, gelosa custode della sacrosanctitas del vincolo matrimoniale.

Un lento percorso giuridico

Giustiniano non fa che proseguire sulla strada della repressione incisiva degli illeciti a sfondo sessuale, perseguiti in primo luogo come attentati contro la pubblica pudicitia, ma anche come attentati alla persona umana: ne è prova l'introduzione, nell'ipotesi del ratto, della violenza come elemento essenziale del reato, e la non punibilità della vittima.
Nel diritto medievale il ratto, lo stupro e qualsiasi altro reato sessuale consumato con violenza, rientravano nel crimen vis publicae vel privatae, cioè la violenza. La violenza cosiddetta carnale era considerata effetto secondario della violenza generale e si caratterizzava per un duplice aspetto: la coatio o suasio, che la rendeva fattispecie del crimen vis, e la violazione del valore dell'integrità fisica e morale, di cui la donna era portatrice per conto di altri. La violenza sessuale era, quindi, confinata nel delictum carnis, poiché si trattava di una tipologia di reato in cui prevaleva il valore dell'onore e metteva in secondo piano il principio dell'autonomia personale.
La violenza sessuale era concepita, prima di tutto come un'offesa all'onore, alla verginità e alla castità della donna, e un oltraggio alla famiglia, all'onore degli uomini, padri, mariti, fratelli che detenevano il potere su di essa. Non veniva considerata come una aggressione subita dalla persona e non veniva attribuita alcuna rilevanza alla sua volontà.
Successivamente, nei sistemi codicistici ottocenteschi, è possibile ritrovare ancora forte il concetto della levitas animi, infatti viene da questi rafforzato l'istituto dell'autorizzazione maritale che sancisce l'incapacità propria delle donne sposate. Inoltre, si prevede il reato di adulterio solo a carico della donna, mentre per la punizione del marito si deve avere concubinato, cioè una relazione stabile di convivenza con una donna diversa dalla moglie, e, infine, il reato di violenza “carnale” è inserito nei delitti contro il buon costume e l'ordine delle famiglie.
Con l'avvento del fascismo, che pone al centro la famiglia, considerata la prima e fondamentale cellula della società, il luogo protetto dove formare futuri cittadini e in cui vengono impartiti i primi insegnamenti, il ruolo della donna è limitato all'interno delle mura domestiche ed è, chiaramente, caratterizzato dalla assoluta sudditanza rispetto all'uomo, capofamiglia in funzione dell'interesse pubblico. Assume un particolare rilievo lo ius corrigendi del marito sulla moglie, ossia il potere di correzione che poteva essere esercitato anche in forma violenta.
In questa condizione di subalternità della donna rispetto all'uomo non fa meraviglia che la disciplina della violenza sessuale venga collocata tra le fattispecie poste a tutela della moralità pubblica e il buon costume. Come sempre non è la donna il soggetto passivo del delitto, tant'è che, proprio durante il fascismo, viene introdotta una particolare forma di omicidio preterintenzionale, l'omicidio a causa d'onore, la cui pena era estremamente ridotta rispetto all'omicidio “normale”. La ratio di questa forma attenuata era ravvisabile nel turbamento psichico dell'agente, che si caratterizzava in un particolare stato emotivo, uno stato d'ira determinato dall'offesa arrecata al suo onore o alla sua famiglia, per mezzo di un atto sessuale illegittimo con una donna ad esso legata. La vittima poteva essere non solo l'uomo che commetteva con questa l'atto sessuale, ma, ovviamente, la stessa donna coinvolta.
Nel luglio del 1943 si assistette alla caduta del regime, e, nonostante il silenzio della storia, nella battaglia diretta alla liberazione dal fascismo e dal nazismo, le donne ebbero un ruolo determinante. Tuttavia, il crollo del regime non bastò per superare i modelli culturali della sudditanza. Ci fu un lento percorso giuridico, in parte ad opera della Corte Costituzionale, diretto all'effettiva parità tra marito e moglie, e le lotte femministe portarono, negli anni '70, alla completa riforma del diritto di famiglia, alla introduzione del divorzio e dell'aborto.
Ma è proprio la questione della violenza sessuale a rappresentare la roccaforte degli stereotipi, infatti, solamente nel 1996 si modifica il codice penale fascista: i reati di violenza carnale e atti di libidine violenti sono unificati sotto l'unica espressione di violenza sessuale e tale reato è stato collocato nell'alveo dei delitti contro la persona. Il bene giuridico offeso da tali condotte non è più la morale sociale, ma la libertà di ciascuno di disporre del proprio corpo.
Nella storia, quindi, la violenza sessuale è un illecito dalla natura mutevole, in quanto strettamente collegata alla posizione della donna nella società: da un lato soggetto di diritto, ma dalla volontà instabile per via della sua innata inferiorità psico-fisica rispetto all'uomo, dall'altro fonte di lussuria, tema questo ripreso e ampliato dalla dottrina cristiana. Da una parte custode del focolare domestico, nell'ottica della centralità sociale degli istituti del matrimonio e della famiglia, verso i quali la donna ha una innata vocazione, dall'altra naturale oggetto di desiderio. Come Lucrezia, un modello di virtù, che, però, merita il castigo anche quando è violata da un uomo contro la sua volontà.

Julka Fusco

Note

  1. Tito Livio narra che Sesto Tarquinio, il figlio del re, invaghitosi di Lucrezia, donna bellissima e moglie esemplare, la violenta. La donna, dopo aver fatto chiamare dagli accampamenti militari suo marito e suo padre, ottiene da questi il giuramento di non lasciare impunito questo fatto e si da la morte, affinché: “nessuna donna romana, dopo ciò, vivrà da impudica con il mio esempio”. (Ab urbe condita, 1.58-59).
  2. Virginia, giovane donna promessa sposa, resiste ai corteggiamenti del decemviro Appio Claudio, il quale pensa bene di farla rivendicare ad un suo cliente come schiava, in modo da poter abusare di lei senza impedimenti. Nel corso di questo finto processo, interviene il padre della donna che per salvarne l'onore la uccide: “Così, figlia mia, rivendico la tua libertà, nell'unico modo a mia disposizione”. (Tito Livio, Ab urbe condita, 3. 44-48).
  3. Abbiamo notizie del culto in Tito Livio, Valerio Massimo, in una commedia di Plauto e in un componimento di Giovenale.
  4. In particolare fonti epigrafiche.
  5. I passi del Digesto a questo dedicati sono del giurista Ulpiano (D. 47.10.15.15-23; 57 ad ed.).
  6. G. Rizzelli, In has servandae integritatis custodias nulla libido inrumpet (Sen. contr. 2.7.3). Donne, passioni violenza, in Violenza sessuale e società antiche, Profilo storico-giuridici, Lecce 2003, p. 125.