Rivista Anarchica Online




Portogallo quarant'anni dopo/
Dopo l'intervento della troika, cosa è rimasto della Rivoluzione dei garofani?

“È indubbio che le trasformazioni cominciate il 25 aprile del 1974 sono state le più significative degli ultimi decenni in seno alla società portoghese, paragonabili a quelle del 5 ottobre del 1910 o del 28 maggio del 1926. Se ciò è innegabile dal punto di vista strettamente politico, oseremmo dire che, dal punto di vista dei rapporti sociali, della vita economica e della posizione del Portogallo nel contesto internazionale, il 25 aprile diede l'avvio a un processo di modifiche senza precedenti per la sua importanza e per le conseguenze che tali trasformazioni hanno avuto in seguito.” Questo scriveva la rivista libertaria portoghese A Ideia nel ventannale della rivoluzione dei garofani. Il testo fu tradotto e pubblicato proprio su queste pagine (vedasi, A Ideia, “Portogallo, venti anni dopo”, A 211, estate 1994). Non era un caso. Fin da subito A aveva dimostrato un grande interesse per quella rivoluzione. Un giovane Paolo Finzi aveva scritto due bei reportage nell'estate del 1974 dal Portogallo post-rivoluzionario con esponenti di due diverse generazioni – lo “storico” Emidio Santana e il giovane Julio F. – del movimento anarchico e libertario lusitano uscito dalla clandestinità dopo la fine del regime di Salazar e di Caetano. Li potete leggere ancora nell'archivio digitale di “A” nel numero 31 dell'estate del 1974.
Ora di anni ne sono passati quaranta. Non potevamo non tornare a Lisbona per capire che cosa rimane di quella esperienza. Anche perché nell'ultimo lustro il Portogallo, come gli altri paesi dell'Europa meridionale, ha sofferto l'applicazione di dure politiche di austerità e, come la Grecia, l'intervento diretto della troika (FMI, BCE, Commissione Europea) che, ufficialmente, si è concluso lo scorso mese di maggio. Ma si è davvero concluso? E quante macerie ha lasciato alle sue spalle?
Nel centro di Lisbona, a due passi dallo storico caffè A Brasileira e dalla statua di Fernando Pessoa, si trova la sede dell'Associazione 25 Aprile che riunisce buona parte dei capitani che cambiarono la storia del Portogallo contemporaneo. Anche quest'anno l'Associazione non ha partecipato alle celebrazioni ufficiali del 25 aprile. Una decisione che vale più di molte dichiarazioni. Abbiamo incontrato uno dei suoi maggiori responsabili, il colonnello Aprígio Ramalho, 68 anni, l'esperienza della guerra coloniale in Mozambico ancora negli occhi, le speranze di quella notte tra il 24 e il 25 aprile, in cui coordinava le operazioni del Movimento delle Forze Armate (MFA) nel centro del Portogallo, ancora nel cuore. E nelle parole. “Grazie al 25 aprile la società portoghese ha vissuto una trasformazione assolutamente radicale e totale per quanto riguarda la forma di vita, la mentalità, le prospettive e le aspettative delle persone, la loro coscienza di cittadinanza. La società portoghese di adesso non ha niente a che vedere con ciò che era prima della rivoluzione”, mi spiega Ramalho. “Nel biennio successivo al 25 aprile il Portogallo si trasformò in un vero e proprio laboratorio internazionale”. Ramalho si riferisce a quello che si chiama PREC (Processo Rivoluzionario In Corso) dove diverse visioni politiche e sociali si scontrarono. In tutta la società portoghese ed anche all'interno del MFA. António de Spínola, Otelo Saraiva de Carvalho, Vasco Lourenço, il Partito Comunista, la variegata estrema sinistra, la destra post-salazarista, l'onnipresente Chiesa cattolica, l'immancabile massoneria, il Partito Socialista di Mario Soares appoggiato e finanziato profumatamente dalla SPD tedesca... In soli due anni si tennero elezioni politiche, presidenziali, regionali e comunali e il 2 aprile del 1976 si approvò la nuova Costituzione repubblicana. “Una delle più avanzate del mondo”, come mi ricorda Ramalho, che aggiunge: “In quel biennio il Portogallo è passato da una dittatura a partito unico a una democrazia. Al di là di tutte le lotte che ci sono state, il PREC è riuscito a trasformare in realtà una delle promesse del MFA: restituire il potere al popolo portoghese, in una società democratica dove tutte le opinioni e le idee potessero esprimersi e confrontarsi”.

Lisbona (Portogallo) - Murales nel centro della città.
I politici portoghesi (al centro il presidente della Repubblica
Cavaco Silva) banchettano mentre distruggono il welfare state

“E a che punto siamo ora?”, domando a Ramalho. “Stiamo tornando indietro”, mi risponde sconsolato. “C'è stato un retrocesso evidente delle conquiste della rivoluzione del 1974. A causa del neoliberismo imperante. Con l'intervento della troika in Portogallo ci sono stati drastici tagli in tutti i settori, soprattutto nella sanità e nell'istruzione. Si sono sommate due cose estremamente negative: l'aumento della disoccupazione e la riduzione degli ammortizzatori sociali e di una buona parte dei servizi offerti alla popolazione.” Ramalho mi spiega un fenomeno che stiamo conoscendo anche in Italia e che è purtroppo già un dato di fatto in Grecia e anche in Spagna: “Sono molte le famiglie in cui nessuno ha un lavoro. È molto difficile che le persone di 40 o 50 anni che hanno perso il lavoro riescano a trovarne uno nuovo. E la disoccupazione giovanile è alle stelle. All'inizio molti giovani riuscivano a tirare avanti grazie ai risparmi e alle pensioni dei genitori. Le famiglie hanno funzionato come un cuscinetto. Ma con l'aggravarsi della crisi e con le misure criminali prese dall'attuale governo – tagli alle pensioni e alle prestazioni sociali, ecc. – questa funzione svolta dalle famiglie sta scomparendo. O è già scomparsa. Ci troviamo in una situazione drammatica. Per me è inaccettabile che nel mio paese ci siano persone che non abbiano il minimo indispensabile per vivere e per mantenere la propria famiglia. È lo Stato che ha l'obbligo di aiutare queste persone: la solidarietà è qualcosa di indispensabile.”

Lisbona (Portogallo), 25 aprile 1974 - Civili e militari durante
l'assedio al Quartier Generale della Guardia Nazionale
Repubblicana da parte dei ribelli del Movimento das Forças
Armadas (Movimento delle Forze Armate, MFA)

“Ma la costituzione approvata nel 1976 non dovrebbe essere un baluardo davanti a questa ondata neoliberista?” chiedo, forse un po' troppo ingenuamente, a Ramalho. “Senza dubbio”, mi conferma “Anche se negli anni Ottanta e Novanta ci sono stati dei cambi, i valori democratici presenti nella Costituzione sono rimasti gli stessi. E infatti i recenti tentativi del governo di riformarla o di oltrepassare i limiti in essa stabiliti hanno incontrato la dura opposizione del Tribunale Costituzionale. È evidente che per l'applicazione delle ricette neoliberiste la costituzione portoghese è un ostacolo.”

Lisbona (Portogallo) - Murales per i quarant'anni
della Rivoluzione dei garofani nella zona universitaria
della città, dedicato all'eroe del 25 aprile 1974,
Fernando José Salgueiro Maia

“I portoghesi si sentono ancora rappresentati da questa Costituzione e dai valori della Rivoluzione?”, domando ancora a Ramalho. “Assolutamente. Un esempio è la partecipazione di massa alle manifestazioni e alle iniziative organizzate per la celebrazione dei 40 anni del 25 aprile. Con l'Associazione 25 Aprile abbiamo voluto convertire questa data non solo in una commemorazione, ma anche in una giornata di lotta in difesa degli ideali e dei valori della Rivoluzione. E la popolazione ha risposto più che positivamente. È stato qualcosa di importante.”
Allora, che cosa manca oggi che c'era quarant'anni fa? “Una cosa più di tutte: etica nella politica. Un'etica di servizio pubblico, per i cittadini, per la gente.”
E voi, che siete i protagonisti e i testimoni viventi di quella Rivoluzione, che cosa potete fare? “Continuare a fare quello che abbiamo cercato di fare negli ultimi quarant'anni: cercare di far reagire le persone, far sì che reagiscano, che non si lascino vincere. Che si mobilitino e che partecipino in tutti i modi a tutte le iniziative e le azioni organizzate per difendere ciò che considerano importante per il futuro dei loro figli e per rifiutare le politiche approvate dal governo negli ultimi anni. Questo è ciò che possiamo fare. L'unica cosa possibile in democrazia. L'altra via sarebbe quella di riprendere le armi, ma ciò non è possibile. Non ci sono prospettive per pensare qualcosa del genere adesso. Non avrebbe senso. In ogni caso, noi continuiamo all'erta.”

Steven Forti



Repubblica democratica del Congo/
Storia di Dodò, made in carcere

Le ho chiesto quanti anni avesse e lei mi ha risposto “dieci”. Allora ho riformulato la domanda in un francese più corretto, e ancora mi ha risposto “dieci”. Ma io so bene che dieci sono gli anni di pena residua; tanti gliene ha comminati il giudice per il reato di omicidio preterintenzionale, quello del marito che le aveva fatto un grave torto. Bakala, dicono in lingua ki-kongo.
“Lei non conosce la sua età” – mi spiega Cirylle Luwala che mi accompagna e che le ha fatto la mia stessa domanda, ma nella sua lingua. A occhio e croce può averne non più di venti. A casa è rimasto il primo figlio di cinque anni; quello che ha in braccio ha cinque mesi, me lo ha detto il Direttore del carcere: è una bimba, Dodò, ed è nata qui. Made in carcere, come è scritto sulla grande borsa di stoffa realizzata dalla donne della prigione di Lecce, che avevo con me e che le ho subito donato perché potesse mettervi le poche preziose cose che ciascuna e ciascun detenuto si porta sempre appresso e di cui chiunque può impossessarsi, perché non ha neanche quelle: una vecchia bottiglia di plastica dove mettere l'acqua del fiume se e quando arrivano i bidoni donati da qualche “buona samaritana”, come le definisce il direttore Noè, un contenitore di alluminio per il cibo, che arriva con la stessa frequenza della manna quella volta in Galilea, un raro pezzetto di sapone; ma non tutti hanno tutto questo. Perciò lei ci ha messo dentro la sua creatura, come fosse un porte-enfant. E ora dai bordi della borsa di stoffa sporge la testolina della piccola, e soprattutto i suoi occhi che sembrano chiedere “perché?”.
Perché nascere in carcere, e perché dover trascorrere in questo inferno i primi anni della propria vita che per Dodò hanno un orizzonte decennale, e anche per la piccola Miriam che sta qui con la sua mamma. Perché la “modernità” ha creato queste brutture? Nella cultura della sua gente, se solo fosse nata cinquanta o più anni fa, non ci sarebbero state queste aberrazioni. La madre sarebbe comparsa al cospetto degli anziani del villaggio; l'indovino fabbro, Ngoombo luufu, o l'indovino con il corno d'antilope, Ngoombo nseengo, avrebbero riconosciuto la sua colpa, la famiglia del padre ucciso avrebbe chiesto un giusto risarcimento: un bue, un coppia di polli, la costruzione di una nuova capanna, conchiglie cauris, noci di cola, in misura tanto grande quanto più grave è il reato. La morte di un individuo sarebbe stata compensata con dei beni materiali che la famiglia della moglie con grandi sacrifici avrebbe messo da parte; l'aver pagato la giusta ricompensa avrebbe soddisfatto vivi e morti, perché anche agli antenati si sarebbe pagato un tributo in termini di preghiere, noci di cola e preziose conchiglie cauris. Ma, soprattutto, avrebbe permesso a chi non ha alcuna colpa, la bimba e il fratellino che è rimasto da solo al villaggio e che crescerà senza padre e senza madre, di esercitare il proprio diritto alla vita. Fra dieci anni, il fratellino primogenito avrà già quindici anni, l'età prevista per il mukanda, il rito di passaggio che sancisce l'ingresso nell'età adulta, allorquando i ragazzi lasciano la casa della madre e, dopo un breve periodo di formazione nella foresta, sono pronti per avere una famiglia propria. Ce lo spiega bene l'antropologia culturale. Ma la sociologia e le leggi dei mundele (i bianchi, come qui ci chiamano), non ci spiegano cosa di meglio abbia portato loro il cosiddetto “progresso” e la tanto sbandierata “modernità”. Perché, oggi, quella madre e quella piccola di cinque mesi marciscono in prigione (”marcire” è l'unico termine che mi riesce di trovare dopo averla visitata e avervi trascorso appena tre giorni); la perdita di un uomo non è stata risarcita con alcunché alla sua famiglia e al suo villaggio; nessuna compensazione ha avuto luogo. Oggi accade soltanto che la morte violenta di un uomo sia “compensata” con la morte lenta e non meno atroce, in carcere, di una madre e della sua bambina. Nessun antenato e nessun dio potranno dirsi soddisfatti. Solo l'inutile legge degli uomini. Dei mundele, deformazione fonetica di modèle, il modello che noi siamo, quel modello che abbiamo esportato e imposto, perché lo imitassero e vi si uniformassero, quale unico viatico verso la civiltà.

Alba Monti



Bike polo/
Caratteri libertari di uno sport emergente

Nel lontano 1891 in un paese dell'Irlanda, Richard J. Mecredy – ciclista ritirato - inventò un gioco nuovo: il cycle polo. L'intuizione fu quella di prendere il gioco del polo, e sostituire al cavallo la bicicletta. Questo sport ebbe un certo successo, e nel giro di pochi anni si diffuse in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti e fu presente come gioco dimostrativo alle Olimpiadi di Londra del 1908. Negli anni '30 il cycle polo raggiunse il suo apice di popolarità, con campionati regolari sia in Inghilterra che in Francia; tuttavia dopo la seconda guerra mondiale la popolarità di questo sport andò sempre più scemando, e soltanto in Francia – dove tuttora esiste un campionato - è riuscito a sopravvivere.
L'intuizione di Sir Mecredy è però tornata a fiorire circa un secolo dopo con la nascita di un nuovo sport: l'hardcourt bike polo (HBP), uno degli sport che ha riscosso più successo tra tutti quelli apparsi negli ultimi anni. L'HBP, nato agli inizi del nuovo millennio, si è sviluppato nell'ambiente dei cycle messengers (bici messaggeri) di Seattle che giocavano a bike polo nelle pause di lavoro, per ingannare l'attesa di nuove consegne. Dai bici-messageri di Seattle, l'HBP si è poi diffuso velocemente e oggi è presente in più di 30 paesi e oltre 300 città del mondo.
Il “court”, ovvero il campo da gioco, è la grande variante nella nuova versione del cycle polo, infatti il bike polo non viene più giocato su erba come l'antico polo, ma su asfalto, mescolando al cycle polo anche elementi propri dello street hockey (esempio: la pallina è da street hockey). A contraddistinguere l'HBP è anche il carattere fortemente urbano (e un po' underground) di questo gioco, che viene giocato adattando campi da tennis, da basket, da calcetto delle aree pubbliche urbane o a volte semplicemente delimitando un'area di circa 40mx20m all'interno di parcheggi o di altri spiazzi in asfalto. Il “mallet”, ovvero la mazza, è forse l'“anima” del bici polo e riflette l'etica DIY (Do It Yourself) di questo gioco, che tende a non dipendere da alcun lavoro specializzato. Infatti il mallet viene auto-costruito dagli stessi giocatori, partendo da una vecchia racchetta da sci in alluminio al quale viene fissato con un bullone un tramo di tubo in plastica dura. Creando così una mazza che imita il classico mallet in legno del polo, però molto più resistente (nonché a buon mercato).
Allo stesso modo le bici per il bike polo (non esistono limitazioni riguardo al tipo di bici, a parte che deve avere almeno un freno e altre precauzioni per tutelare la sicurezza degli altri giocatori) vengono in genere messe a punto dagli stessi giocatori per una prestazione ottimale in base al proprio stile di gioco, alle proprie preferenze. Spesso sono bici molto decorative (e decorate) per la particolarità delle “pologuards”, ovvero delle coperture per le ruote, la cui funzione è proteggere le ruote dai colpi, oltre ad evitare che venga messo (ma in questo caso letteralmente) il famoso bastone tra le ruote.

Europei di bike polo a Padova,
foto di Alessandro Gonfiantin

Le regole del gioco sono poche e semplici (almeno quelle basilari): si gioca 3 vs 3, per segnare un goal bisogna tirare colpendo la palla con la “testa” (parte più stretta) della mazza, ed è vietato appoggiare i piedi a terra (nel caso capitasse, si rientra nel gioco solo dopo una “penitenza” che consiste nel colpire la sponda con la mazza in corrispondenza del centrocampo). Le partite durano in genere 10 minuti (senza intervalli) o fino a che una delle due squadre raggiunge il punteggio concordato (5 goals, in genere). Per quanto nei tornei siano ormai sempre previsti arbitri di gioco (giocatori non impegnati che si prestano al ruolo di arbitro), il bici polo come sport - per la sua natura conviviale e per la sua eredità di “gentlemen sport” - si distingue (o si dovrebbe distinguere) per un grande fair play e per un'auto-regolamentazione nel caso di mancato rispetto delle regole. Gli unici contatti permessi sono spalla contro spalla e mazza contro mazza. È consigliato l'uso del casco e dei guanti, e sono permesse protezioni di qualunque tipo. Gli scontri e le cadute fanno parte del gioco e del divertimento, tuttavia non ne sono la caratteristica principale. Per quanto possa incutere timore, il bike polo è rischioso al pari di molti altri sport e non è più pericoloso di sport ritenuti piuttosto sicuri come possono essere il calcio o il ciclismo su strada.
Un elemento molto interessante del bike polo (e probabilmente è l'unico sport ad avere questa caratteristica) è che nonostante ogni anno vengano regolarmente disputati campionati del mondo e campionati continentali, non esiste un'istituzione o un organo decisionale, se non il forum www.leagueofbikepolo.com, dove la comunità “virtuale” di tutti i giocatori di bike polo discute e prende decisioni riguardo a tornei, modifiche al regolamento, e ogni altra questione che si possa presentare. Questo stesso modello viene poi adottato a scala nazionale per ogni paese (per l'Italia il riferimento è www.hardcourtitalia.it). In Nord-America questa unione virtuale si è poi evoluta in una federazione (http://www.nahardcourt.com/), e anche a livello europeo si sta discutendo su una simile evoluzione.
Altra curiosità è che anche in competizioni ufficiali a livello mondiale non esiste una rigorosa divisione per nazionalità, e possono esser amesse squadre a nazionalità mista (potrebbe essere Italia/Francia contro Francia/Germania). In ogni caso la nazionalità non viene mai enfatizzata: il prestigio e l'eventuale orgoglio per una vittoria è tutto per le squadre, che di loro natura (per i nomi fantasiosi che vengono scelti, o per lo scambio occasionale di giocatori, o per il fatto che magari la squadra viene creata in occasione del tal torneo e poi sciolta) ricordano più l'idea di una band musicale piuttosto che quella di un club calcistico.
L'elemento fondante del bike polo è sicuramente la bici, e così come è nato, si è sviluppato in ambienti di appassionati della bicicletta; è uno sport che attira amanti della bici e al tempo stesso induce all'amore per la bicicletta e promuove la cultura della bici non solo come mezzo di locomozione, ma come elemento importante della vita quotidiana (e il gioco, anche negli animali, è una parte fondamentale della vita). Da notare anche l'aspetto “rivoluzionario” per cui si potrebbe dire che almeno nel polo è stata vinta la famigerata “lotta di classe” dei “poveri” contro i “ricchi”: ecco infatti che il polo, sport da sempre riservato all'élite della “classe dominante”, diventa popolare e accessibile a chiunque nella sua variante su due ruote. Il bello del bike polo inoltre è che tutti quelli che sanno andare in bici possono giocare e magari possono anche eccellere nel gioco, senza una condizione super-atletica o senza dover far sacrifici a tavola. Soprattutto tutti possono divertirsi tanto, semplicemente cercando di colpire una pallina con una mazza; ma la pallina in fondo diventa quasi solo una scusa per girare in tondo con la bici in un cortile, come amano fare tutti i bambini appena imparano a pedalare senza perder l'equilibrio. Senza dubbio, il gioco del bike polo è un altro regalo che ci viene fatto da quella che è forse la più grande e la più bella tra tutte le invenzioni dell'umanità, dall'unica catena che libera anziché opprimere: quella della bicicletta.

Michele Salsi

I team di Bike Polo in Italia (per regione): Piemonte: Torino, Vercelli. Liguria: Genova. Lombardia: Bergamo, Milano, Mantova. Emilia-Romagna: Carpi, Modena, Parma. Veneto: Vicenza/Lonigo, Padova, Treviso/Conegliano, Venezia/Mestre. Trentino Alto Adige: Bolzano. Friuli Venezia Giulia: Pordenone. Toscana: Chianciano. Marche: Fano. Lazio: Roma. Campania: Napoli. Abruzzo: Pescara. Puglia: Taranto. Sardegna: Cagliari. Sicilia: Catania, Palermo.





Fano/
Una mostra per ricordare i meeting

Si è tenuta a Fano, presso la piccola galleria Infoshop, la mostra multimediale in occasione dei trent'anni dal primo meeting anticlericale, che si svolse come “Zona dewojtylizzata” in occasione della visita in pompa magna, con tanto di altare-palco in mezzo al mare, di GPII a Fano nell'agosto 1984.
Quindici edizioni fanesi dei meeting, divenute punto d'incontro delle realtà laiche e anticlericali italiane, che videro nel 1986 la fondazione della Associazione per lo sbattezzo, e lo sviluppo di una critica essenzialmente politica sul potere del clero, e non basata su questioni inerenti la fede, aperta quindi anche al confronto con i credenti del dissenso. Il modello radicale, incentrato sulla contestazione della forma di potere di clero e gerarchia portato avanti dal meeting certo non piacque alle intelligenze della sinistra istituzionale italiana (da ricordare la lettera snob di Rossana Rossanda del 1990, che ci dipingeva come goliardi), sempre impegnata a spartire l'egemonia sul volgo con don Camillo, mentre vide l'adesione entusiastica ed attiva di tanta gente libera e libertaria nello spirito anche se inconsapevolmente, delle tante persone che iniziarono a frequentare i meeting ogni anno facendoli diventare un appuntamento estivo fisso.
Oltre ad esporre tutti manifesti delle quindici edizioni, la mostra ha offerto una brochure contenente i materiali originali dei meeting (le Millelire anticlericali, i giornali dei meeting e quello dell'Associazione per lo sbattezzo, “Il Peccato”) unitamente alla mini-storia dei meetings edita due anni fa da A-Rivista Anarchica, ottenendo grande successo. Durante l'inaugurazione è stata presentata una lettura delle attualissime 'Preghiere capitaliste' di Paul Lafargue e dell'immancabile Oscar Panizza con la sua 'Immacolata concezione dei Papi' (ricordiamo che nel 1994 due degli organizzatori dei meeting furono condannati a un anno per vilipendio al Papa sulla base di una inoffensiva vignetta di Vauro).
Sempre durante le tre giornate i visitatori hanno anche potuto visionare le clip video dei servizi giornalistici della Rai. Tutto il materiale video dei meeting è visibile sul canale Youtube dell'Archivio Biblioteca Enrico Travaglini, assieme al quale Alternativa libertaria-FdCA ha curato la mostra.

Marina Padovese, Fabio Santin e Francesca Palazzi Arduini
(“Dada”) a un meeting anticlericale di oltre 16 anni fa

Un ringraziamento va quindi a Luigi Balsamini curatore dell'Archivio e soprattutto a Francesca Palazzi Arduini per aver costruito questo appuntamento, che ha generato anche un divertente qui pro quo: credendo che si trattasse di una nuova edizione del meeting anticlericale, pare che alcuni “benpensanti” fanesi abbiano allertato la popolazione e le forze dell'ordine contro eventuali “disordini”, provvedendo alla diffamazione ancor prima di aver ben capito di cosa si trattasse. Il lupo perde il pelo...

Alternativa libertaria - Federazione dei Comunisti Anarchici
Fano




Gran Bretagna/
Un convegno internazionale sull'anarchismo

Cosa fanno 91 anarchici a Loughborough, cittadina di sessantamila abitanti nel cuore dell'Inghilterra? Niente paura, nessuna rivoluzione rischia di turbare il sonno dei sudditi di sua maestà la regina: i 91 anarchici in questione sono accademici!
E così mi sono trovato dal 3 al 5 settembre con altri 90 tra professori, ricercatori e dottorandi nel verdissimo e sportivissimo campus dell'università di Loughborough (ah, nel caso ve lo stesse chiedendo, il nome della città si legge 'Làffbra') per la terza conferenza internazionale dell'Anarchist Studies Network (ASN). L'ASN è un gruppo con sede nel Regno Unito specializzato nel coordinamento e nella promozione dello studio dell'anarchismo come ideologia e pratica politica (http://anarchist-studies-network.org.uk).
Appena saputo della conferenza, era ancora febbraio, mi sono precipitato a prenotare un posto per questo evento che ha luogo ogni due anni. Ben prima che il programma ufficiale fosse divulgato. Ok, lo ammetto, forse l'entusiasmo è stato eccessivo, ma la causa risiede probabilmente nella situazione tragicomica in cui vivo da quando ho iniziato il mio dottorato in storia presso l'Università di Londra. L'argomento che ho scelto riguarda le comunità anarchiche (comuni, centri sociali e squat) post-1945 in Italia e Inghilterra, e le due reazioni più comuni quando un collega mi chiede l'oggetto della mia ricerca sono: 1) “Anarchici?! Ma non sarà pericoloso?” e 2) “Comunità anarchiche? Ma gli anarchici mica vivono in gruppo!”. Ecco, per questo motivo non stavo nella pelle all'idea di incontrare e discutere con altre persone che l'anarchismo lo studiano.
Il programma è stato modificato diverse volte, ma la versione finale prometteva bene: sette pagine con i nomi dei delegati ed il titolo dei loro interventi. Già da nomi e università di provenienza era chiaro che l'internazionalità sarebbe stata garantita: c'erano delegati provenienti da Canada, Stati Uniti, Messico, Norvegia, Danimarca, Germania, Irlanda, Francia, Italia (ma nessuno da università italiane), Spagna, Grecia, Romania, Portogallo, Turchia, Russia e persino Australia, oltre ovviamente al Regno Unito. Certo, l'assenza di ricercatori sudamericani, asiatici e africani è lampante. Ma questo potrebbe significare che lì l'anarchismo non è molto studiato. Oppure che le università di quelle aree non sono disposte a rimborsare i costi di un viaggio intercontinentale.
Ciò che però mi ha colpito una volta lì è stato notare la vasta maggioranza dei presenti era di sesso maschile. E non sono stato l'unico, visto che una compagna nella sessione conclusiva ha chiesto una maggiore attenzione da parte degli organizzatori per assicurare una più alta partecipazione femminile. Siccome mi rifiuto di pensare ad un caso di discriminazione sessista durante il processo selettivo da parte degli organizzatori, mi chiedo se sia davvero giusto garantire dei posti su base sessuale (o di genere, o di etnia, eccetera) piuttosto che di merito. Non sarebbe piuttosto il caso di chiedersi perché arrivino meno richieste di partecipazione da parte delle donne?
Una piacevole sorpresa, invece, è stata l'età dei partecipanti. Già temevo la solita passerella di polverosi professoroni con la testa piena di citazioni di Bakunin e Kropotkin. Invece c'era una grossa componente di studiosi venti-trentenni, il che – a mio parere – testimonia un ritrovato interesse nello studio della teoria e della pratica dell'anarchismo, specialmente nei settori filosofico e delle scienze sociali. Purtroppo però la bassa età anagrafica media non mi ha risparmiato da quella brutta malattia del mondo accademico che è il “citazionismo compulsivo”.
Gli interventi erano raggruppati in quattordici macro-categorie: Anarchismo e storia delle idee; Anarchismo e religione; Anarchismo e Critical Management Studies; Herbert Read, arte e anarchismo; Geografie anarchiche; Teoria anarchica dello stato; Anarchia del corpo; Teoria politica; Anarchia nel Mediterraneo orientale; Anarchismi postbellici francesi; Culture della resistenza e DIY; Gustav Landauer; Anarchismo e Liberazione animale non-umana; Organizzazione anarchica di Montreal. Ogni macro-categoria aveva una o più sessioni e ogni sessione durava due ore e mezza con in genere due o tre interventi più tempo per domande e risposte con il “pubblico”. Ahimè, ogni sessione si svolgeva in contemporanea con almeno altre due, cosa che ci obbligava tutti a compiere delle scelte difficili. Ad esempio, per la terza sessione ho seguito la parte sulle geografie anarchiche, soprattutto per la presenza di un intervento sugli eco-villaggi canadesi che poteva fornire consigli utili alla parte metodologica della mia ricerca, preferendola alla sessione sulla Teoria anarchica dello stato con i pur interessanti interventi “Ascesa e caduta dello stato secondo Kropotkin”, “Associazione egoistica al posto della coercizione statale” e “Stato e violenza”.

Day one

Il primo giorno abbiamo iniziato nel pomeriggio, dopo la registrazione e il pranzo vegano preparato dalla cooperativa Veggies, che tra l'altro quest'anno festeggia i suoi 30 anni di attività. Per prima cosa ho seguito l'intervento di Costas Galanopoulos “Un mondo di federazioni: l'incompatibilità di anarchismo e individualismo”, in cui Costas analizza il punto di vista anarchico sulla natura umana secondo cui ogni individuo sarebbe in realtà il risultato di una costante mediazione tra diversi elementi, tanto da essere di per sé “un mondo di federazioni” (Kropotkin), e che non ci sarebbe alcuna tensione tra individuo e società essendo anzi l'Uomo un animale sociale.
Il secondo intervento era invece “Anarchismo, ordine sociale e paura di una 'città proletaria': Lisbona nei primi decenni del ventesimo secolo” di Diogo Duarte. Questo contributo fa luce sulla poco conosciuta diffusione dell'anarchismo tra le classi lavoratrici delle grandi città portoghesi, specialmente Lisbona e Oporto, che in quel periodo di industrializzazione vedevano la loro popolazione aumentare senza controllo. Sotto questa nuova luce i piani di nuova edilizia popolare avrebbero avuto dunque un secondo fine, oltre a quello di aumentare sicurezza e igiene, ovvero un maggiore controllo politico. Ciononostante, i quartieri popolari riuscirono ad organizzarsi secondo i modelli anarchici resi famosi dal più conosciuto caso di Barcellona.
Dopo la pausa ho deciso di seguire la sessione su Anarchismo e Critical Management Studies, disciplina che adotta un punto di vista critico nei confronti delle teorie sulla gestione e organizzazione del lavoro. Questa volta gli interventi erano tre. Christopher Paskewich ha presentato il suo “Essere robot migliori: cosa possiamo imparare dalla rappresentazione dei Millennial nei management studies”. Christopher ha quindi parlato di come negli Stati Uniti i manager di oggi vengano formati in modo da gestire nel miglior modo la Millennial generation (grosso modo i nati tra anni Ottanta e Duemila) che portano nel mondo del lavoro la sfrontatezza, l'aver coscienza dei propri diritti e la pericolosa idea del 'lavorare per vivere' in opposizione alla logica del 'vivere per lavorare' dei loro padri. Per questo i manager sono spediti a frequentare corsi di formazione per imparare tecniche (come valorizzare i dipendenti con elogi e tenerli costantemente impegnati con una varietà di attività) che li aiutino ad aggirare i possibili scontri sul posto di lavoro.
“Creatività ontologica sul posto di lavoro. Dove appartiene l'Io nell'economia globale?” è stato invece l'intervento di PJ Holtum. PJ ha investigato come le tecnologie globali e le strategie di management stiano modificando l'idea che i lavoratori hanno di se stessi e quanto la crescente esposizione dei lavoratori all'economia politica globale stia influenzando le relazioni interpersonali e sociali.
Maria Daskalaki e George Kokkinidis, infine, hanno parlato di “Reti di solidarietà e infrastrutture di autonomia” portando alcuni esempi greci come Diktuosi, una rete di collettivi ateniesi di lavoratori creatasi dal basso e caratterizzata dall'assenza di leader, che ha l'obiettivo dichiarato di creare un mercato autosufficiente all'interno della (ma indipendente dalla) economia di mercato. Questo e altri esperimenti, secondo Maria e George, uniscono la critica anticapitalista alla messa in pratica di pratiche organizzative innovative che incarnano nuove relazioni sociali, politiche ed economiche.
La giornata si è conclusa con la proiezione del film “To Hell with culture” di Huw Wahl sulla vita e il lavoro di Herbert Read, noto poeta, critico d'arte e anarchico, seguita dal dibattito col regista e il figlio di Read, Benedict. Il film prende il nome dal titolo del suo saggio del 1943 in cui Read auspicava l'avvento di una società basata sulla cooperazione e in cui l'arte non fosse più considerata un bene accessorio ma una parte integrante della vita quotidiana. Nel film il regista ha usato vecchi filmati di Read e nuove interviste a storici e artisti per scoprire se e come sia possibile realizzare tale società. Ma avendo già visto la première qualche mese prima a Londra, con tanto di dibattito, ne ho approfittato per un giro di esplorazione per le strade della ridente Loughborough che – come ogni città inglese che si rispetti – diventa una città fantasma dopo le sei di pomeriggio.

Day two

Giovedì quattro settembre ho iniziato con la prima parte di Geografie anarchiche e gli interventi di Federico Ferretti dell'università di Ginevra, Richard J White (Sheffield Hallam, Regno Unito) e Gabrielle Lemarier-Saulnier (Québec, Canada). Federico ha presentato il suo “Anarchia e geografia: stessa origine? L'esperienza di Elisée Reclus e la rete dei geografi anarchici in Svizzera (1872-1889)” che indaga le radici dello storico rapporto esistente tra anarchismo e geografia. In particolare, la presentazione si è concentrata sulla figura del geografo e anarchico francese Reclus che, rifugiatosi in Svizzera dopo la sua partecipazione alla Comune di Parigi del 1871, redige il suo enciclopedico 'Nuova geografia universale' (19 volumi e circa 18mila pagine) e contribuisce a fondare la Fédération Jurassienne con i colleghi e compagni Kropotkin, Menikoc, Perron, Lefrançais, Dragomanov e altri.
Richard ha invece preso in considerazione i “Modi per sfruttare al meglio l'auto-aiuto nella comunità”. Partendo dall'affermazione di Chomsky sulla necessità di costruire le alternative all'interno dell'economia esistente, Richard ha poi presentato i risultati delle sue ricerche che dimostrano come già adesso una parte dei bisogni quotidiani venga soddisfatta ricorrendo a reti informali (ad esempio, favori tra amici o parenti o vicini). Solo una piccola percentuale di questi, però, avviene senza poi “sdebitarsi” ricorrendo in maniera più o meno diretta all'economia di mercato. Inoltre dalle interviste è emerso che spesso si preferisce ricorrere direttamente al mercato per evitare di sentirsi un peso o un caso da beneficenza. Come superare questi ostacoli? Un esempio è rappresentato dalle banche del tempo che confermerebbero il pensiero di Ward secondo cui “le alternative [per costruire una società libera] sono già presenti negli interstizi delle strutture del potere dominante”.
Il terzo contributo è stato fornito da Gabrielle con il suo “Quando lo sviluppo del territorio è guidato da principi anarchici: il caso degli ecovillaggi nelle aree rurali (Gaspésie, Québec)”. Le zone rurali del Québec prese in considerazione sono caratterizzate da un'elevata età media, un basso livello di istruzione e scarse risorse economiche. Qui si sono moltiplicati gli ecovillaggi con uno stile di vita anarchico che, secondo Gabrielle, hanno arricchito e valorizzato il territorio circostante stabilendo rapporti orizzontali basati sulla solidarietà. Così gli ecovillaggi hanno portato in quelle aree un'organizzazione sociale alternativa attraverso la creazione di nuovi spazi pubblici, la promozione dell'auto-organizzazione e di un'idea diversa di proprietà.
Dopo una breve pausa ho scelto di seguire una nuova sessione di “Anarchismo e Critical Management Studies”, questa volta ha iniziato Leandros Savvides che ha parlato dell'esperienza della cooperativa agricola cipriota Onisia nel suo “Capitalismo sociale? Una critica all'autogestione nel sistema capitalistico mondiale”. Tale cooperativa, fondata da ex combattenti antifascisti e antifranchisti nel 1948, non ha mai ottenuto l'appoggio della popolazione pur avendo partecipato all'innovazione tecnologica del settore agricolo cipriota con l'introduzione, ad esempio, del primo trattore nel paese. Infatti fino al 1974, quando la zona in cui sorgeva la coop venne occupata militarmente dalla Turchia causando la fine dell'esperimento, gli abitanti del posto diffidavano della 'piccola Mosca' che aveva semplicemente sostituito la proprietà privata con quella collettiva. Leandros ha quindi rilanciato un dibattito attualmente molto sentito in Grecia, dove ci si chiede se lasciare imprese capitalistiche nelle mani dei lavoratori non li trasformi in imprenditori con il conseguente indebolimento di una possibile alternativa.
In seguito è intervenuta Grietje Baars con “Fare solidarietà tra stile di vita e liberazione: il caso degli israeliani Anarchici Contro il Muro” che tratta il problema che può nascere quando un particolare stile di vita, ad esempio il veganismo, rischia di ostacolare le lotte di liberazione. Il caso scelto da Grietje è quello del collettivo anarco-vegano Anarchici Contro il Muro, contrario all'occupazione israeliana della Palestina, i cui attivisti si son trovati più volte a disagio quando entravano in contatto con le comunità palestinesi in cui il mangiare carne è strettamente legato all'idea tradizionale di mascolinità. Di qui il problema: cosa fare quando si è ospiti in un villaggio palestinese e il cibo offerto non è vegano? Spiegare il proprio veganismo ai palestinesi rischiando di essere percepiti come l'ennesimo imperialista occidentale con la vocazione del civilizzatore o tradire i principi della liberazione antispecista preferendo l'animale umano a quelli non-umani?
Per restare in tema, si è pranzato con cibo vegano, e nessun uomo presente ha accusato gli organizzatori di lesa mascolinità. Dopo sono andato da Gerónimo Barrera de la Torre e Anthony Ince che coordinavano “Scienze sociali post-statiste: laboratorio di teoria e pratica”. Qui si è discusso sulle sfide che gli accademici del settore delle scienze sociali si trovano ad affrontare e sulle possibili soluzioni. In particolare ci si è concentrati sul ruolo di lingua, teoria e metodologia. Per quanto riguarda la lingua, si è notato come spesso si usino termini credendoli neutri quando invece perpetuano categorie del pensiero dominante. Poi il dibattito su teoria e metodologia ha portato ad una riflessione sulla distanza che esiste tra accademia e “mondo reale” con il rischio concreto che lo studioso di anarchismo si rinchiuda nella sua torre d'avorio e resti isolato dalle esigenze del movimento anarchico. Per superare questo possibile problema si è pensato a blog o siti internet in cui i ricercatori possano pubblicare i loro studi o anche seminari pubblici gratuiti in modo da raggiungere un pubblico più vasto dei soli addetti ai lavori.
La giornata si è poi conclusa con la sessione di Teoria politica. Qui John Clark ha parlato brevemente del suo libro “The impossible community” che analizza alcuni esempi di comunità in cui coesistono liberazione e solidarietà, e il cui pieno sviluppo garantirà la nascita di un mondo nuovo senza capitalismo, stato, patriarcato e altre forme di dominazione. Queste comunità vanno oltre la prefigurazione della società futura: la “figurano” vivendola. Tuttavia è essenziale che queste esperienze di organizzazione sociale si coordinino secondo il modello della libera federazione affinché la comunità impossibile diventi possibile.
L'ultimo intervento della giornata è stato di Roy Krøvel a proposito dei “Punti di vista anarchici sui movimenti indigeni”, in cui esamina la tendenza dei movimenti di solidarietà nell'Europa del Nord ad interpretare le lotte di classe, le gerarchie sociali e la resistenza latinoamericana usando chiavi di lettura estranee a quel mondo. Sin dai tempi di Emiliano Zapata e Pancho Villa, passando per Ernesto Che Guevara e il subcomandante Marcos, i rivoluzionari centro- e sud-americani hanno attratto l'interesse e influenzato l'immaginario dei nordeuropei. Dalla metà degli anni Ottanta, invece, la fonte di ispirazione sono diventati i movimenti indigeni che si ribellano alla segregazione e all'oppressione, ma Roy – pur ammettendo che gli europei possono imparare molto da certi esperimenti sociali come quello zapatista – ricorda che il pericolo di romanzare e idealizzare è reale ed è in agguato.
Stavolta niente film per concludere la giornata, bensì una serata in un tradizionalissimo pub inglese con microfono e chitarra a disposizione di tutti. E così, mentre alcuni si spogliavano delle loro vesti da accademici per diventare i nuovi Johnny Rotten o Pietro Gori, altri si perdevano in chiacchiere. E altri ancora nell'alcol.

Day three

Ultimo giorno a Loughborough. La prima sessione l'ho dedicata ad approfondire la mia conoscenza dell'anarchismo antispecista. Will Boisseau ha aperto le danze con “L'anarchismo e l'animale non-umano” che torna sull'argomento dell'eventuale collaborazione tra movimenti antispecisti e altri movimenti per la giustizia sociale. Will teme però in questo caso che militanti di questi ultimi possano risentirsi per quello che potrebbero percepire come atteggiamento di superiorità da parte di vegetariani o vegani, oppure che possano prendere le distanze dalle frange più oltranziste e violente del movimento di liberazione animale. Per concludere Will si è concentrato sul caso dei lavoratori sfruttati in quei settori dell'industria che maltrattano o uccidono animali. Dal punto di vista del “liberazionismo animale” anarchico sono da considerarsi lavoratori che hanno bisogno di solidarietà o carnefici alla pari dei nazisti che lavoravano nelle camere a gas?
Dopo questo inquietante quesito, James Donaghey ci ha portato in un viaggio nel mondo dei “Diritti animali e punk”, durante il quale ha illustrato lo stretto rapporto che esiste tra anarchismo, punk e diritti animali e ci ha fatto ascoltare alcune canzoni emblematiche come “This is the ALF” dei Conflict o “Nailing Descartes to the wall” dei Propagandhi. Ma sono numerose le canzoni punk che trattano il tema dei diritti degli animali, così come quello dell'anarchia, e la loro importanza è stata confermata da diverse interviste che rivelano come nella scena punk le canzoni abbiano spesso maggior peso sulla scelta di diventare anarchici e/o vegani rispetto ai classici della letteratura anarchica.
Dopo il break c'è stata l'ultima sessione della conferenza e io ho scelto quella su Gustav Landauer. Ancora una volta John Clark è stato il primo a parlare, questa volta approfondendo il rapporto tra “Landauer, Reclus e l'anarchismo comunitario”. John ha prima introdotto la figura di Reclus ancora poco studiato a causa della grossa mole dei suoi lavori: geografo, comunista-anarchico, ecologista, attivista per i diritti degli animali, urbanista, contrario ad ogni foma di dominazione e teorizzatore del mutuo appoggio prima di Kropotkin. Reclus difatti elabora un'idea di società basata sui principi del mutuo appoggio e della solidarietà. Ma mentre lui sottostima il potere trasformativo di cooperative e comunità intenzionali, Landauer (anch'esso poco conosciuto, ma perché poco tradotto in inglese) corregge questo punto debole dimostrando l'importanza della pratica di solidarietà comunitaria nel processo di trasformazione e liberazione sociale. Entrambi invece concordano sull'idea di federazione definendo la società libera una “comunità di comunità” fondata su nuovi rapporti orizzontali che si sostituiranno gradualmente alle relazioni di dominazione esistenti. E la società trionferà sullo stato.
Per concludere la conferenza Dominique Miething ha esposto la sua “Lettura di Friedrich Nietzsche da parte di Gustav Landauer” che punta a dimostrare come la rilettura di Nietzsche in campo anarchico risalga a ben prima del post-anarchismo. Secondo Dominique, che ha avuto accesso ai numerosi articoli di Landauer su Der Sozialist, Landauer usa le idee del filosofo come strumento per criticare il potente apparato burocratico del partito socialdemocratico tedesco e per sovvertire i loro dogmi ideologici. Ma Landauer scrive anche un romanzo nietzschiano e fonde diverse sue idee con l'anarchismo, pur mantenendo le distanze da aspetti problematici come anti-umanismo e elitismo.

ASN International Conference 2016

Dopo l'ultimo pranzo vegano ci siamo riuniti all'aperto (approfittando dell'inspiegabile assenza di pioggia) per il feedback finale sulla conferenza. Così, seduti nel classico cerchio che tutti livella, ci si è giustamente congratulati con gli organizzatori e ci sono stati alcuni suggerimenti per il futuro, come una maggiore presenza sui social network tipo Twitter o Facebook. Qualcuno invece, dato l'altissimo numero di partecipanti non-anglofoni, si è spinto fino a chiedere delle sessioni da tenere in una lingua straniera. Si è dunque riflettuto su quale lingua scegliere (sorprendentemente è stata bocciata l'ipotesi esperanto) e soprattutto sull'utilità di attuare questa proposta, visto che il numero massimo di parlanti di una stessa lingua oltre l'inglese non superava le sei persone. Tra le richieste più pragmatiche c'è stato invece l'utilizzo di un font più grande e leggibile per i nomi sulle targhette, nonostante la critica di qualcuno all'idea stessa di usare targhette con nome e affiliazione che a quanto pare fa poco anarchico.
Tutto sommato è stata un'esperienza molto positiva, sia per la qualità della ricerca e dei dibattiti (certo, un maggior uso di Power Point o altre tecnologie da parte dei relatori aiuterebbe a restare svegli durante alcune presentazioni) sia per la ricchezza degli scambi durante le pause o le bevute di birra serali. Così è terminata la terza conferenza dell'Anarchist Studies Network e ci si è dati appuntamento alla quarta, nel 2016. In poche ore Loughborough ha visto ripartire i 91 accademici anarchici accorsi da (quasi) tutto il mondo non per fare la rivoluzione, ma semplicemente il punto della situazione sull'anarchismo. D'altra parte, come ha detto provocatoriamente una compagna olandese mentre ci si lamentava per il caldo in un'aula con le finestre bloccate: “E ora vediamo di quanti accademici anarchici c'è bisogno per rompere una finestra”. Le finestre sono rimaste chiuse, e integre. Però abbiamo aperto la porta.

Luca Lapolla



Sardegna/
Contro le servitù militari

Acque trasparenti in tutte le sfumature d'azzurro e di verde, spiagge bianche, baie e fondali mozzafiato. Nei porti e negli aeroporti i tabelloni pubblicitari ammiccano ai turisti che arrivano a frotte: “In Sardegna lo spettacolo è a sud ovest: benvenuti nel Sulcis-Iglesiente”; “Autunno in Barbagia: 28 paesi nel cuore della Sardegna raccontano la loro storia”; “In Sardegna il benessere inizia a tavola”. Resort di lusso presi d'assalto dai soliti noti e dai nuovi ricchi e case vista mare frutto di una cementificazione scellerata affittate spesso in nero. Ci si confonde senza imbarazzo: i vip sui loro yacht ancorati a cento metri da riva e le famigliole a consumare il loro pranzo al sacco sotto gli ombrelloni. C'è posto per tutti nell'isola che i greci e i fenici chiamavano Ichnusa, descrivendola di ritorno dalle loro traversate come un grande piede verde in mezzo al mare. Il rovescio della medaglia, parecchio inquietante, neanche si vede. Si chiamano servitù militari, territori sottratti al bene comune e destinati all'esercito: poligoni dove sperimentare nuovi armamenti, territori per esercitazioni di cielo, di terra e di mare. In tutto circa 35 mila ettari che danno alla Sardegna il triste primato di ospitare sul suo suolo all'incirca il 70 per cento di tutte le servitù militari italiane. I dati sono pubblici, reperibili anche sul sito della Regione Sardegna, un elenco dettagliato di tutti i beni del demanio militare con tanto di carte e foto. Nell'estate sarda, fra feste popolari e party esclusivi, tra sagre di paese e happy hour, può capitare che i due mondi s'incontrino. Sulla spiaggia di Cala Zafferano ad esempio, dalle parti di Capo Teulada, dove i vacanzieri hanno trovato tra le dune un buon numero di ordigni abbandonati dopo le esercitazioni. La zona per la verità sarebbe interdetta, ma i turisti aggirano i divieti approdando con i loro gommoni: vuoi mettere il brivido di un selfie con una bomba magari inesplosa? Sempre quest'estate, precisamente il 4 settembre, nel poligono di Capo Frasca – 14 km quadrati sulla costa occidentale, territorio comunale di Arbus, Medio Campidano – le esercitazioni hanno provocato un incendio che ha distrutto in un momento 32 ettari di macchia mediterranea. Il sindaco di Arbus ha parlato di danni incalcolabili; la Regione Sardegna, per bocca del suo presidente Francesco Pigliaru, ha protestato invocando un confronto con il governo; l'esercito ha minimizzato parlando di evento eccezionale; il ministero della Difesa ha promesso un'inchiesta e nuovi paletti.
Capo Frasca è un poligono interforze Nato utilizzato per esercitazioni terra-mare-aria, strettamente collegato con l'aeroporto Nato di Decimomannu, a tutt'oggi la base aerea militare più attiva in Europa. È il terzo poligono in ordine di grandezza presente sull'isola, dopo quelli di Quirra-Perdasdefogu (12.700 ettari) e di Teulada (7.200 ettari), che sono i più grandi d'Italia. Per comprendere la reale dimensione della questione servitù militari in Sardegna, consiglio l'illuminante lettura di un numero di Birdi ke porru (letteralmente Verde come il porro), rivista antiautoritaria scaricabile dalla rete (è sufficiente digitare il nome in un qualsiasi motore di ricerca). Una ventina di pagine che documentano con rigore le dosi superiori ai limiti di legge di sostanze altamente inquinanti come l'antimonio, l'arsenico, il cadmio, il torio e il cerio nei territori limitrofi ai poligoni; che ricostruiscono il dramma di Quirra, con i soldati e i pastori morti per tumore causato dall'uranio impoverito; l'alta percentuale di bambini nati con malformazioni; gli agnellini con due teste; gli strascichi giudiziari, le connivenze, le coperture, i tentativi d'insabbiamento messi in atto per negare l'evidenza. Se poi qualcuno non ritiene sufficiente la parola scritta, suggerisco la visione di un video su Youtube (http://www.youtube.com/watch?v=1jkMGYw92-I). Dura tre minuti, è la prova di lancio del razzo Zefiro effettuata a Quirra nel 2006. Si tratta di un razzo alto 7 metri e mezzo, due metri di diametro, realizzato dall'Agenzia Spaziale Europea: serve a portare in cielo i satelliti.
Di tutto ciò ogni tanto qualcuno si indigna. Sabato 13 settembre davanti al poligono di Capo Frasca c'è stata una manifestazione indetta inizialmente da vari gruppi indipendentisti che ha visto la partecipazione di svariate migliaia di persone (cinquemila secondo la questura, più del doppio secondo alcuni manifestanti) pronte a dire no, da subito, a tutte le servitù. C'è stata la solita passerella di politici di vario colore, ha cavalcato la protesta persino l'Unione Sarda, il potentissimo quotidiano dell'isola, che ha venduto a un euro in più insieme al giornale, una bandiera blu con la scritta bianca no servitù. Un gruppo ha sfondato la recinzione, è entrato all'interno della base ed è rimasto lì per alcune ore. Sono lontani i tempi delle marce della pace con la partecipazione di Julian Beck del Living Theatre e sono lontani anche i tempi della rivolta di Pratobello, sopra Orgosolo, nel 1969, quando gli abitanti affrontarono a brutto muso i militari intenzionati a trasformare in poligono i loro pascoli, finendo poi per vincere senza un atto di violenza la battaglia e fraternizzando con i soldati. Oggi i militari sventolano la minaccia dell'occupazione: che ne sarà delle ricadute sull'indotto se si smantelleranno i poligoni? E poi non si può, sono ritenuti strategici: occorre pure un luogo dove addestrare i nostri ragazzi che vanno in giro per il mondo ad esportare democrazia. E sperimentare armi, perché c'è una cosa che non bisognerebbe mai smettere di dire: l'Italia è da tempo tra i primi produttori al mondo di ogni genere d'armamenti. È una nostra eccellenza, siamo bravissimi. Lo sappiano i disoccupati d'oggi: il settore assume.

Massimo Lunardelli