Rivista Anarchica Online


pena capitale

L'ultimo pasto
dei condannati a morte

di Luigi Botta / foto Henry Hargreaves


Un fotografo neozelandese, che ha scelto il cibo come suo focus, realizza 12 scatti ricostruendo quel che hanno chiesto di mangiare altrettanti detenuti prima di essere uccisi. Li presenta alla Biennale di Venezia 2013. Lo storico Luigi Botta introduce il suo lavoro e lo intervista.


In memoria di Vincenzina Vanzetti
nel ventennale della sua morte

Johnny Ray Conner, 32 anni, un nero convertito all'Islam dietro le sbarre, chiede al guardiano del penitenziario di Huntsville, Texas, il permesso di poter parlare più a lungo rispetto ai consueti due minuti che vengono assegnati ai condannati a morte per le loro ultime dichiarazioni. Deve finire i suoi giorni di lì a un nonnulla, infilzato da una flebo che coi suoi tre veleni lo manda al creatore in pochi istanti.
Gli concedono tre minuti. Uno in più del solito. Ha dinnanzi a sé, dietro la vetrata che divide la camera della morte dalla cella di osservazione che ospita i testimoni, Marie, figlia di Kathy Ann Ngyuen, la commessa di un supermercato di Houston uccisa il 17 maggio 1998 nel corso di una banale rapina andata a male. La donna aveva 49 anni. Johnny, a quell'epoca, era giovane. Aveva 23 anni. I giudici del tribunale giudicante, di quella rapina, hanno ritenuto di dover accusare lui. Così pure dell'omicidio della donna.
Si era trattato di un colpo solitario, compiuto probabilmente per un «drink», in parte forse già sorseggiato lungo le corsie del supermercato e poi posato sul bancone della cassa. Con la confezione aperta. Kathy Ann, che non è una sprovveduta e bada alla sua vita, attende i clienti dietro un vetro antiproiettile. Una piccola apertura serve a far transitare i prodotti e ad effettuare il pagamento. È da quella apertura che improvvisamente spunta un revolver calibro 32. Kathy Ann neppure lo vede, perché nel medesimo momento entra Julian Gutierrez, un avventore che intende pagare la benzina che ha prelevato dalle pompe poste sul piazzale esterno. Ha le banconote in mano. Varcata la soglia sente intimare, non sa se a lui o alla cassiera, «Dammi tutti i tuoi soldi». L'arma da fuoco gli viene puntata contro. Molla il denaro e fugge. Parte un colpo che gli trapassa il petto e il braccio. Altri due colpi subito dopo raggiungono Kathy Ann al capo. Il malvivente, passato l'impeto omicida, scappa. Senza raccoglier nulla. La polizia interviene e trova sul pavimento i soldi e il succo di frutta in bottiglietta. Sulla confezione vengono rilevate due impronte. Una appartiene a Conner. Nulla di strano. Perché in quel supermercato, lui, Johnny, ci va comunemente. L'altra ad altro, non identificato. L'impronta di Conner è ritenuta sufficiente. Così il ventitreenne viene incastrato. I testimoni non sono risolutivi. Hanno sentito gli spari e solo visto un giovane fuggire. Di colore. Corsa veloce. Camicia bianca. Chi col cappello e chi senza. Le certezze sono poche. Eppure lui, Johnny Ray Conner, seppure continui a dichiararsi innocente e in molti -non soltanto la difesa- sostengano la sua tesi, è condannato. A morte.

La figura del pittore rinascimentale italiano Arcimboldo
elaborata per il New York Times sovrapponendo e
affiancando bonbon, caramelle, biscotti, croissant,
frutta candita e pasticceria colorata

Il 22 agosto 2007, in pieno pomeriggio, Johnny è disteso sul lettino. Il sole alto in cielo non fa filtrare i suoi raggi nei locali seminterrati, privi di finestre. Davanti a lui il boia. Tutt'intorno sopravvive la ritualità della pena capitale. Conner ha il suo solito sguardo triste, quello di natura, da bambino un po' invecchiato, con gli occhi che si perdono nel vuoto. Al fianco di Marie c'è Katherine Le, sorella di Johnny; poco distanti sono i mariti delle due donne, che osservano in modo un po' più defilato quel che succede. Conner chiede loro di indicare la figlia della vittima, in modo da potervi fare conoscenza. Non l'ha mai vista prima. Le chiede di guardarlo: «Io voglio che tu mi capisca -dice- non voglio che tu abbia alcuna animosità contro di me». E continua: «Io non sono arrabbiato con te. Anche se non mi conosci, ti amo. Chiedo al tuo cuore di perdonarmi». Marie annuisce con la testa. Fissa il muro e non guarda Conner, anche se lui più volte cerca il suo sguardo.
«Quello che mi sta accadendo è ingiusto -continua Johnny-, il sistema è rotto». Lo dice da non colpevole destinato a finire i suoi giorni nei prossimi minuti. Tuttavia chiede ai suoi parenti di perdonarlo e di accettare la sua esecuzione. «Non volevo farvi del male -sostiene infine con la voce rotta-. Continuate a vivere la vostra vita e non siate arrabbiati per ciò che mi sta accadendo. Questo è il destino. Questa è la vita. Questa è la cosa che devo fare. Allah mi vuole a casa». Parla poco meno di tre minuti e sembra aver concluso la sua dichiarazione. Il sodio pentotal, il primo dei tre veleni, comincia a entrare in circolo. Poi Johnny si riprende per un attimo, sottovoce: «Io ti amo e ...» perde conoscenza. Le due donne, entrambe vittime innocenti, unite nel dolore, piangono. Il cloruro pancuronium gli paralizza i muscoli per evitare contorcimenti sgradevoli alla vista. Il bromuro di potassio gli ferma il cuore. Otto minuti dopo è già passato oltre. Viene dichiarato morto alle 18,20. Finisce in orario. Rispetta i tempi della legge, oltreché i modi. È un condannato a morte che non ha fatto capricci, come molti altri che si sono dimenati, o peggio, ed hanno reso impossibile l'opera del boia. Su Huntsville c'è una cappa di calore che non ha eguali negli ultimi cinquant'anni. Ci sono più di 105 gradi Fahrenheit. I bambini si spruzzano addosso l'acqua delle pompe.
Il medico, nel suo rito di sempre che mostra tutta la noia del mestiere, stila il referto; l'impresa di pompe funebri concorda a parte il funerale coi parenti. La giustizia ha fatto il suo corso. Sei giorni dopo, sempre lì, è il turno di Daroyce Mosley, sette giorni dopo di John Amador ed otto giorni dopo di Kenneth Foster, accusato, quest'ultimo, di aver ospitato in auto un individuo prossimo a commettere un omicidio. Sì, sì, solo ospitato. Viene mandato sulla sedia elettrica, agli effetti pratici della giustizia texana, perché «non poteva non sapere».

Torta ritratto glassata di Mao Zedong

Grandissima capacità di scelta culinaria

Quella di Johnny Ray Conner, non colpevole e dichiaratosi innocente (c'è anche una richiesta di revisione del processo da parte di un giudice federale, richiesta che non fa il suo corso), è la quattrocentesima esecuzione dalla reintroduzione della pena capitale in Texas nel 1982. L'Unione Europea nell'occasione invita il governatore Rick Perry a cessare la pratica delle esecuzioni. Perry risponde attraverso un portavoce che l'Unione Europea dovrebbe farsi gli affari propri.
Johnny è morto, a poche ore di distanza -la differenza di fuso orario le avvicina ancor di più-, esattamente ottant'anni dopo Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Una brutta storia che continua.
Johnny Ray Conner ha ottenuto quel minuto in più di «confessione» perché ha rinunciato all'ultimo pasto. Ha scelto di affidarsi alle mani del boia a stomaco vuoto, con la coscienza a posto, ed anche salva, grazie alle poche parole che ha avuto il coraggio di confidare, in extremis, alla figlia di quella donna che lui, secondo i giudici, avrebbe ucciso. Un pasto che è un rituale che la tradizione impone. Che diventa ancor più significativo se non c'è. Sì, perché a rifiutarlo sono solitamente coloro che non accettano il verdetto di colpevolezza, che sostengono la loro innocenza e che negano al carcere quel ruolo di espiazione che gli è assegnato dalla giustizia. Il rifiuto del cibo, il rifiuto dell'invito a consumare l'ultimo pasto, diventa l'occasione per mandare a quel paese un sistema che non è stato capace -nello spirito di colui che si ritiene ingiustamente condannato a morte- di dare o restituire giustizia. L'accettazione, invece, provocatoria quanto si vuole o emblematica, in relazione alla tipologia del cibo ed alle quantità richieste, rappresenta una consapevole ritualità di ammissione di colpa che passa attraverso il compromesso che lega in un unico grande amplesso il detenuto-condannato con il carcere, i carcerieri ed il sistema che ha generato la condanna, il boia con tutti insieme. Con la pena estrema che diventa l'espiazione totale e definitiva della colpa. Pasto compreso.
Dove non esiste, o non esiste più, la pena di morte, come in Italia, la questione si offre come occasione di dibattito a distanza, ma negli Usa, dove ben ventisette Stati la praticano più o meno comunemente (e gli Usa non sono che uno dei 76 Stati al mondo che considerano la pena capitale come una soluzione di giustizia; contro 120 nei quali è stata abolita) ed i movimenti pro e contro sono diffusi su tutto il territorio con un frenetico attivismo, la questione riveste tutta la sua importanza. Oggi il web è lo specchio del conflitto che anima il dibattito. Ma non solo. Ogni cosa che riguarda i condannati a morte viene studiata, analizzata, fatto oggetto di ricerche universitarie, rapporti e segnalazioni di fondazioni e di «society» di studi, confrontata, trasformata in dibattito e codificata con statistiche e pubblicazioni. Anche l'ultimo pasto. Il Dipartimento di Giustizia Centrale del Texas, ad esempio, predispone un'«enciclopedia» della morte, con indagini, percentuali e dati di varia «umanità» relativi a 243 giustiziati (secondo i dati aggiornati sino al 2001). Che, a quanto pare, hanno preteso di avvicinarsi agli ultimi istanti di vita dando sfoggio di una grandissima capacità -che probabilmente è anche segno di autoironica compassione o di rivalsa da far conoscere all'esterno- di scelta culinaria. Il 23 per cento ha consumato gli hamburger o i cheeseburger, il 14,8 per cento la carne sotto forma di bistecca, il 15,6 per cento il gelato nei suoi diversi gusti, il 13,1 per cento l'insalata e l'8,2 per cento il latte. Mentre il 5,35 per cento si è accontentato del caffè, il 2,8 per cento ha deciso di porre fine ai suoi giorni divorandosi la pizza. Alcuni avrebbero voluto privilegiare un bicchiere di vino, una gomma da masticare o un pacchetto di sigarette -anche se non commestibile-, ma la direzione del carcere non li ha assecondati perché prodotti non previsti dai regolamenti.
Il pasto mancato, di Johnny Ray Conner (sono comunque percentualmente numerosi coloro che scelgono di non ingerire cibo), o quello esagerato, di Lawrence Russel Brewer, che ha chiesto di tutto e ancora un po' (in conseguenza al quale il Texas ha iniziato ad imporre l'annullamento per tutti dell'ultimo pasto costringendo il condannato a cibarsi del menu di giornata previsto per tutto il braccio della morte), appartengono ad una casistica che va oltre la quotidianità e rientra nell'occorrenza particolare, per cui la loro eccezionalità è oggetto di approfondita attenzione e di puntuale divulgazione. Ma l'ultimo pasto non è solo circostanza di indagine psicologica, sociologica od antropologica, ma diventa anche oggetto di esplorazione da parte di chi nel cibo e col cibo -e nel rapporto che il cibo ha col mondo, ad ogni latitudine ed in ogni condizione- ragiona con funzione ampia, scegliendo di interpretarne il senso anche in modo non convenzionale.

Opera della serie Deep Fried Gadget

Chi è Henry Hargreaves

Henry Hargreaves è un giovane fotografo che ama sperimentare tecniche e soggetti facendo della provocazione uno strumento di dibattito e di coinvolgimento collettivo. Si mette e rimette in gioco ogni volta che affronta una nuova situazione. Lui ha guardato ampiamente all'ultimo pasto dei condannati a morte, e lo ha fatto adoperando tecnica e stile, passione e contaminazione, esponendosi in prima persona e sviluppando, attraverso un mezzo di comunicazione come la fotografia che rapidamente si diffonde nel mondo della tecnologia, la sintesi di un tema che fa impressione, che fa ribrezzo, che non anima certo -sollecitandone la fantasia- il mercato dell'arte e l'animosità dei collezionisti che si rincorrono sull'avanguardia del momento. Henry ha iniziato a ricostruire alcune ultime cene e a fotografarle, utilizzando gli stessi mezzi e gli stessi principi della pubblicità, alla stregua di prodotti di consumo o di beni da propagandare attraverso gli spot televisivi o le pagine patinate dei «magazine» in edicola. Lo ha fatto in modo asettico, distaccato, quasi estraneo al soggetto dell'immagine -che invece è sofferta e costruita- proponendo sé stesso come interlocutore neutrale di una storia che trae la propria origine in un atto che una sentenza di giudizio ritiene criminale e che si conclude poco dopo il consumo del pasto stesso. Trasforma in elemento di storia l'immagine del cibo, quello «ultimo», destinandola a sostenere un ruolo che, superata la «pietas» del racconto estremo, assurge quasi a rappresentare un momento di scelta culinaria. Riscrive, criticamente e provocatoriamente, la storia del cibo della cella della morte.

Opera della serie Deep Fried Gadget

Progetti che fanno discutere

La storia di Henry Hargreaves, nonostante affronti temi scottanti e si collochi in un quadro di sfida e di profanazione ad ogni formula consolidata ch'egli affronta, è una storia di successo. Nasce e cresce a Christchurch, una città con poca tradizione (ha più o meno un secolo e mezzo di vita) che è la più grande dell'isola del Sud della Nuova Zelanda. È il ragazzo perfetto per fare l'indossatore: lavora come modello per le più prestigiose case di moda di tutto il mondo e condivide con fotografi del calibro di Stephen Meisel, Mario Testino e Richard Avedon un successo che sembra destinato a durare nel tempo. Da soggetto passivo, con grande puntualità e passione, sceglie di diventare attivo: molla l'immagine di bel ragazzo da copertina, impugna la macchina fotografica e raggiunge New York. Inizia a lavorare anch'egli per la moda, con clienti di grande importanza e progetti divertenti, creativi, trasformisti e memorabili che lo pongono immediatamente in buona luce. Le sue scelte sono un successo.
Quasi tutti i suoi progetti fanno discutere. Il suo studio diventa un cantiere di lavoro nel quale l'elaborazione dei soggetti e del materiale rappresenta l'elemento propulsore delle storie da raccontare e lo scatto fotografico altro non è che la codifica di un momento di grande e provocatorio dibattito epocale d'indirizzo antropologico. Precorre i tempi, individua gli obiettivi ed indica alla gente le storie cui prestare attenzione. Fa, in contemporanea, ciò che il mercato ama e odia. Non è il merito dell'ambivalenza ma quello della cinica provocazione.
La serie degli «Shattered» richiama la sventura dei vetri e degli specchi rotti; quella delle «Hard Copy» la schietta rassegnazione dell'immagine umana traslata in astrattismo e geometria cromatica; quella delle «Mask» l'annullamento dei ritratti e la loro sostituzione con ninnoli e bigiotteria. Scimmiotta l'artista Damien Hirst sostituendo i suoi «punti» colorati con miriadi di ben note pastigliette «m&m's» di cioccolato ricoperte di glassa vivacissima, affiancate le une alle altre; con la serie «Who Done It?» inserisce le più autorevoli boccette di profumo in contesti di foto segnaletiche; con «Toasted Icons» propone in grandissimo formato i ritratti di personaggi noti (Jim Morrison, i Beatles, Che Guevara, Marilyn Monroe, la regina Elisabetta d'Inghilterra) realizzati accostando le fette biscottate bruciacchiate. Con le «Subway Series» ricostruisce gli schemi delle metropolitane di tutto il mondo realizzandoli con gli spaghetti colorati, con i gomitoli di lana, con le cannucce variopinte, le perline e gli «m&m's» (sempre loro!), messi in fila; ricostruisce i «QR code» accostando migliaia di cellulari di ogni tipo, tagliuzzati, sagomati, smontati e trasformati in qualcos'altro. Poi comincia a dedicarsi al cibo. Fa ritratti con il ketchup (o checiap!), colora le frittelle, trasforma il burro in elemento grafico, realizza la tabella dell'oculista con ritagli vegetali, ricostruisce i dipinti di Mark Rothko con il riso colorato, trasforma in alimenti i gadget elettronici, gli ipod e i computer portatili, scrive con la pastasciutta, inventa il suo alfabeto con il «bacon», fa i ritratti ai presidenti americani con la gelatina colorata, elabora per il New York Times la figura del pittore rinascimentale italiano Arcimboldo sovrapponendo ed affiancando bonbon, caramelle, biscotti, croissant, frutta candita e pasticceria colorata. Poi dà fuoco alle calorie dei dolci, trasforma le torte in segnaletica e cartellonistica, dipinge con le uova dal contenuto colorato che si schiantano su piani rigorosamente scuri, riproduce le pubblicità liberty con il caffè macinato, scrive con i «Fruit Loops» policromi, ricostruisce la mappa del mondo utilizzando i prodotti alimentari autoctoni nazionali, congela i pomodori, riproduce e glassa i ritratti dei dittatori più importanti in crema e pan di Spagna (e li distrugge o li fa distruggere). Si avvale, in questa sua opera, della collaborazione di Caitlin Levin, Amirah Kassem, Jessica Walsh, Sarit Melmed, Lorenzo Fanton, Sarah Guido e Nicole Heffron.
Un elenco di opere, quello poc'anzi riferito, all'apparenza banale ma fortemente riduttivo delle numerose operazioni che Hargreaves sperimenta, incessantemente, in poco tempo, con una grandissima ed invidiabile capacità inventiva. Fotografie che propone, nel corso degli ultimi due anni, in mostre personali -che stanno tra l'istallazione e l'happening- cui è invitato soprattutto negli Usa ed in Germania.

Luigi Botta


Gli ultimi pasti dei condannati a morte

La scelta di riproporre in chiave baroccheggiante il camerino culinario di molte autorità mondiali di Broodway e non soltanto (secondo le pretese di contratto che impongono la disponibilità, prima e dopo il concerto o lo spettacolo, di ogni genere di prodotti alimentari di consumo, dai dolci alla frutta, dalle bevande ai liquori, dai tabacchi alla -anche se non alimentare- siringa per il «buco», ecc.) apre nuovi spazi alla ricerca di Henry Hargreaves. Che ha ormai dimenticato il suo ruolo di modello alla moda per calarsi fino in fondo in una parte che forse non è simile a quella che Keith Haring, Jean-Michel Basquiat e Bansky assumono nel mondo del graffitismo e della street art, ma che comunque è soggetta ad essere contaminata e messa in discussione di continuo ad una velocità che proprio non raggiunge quella della luce, ma quasi.
Hargreaves produce a più non posso.
Ed è appunto in questo contesto che nasce la serie dei «No Seconds», gli ultimi pasti dei condannati a morte. La sua ricerca è a 360 gradi. Indaga il cibo, più che i soggetti, si interessa alla casistica particolare, più che ai reati, non gli interessano i casi singoli -anche se ne rimane coinvolto- ma si propone di fatto una denuncia generale che nasce dal tema dell'«ultima cena» e tocca l'argomento delle condanne a morte.
Monta i set, uno dietro l'altro, ricostruisce le tavole imbandite restituendo il menu prima richiesto e poi servito, interpreta, come meglio può e crede, piatti, posate, cibo, bicchieri e guarniture. Come uno still life di un grande artista. Scatta sulla zenitale, in modo distaccato e rigorosamente impersonale. Accompagna ogni immagine con la descrizione dattiloscritta dell'individuo condannato e del cibo da lui richiesto prima di morire. Un po' di biografia spicciola, per l'osservatore disattento. La prima serie è composta da nove personaggi.

Ronnie Lee Gardner, dello Utah, finisce i suoi giorni a 49 anni per
furto, rapimento e omicidio di due persone.
Viene ucciso da un plotone di esecuzione il 18 giugno 2010.
Consuma il suo ultimo pasto (aragosta, bistecca, torta di mele e
gelato alla vaniglia) assistendo alla proiezione della trilogia
de «Il signore degli anelli».

Victor Feguer, è accusato di rapimento e omicidio. Viene ucciso
con un'iniezione letale il 15 marzo 1963. È l'ultimo condannato a morte
nello Iowa. Ha 28 anni.
Il suo pasto finale è formato da una singola oliva con il nocciolo..

Allen Lee «Tiny» Davis, ha 54 anni quando l'8 luglio 1999 finisce
sulla sedia elettrica in Florida (è l'ultimo condannato ucciso con
questo metodo). È accusato dell'omicidio di tre persone.
La sua richiesta per l'ultimo pasto: code di aragosta, patate fritte,
gamberi fritti, vongole fritte e pane all'aglio..

Ted Bundy, ha accuse molto pesanti: violenza sessuale, necrofilia,
fuga dal carcere e omicidio di 30-35 giovani donne.
Viene ucciso in Florida sulla sedia elettrica il 24 gennaio 1989 all'età
di 43 anni. Si rifiuta di consumare l'ultimo pasto e mangia uova,
bistecca, pane imburrato, latte e succo di frutta, probabilmente il pasto
destinato a tutti i detenuti.

Angel Nieves Diaz, 55 anni, è accusato di omicidio, sequestro e rapina
a mano armata. Finisce i suoi giorni in Florida, dopo 34 minuti d'agonia,
il 13 dicembre 2006, con un'iniezione letale.
Rifiuta l'ultimo pasto e rifiuta anche la cena servita dall'istituto
penitenziario.

John Wayne Gacy, chiamato «Killer Clown» (perché in carcere dipinge
quadri di clown), ha 52 anni quando viene ucciso con un'iniezione letale
il 10 maggio 1994. Nell'Illinois. È accusato di pesantissimi reati: violenza
sessuale e omicidio di 33 persone.
Chiede di consumare l'ultimo pasto: pollo fritto in gran quantità, patatine
fritte e fragole. Prima di essere accusato di omicidio Gacy aveva
gestito tre ristoranti «Kentucky Fried Chicken», dove si mangia
esclusivamente pollo.
Le sue ultime parole: «Kiss my ass!» (Baciatemi il culo!).

Stephen Anderson, finisce i suoi giorni a 49 anni, in California,
prigione di San Quentin. È accusato di furto, aggressione, fuga
dal carcere e omicidio di sette persone (tra le quali anche
un detenuto). Consuma come ultimo pasto due panini al
formaggio, un piatto di formaggio cottage, ravanello e mais,
torta alle pesche e gelato al cioccolato.

Ricky Ray Ractor, 42 anni, dell'Arkansas, è accusato di duplice
omicidio. Muore per iniezione letale il 24 gennaio 1992. Sceglie di
mangiare una bistecca con patatine fritte, una torta di noci e succo di
ciliegia. Non conclude il pasto: lascia la torta dicendo di conservarla
per il dopo (ciò conferma i suoi problemi di salute mentale emersi prima,
durante e dopo il processo).

Timothy James McVeigh, viene ucciso a 33 anni. È dell'Indiana.
È il responsabile del più sanguinoso atto terroristico statunitense prima
dell'11 settembre 2001: l'attentato di Oklahoma City, nel quale perdono
la vita 168 persone. Finisce i suoi giorni l'11 giugno 2001 per iniezione
letale. Il suo ultimo pasto consiste in una ciotola di gelato alla menta
con pezzettini di cioccolato.

Timothy James McVeigh, viene ucciso a 33 anni. È dell'Indiana.
È il responsabile del più sanguinoso atto terroristico statunitense prima
dell'11 settembre 2001: l'attentato di Oklahoma City, nel quale perdono
la vita 168 persone. Finisce i suoi giorni l'11 giugno 2001 per iniezione
letale. Il suo ultimo pasto consiste in una ciotola di gelato alla menta
con pezzettini di cioccolato.

Quando nei primi mesi del 2013 Henry Hargreaves viene invitato a Venezia ad esporre le sue opere presso l'isola di San Servolo nella stagione della Biennale prossima a venire, gli si chiede di ampliare il numero delle fotografie appartenenti alla serie «No Seconds». Ne prevede ulteriori tre: Teresa Wilson Bean Lewis, Ronnie Paul Threadgill, Nicola Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti.
Teresa Wilson Bean Lewis, ha 41 anni quando viene uccisa con
iniezione letale presso il Greensville Correctional Center di Jarrat in
Virginia il 23 settembre 2010. È la prima donna ad essere giustiziata
dal 1912 in Virginia, anche la prima con iniezione letale. Si dichiara
innocente ma è considerata la mandante dell'omicidio del marito e
del figlio. Sul suo caso si innescano numerose polemiche.
Consuma l'ultimo pasto: pollo fritto, piselli al burro, torta di mele
e «Dr Pepper».

Ronnie Paul Threadgill, viene giustiziato a 40 anni, il 16 aprile 2013,
nel carcere di Huntsville, Texas, accusato di furto d'auto e di omicidio.
Subisce un'iniezione letale. Prima di morire dice: «Vado in un posto
migliore» e mostra la sua dentiera d'oro ad una donna presente
all'esecuzione. Gli viene rifiutato l'ultimo pasto e si ciba del menu
comune ai detenuti: pollo al forno, purè di patate con sugo tradizionale,
verdure, piselli dolci, pane, tè, acqua, punch.

Di Nicola Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti, i due anarchici
italiani uccisi nel carcere di Charlestown, Boston, Massachusetts, con
la sedia elettrica, si conosce ampiamente la vicenda.
Il loro ultimo pasto è molto modesto: zuppa, arrosto, toast e tè (non si
conosce se si tratti di un menu richiesto oppure del medesimo
destinato a tutti i detenuti).

Sette domande a Henry Hargreaves

Ad Henry Hargreaves -che oltre ad essere geniale è anche persona gentile e generosa- poniamo alcune domande relative alla serie «No Seconds», presentata lo scorso anno presso il «Museo della follia» sull'isola di San Servolo a Venezia (in una rassegna dal titolo «No seconds, Comfort food e fotografia» curata da Chiara Casarin su progetto di Mauro Zardetto).

Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto ad indagare gli ultimi pasti dei condannati a morte?
Trovo che il cibo sia un potente connettore tra le genti. Non si può sapere niente dei condannati o essere in grado di relazionarsi in alcun modo con loro, ma quando si sente parlare di qualcosa che ne è rivelatore, come le richieste degli ultimi pasti, loro assumono in qualche modo una dimensione umana nella mente di chi è interessato.

Con quale criterio hai scelto i soggetti da interpretare, ricostruendo la loro mensa dell'addio alla vita?
Ho scelto casi ben noti; strane richieste di pasti, qualcuno che era disabile, una donna, Sacco e Vanzetti perché erano innocenti, e un uomo la cui ultima richiesta di pasto gli è stata negata perché il Texas aveva modificato la legge e lui ha consumato lo stesso cibo degli altri detenuti presenti quella sera nel braccio della morte.

Dove hai rinvenuto le notizie relative agli ultimi pasti dei condannati?
Si tratta di informazioni pubbliche; vi è anche una pagina di Wikipedia che riguarda l'argomento.

Tu pensi che le scelte compiute dai condannati a morte -sempre relative all'ultimo pasto- rispondano esclusivamente al dettato personale oppure risentano, in qualche modo, di fattori esterni che ne hanno condizionato il passato?
Penso che ci siano entrambi gli elementi, che in molti casi riflettano il background sociale dei condannati, e talvolta l'aspetto biografico e personale, come per John Wayne Gacy. In altri casi si tratta di pura golosità, come per Timothy McVeigh, in quanto la scelta non è conseguenza di nulla e si tratta forse di un recupero dell'immaginario infantile. In entrambi i casi c'è tanto spazio per l'interpretazione, e ciò è l'essenza che io sento, che rende interessante l'argomento.

Raccontaci la scelta fotografica che tu hai fatto: essenzialità e scatto zenitale nell'immagine; sintesi e austerità nella descrizione dei soggetti e delle pene.
Volevo che i piatti fossero mostrati così come li potevano osservare i condannati un momento prima di impugnare le posate per mangiare. Siccome non esiste una foto reale di un ultimo pasto, io ero in grado di immaginarli serviti su piatti di carta o di porcellana, pensare all'orgoglio del cuoco nel suo lavoro, ecc.

Quali risultati -artistici e socio-politici- ha ottenuto la tua ricerca?
Mi piace raccontare con il mio lavoro una storia; penso che l'arte debba sostenere uno specchio di fronte allo spettatore e debba essere lo spettatore a decidere come interpretarlo.

La scelta degli ultimi pasti dei condannati a morte ti impegna anche personalmente pro o contro la pena di morte stessa?
Personalmente sono contro la pena di morte, ma non sono un sostenitore della causa. Sento che la maggior parte delle persone negli Stati Uniti ignora l'argomento, così come non ha alcuna personale connessione con il prigioniero, sono solo statistiche. Non sto condannando il crimine, ma sono convinto che la sponsorizzazione delle esecuzioni da parte dello Stato rappresenti una consuetudine barbara. Voglio soltanto essere lo spettatore desideroso di comprendere il fenomeno, come una persona reale, e le conseguenze di questa pratica.

(intervista realizzata con la collaborazione di Charline Besnier).

Il fotografo neozelandese Henry Hargreaves

L'immagine definitiva

Per chiudere, alcune annotazioni dal sapore autobiografico che si impongono in relazione alla fotografia dell'ultima cena di Sacco e Vanzetti, realizzata in stretta connessione tra il fotografo neozelandese e chi scrive. È nella primavera del 2012 che i mass media americani si interessano -seppur genericamente in quanto nulla di ufficiale è ancora comparso sul mercato e l'autore ha buona parte del suo percorso artistico ancora da compiere- dell'iniziativa di Henry Hargreaves di proporre al grande pubblico una serie di immagini fotografiche sul tema dell'ultimo pasto dei condannati a morte. A luglio appare la notizia che il giovane artista è prossimo a presentare tale ciclo, che viene denominato «No Seconds», presso la «Herter Art Gallery» dell'University of Massachusetts, in Amherst. Non si conosce quali siano i condannati, quali i pasti e quali i criteri di individuazione. Chi scrive pensa bene di interpellare il fotografo per sapere se, tra gli altri, compaiano anche Sacco e Vanzetti, due personaggi che proprio nel Massachusetts hanno vissuto il loro destino di morte. La mostra presso l'«Amherst College» potrebbe essere l'ennesima occasione per far meditare lo Stato americano su questa storia mai dimenticata.
Il 26 luglio parte una mail in direzione di New York, che spiega queste cose. La risposta di Henry non si fa attendere molto. Dopo poco più di sei ore (senza tener conto del fuso orario) fa sapere che il ciclo è momentaneamente chiuso. Chi scrive non demorde. Pertanto la corrispondenza non finisce lì. Nella successiva mail il fotografo viene informato del cibo che Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti consumarono nell'ultima cena (non si sa bene se su specifica richiesta oppure predisposto per tutti i detenuti), «soup, beef, toast and tea», che fu servito presso il carcere di Charlestown, Boston, appena «Rose» Sacco e Luigina Vanzetti si allontanarono dopo l'estrema visita ai loro familiari. L'informazione è ripresa dal newspaper «Dallas Morning News» del 23 agosto 1927, che la trasmette anche ad altri giornali quotidiani internazionali. Hargreaves riceve in contemporanea anche numerose informazioni circa la storia e le date della vicenda dei due anarchici italiani. Ritiene la notizia «very interesting and different from the others». La cosa, così come riletta, gli interessa. Cercherà di realizzarla. Ma il tempo stringe. La mostra in Amherst, la prima in assoluto del fotografo, si tiene senza lo sperato resoconto su Sacco e Vanzetti.
Bisogna dare tempo al tempo. Il 5 marzo 2013 è lo stesso Hargreaves a farsi vivo. «Gli è stato chiesto -così scrive- di ampliare il suo lavoro per presentarlo alla Biennale di Venezia». È probabilmente l'occasione giusta. La corrispondenza si infittisce e le informazioni, numerosissime, relative agli ultimi istanti di vita di Nicola e Bartolomeo, vanno avanti e indietro rapidamente tra l'Italia e New York. Henry vuol sapere molte cose e si interroga sulla qualità e sulle caratteristiche dell'ultima mensa dei due italiani. Lavora sul progetto e si confronta. Il 2 maggio 2013 arriva il primo scatto, per le eventuali revisioni. Il giorno stesso, e quello successivo, le mail si moltiplicano ed il materiale, di giorno ed anche di notte, va avanti e indietro con gli aggiustamenti. Il 5 maggio compare nella posta elettronica l'immagine definitiva.
È quella che Henry Hargreaves presenta a Venezia (la mostra si apre il 7 settembre all'isola di San Servolo), e che, dopo Venezia, ha già portato in giro per il mondo insieme alle altre undici della serie «No Seconds»

Luigi Botta