Rivista Anarchica Online


migranti

Cartoline da Guantanamo

di Lele Odiardo / foto Alex Astegiano e Andrea Fenoglio


Ai margini della benestante Saluzzo (Cuneo) vi è una tendopoli che gli stessi migranti - che ci vivono - hanno chiamato come l'enclave statunitense a Cuba. Un vero e proprio villaggio, di cui ci occupiamo in queste pagine.


Nel 2013 erano oltre 600, accampati abusivamente al Foro Boario nella tendopoli che gli stessi migranti hanno chiamato Guantanamo, non tanto per il tristemente noto campo di prigionia quanto per una canzone ivoriana di grande successo che parla di come puoi trovarti per errore o per sfortuna in una condizione di privazione della libertà.
Un vero e proprio villaggio, un pezzo d'Africa ai margini della benestante Saluzzo: con il barbiere, il tabaccaio, il meccanico, le piazze per chiacchierare e giocare a dama e carte. Luogo dove approdano i nuovi arrivati, da cui si parte per cercare un lavoro o per andare al lavoro, luogo dove anche i migranti ospiti nelle strutture di accoglienza trascorrono il tempo libero. Luogo senza acqua, corrente elettrica, servizi igienici.

In un microcosmo brulicante convivono ragazzi e uomini provenienti dal Mali, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Senegal, Guinea, Ghana, Gambia, Niger; la lingua più diffusa è il bambarà, quasi tutti sono di religione musulmana. Molti gli osservanti: la preghiera collettiva guidata da un imam e quella individuale sul proprio cartone mentre intorno si continua a parlare di lavoro, di permessi di soggiorno, di situazioni difficili nei paesi d'origine. Chili e chili di riso e pollo cucinati su gas collettivi o fornelli da campeggio ma anche su fuochi che bruciano 24 ore al giorno alimentati da legna recuperata in giro, marmitte annerite e lavate sommariamente vista la notevole lontananza dell'unica fontana disponibile. I bancali che cominciano a scarseggiare e sono preziosi per sollevare dal terreno materassi e cartoni dove dormire. Aleggia sul campo un odore di fumo, spezie e immondizia esposta per troppo tempo al sole.

Qualche tenda da campeggio, i teloni blu che da maggio ospitano i primi arrivati ma soprattutto tante capanne costruite da mani esperte con pali in legno, cartoni alle pareti, teli di plastica come rivestimento esterno, corde sapientemente tese. Arredate all'interno con tappeti donati da qualcuno o prelevati dalla vicina discarica comunale, quotidianamente violata per recuperare i “rifiuti solidi urbani” e gli “ingombranti” dismessi dai saluzzesi attenti al mutare dei gusti e delle mode e poco avvezzi al riciclo creativo: un attaccapanni adattato a tavolo, un passeggino diventa sedia quasi ergonomica per chi gioca a dama, una specchiera con cornice demodé serve al barbiere, poi ancora un televisore senza il tubo catodico e pensili da cucina trasformati in preziose dispense, poltrone sfondate e materassi, un vecchio tavolino da campeggio senza una gamba diventa postazione per il computer.

Mustafà intreccia brandelli di fili dei freni delle biciclette per realizzare piccoli, eleganti bracieri per fare il thè o il caffè, smonta e rimonta biciclette, accoglie tutti con una battuta spiritosa che a volte stona con lo squallore del contesto ma restituisce a chi sta intorno un mozzicone di vita e di speranza. Perché è chiaro che non ci sarà lavoro per tutti, a Guantanamo tutti possono trovare qualcosa da mangiare o un riparo per dormire, ma il lavoro è un'altra faccenda, ognuno per sé. Al massimo se il padrone ha bisogno di qualcuno in più ti dice di chiamare un amico per qualche giorno.
Guantanamo n'est pas bon! E gli ultimi arrivati si guardano intorno sconsolati e delusi: “Che schifo” dice Amadou in italiano corretto, un fisico da Bronzo di Riace, appena lasciato a casa da un pastificio del bresciano dove ha lavorato per anni, contratto di affitto scaduto a fine giugno. “Torno da mia madre ad Avigliana” dice Kirk mentre gioca a calcetto, ha 17 anni e ormai il tipico accento torinese, è venuto a Saluzzo per cercare un lavoro durante le vacanze di scuola, come fanno molti suoi coetanei italiani per prendere la patente o pagarsi le vacanze al mare con gli amici. Ibrahim fa parte della colonia maliana, avrà quarant'anni, ha trascorso l'inverno a Roma ed è il secondo anno che viene a Saluzzo, il padrone dell'anno scorso lo ha chiamato ma non ha un posto per lui: “Non posso restare qui, spero di trovare una sistemazione migliore”. Solo qualcuno ci riesce.

Intanto al mattino partono le biciclette dirette nei campi del circondario, uno dei distretti agricoli più importanti d'Italia...

Giornalisti e soprattutto fotografi non sono bene accetti, ormai le immagini possono fare il giro del mondo in breve tempo e arrivano anche sui computers in Africa. “Se scrivi - Saluzzo migranti – su You Tube tutti possono vedere le condizioni in cui viviamo qui. È meglio che le nostre famiglie non lo sappiano” dicono in molti.

E allora l'idea di Andrea Fenoglio di catturare con il suo iPhone alcune immagini di Guantanamo ormai deserta, abbandonata alle soglie dell'inverno; quando solo qualche disperato vaga ancora alla ricerca di qualcosa da recuperare, grossi ratti si aggirano tra cumuli di scarpe e ciarpame vario, le ruspe hanno fretta di spazzare via le macerie dell'ennesima emergenza, le rovine di un piano accoglienza fallimentare. Ruote di biciclette e computers, pezzi d'arredamento, giacigli luridi, avanzi di cibo e pentole che neanche i nostri cani, gli oggetti più inconsueti e inutili come il King Kong di plastica lasciato a guardia dell'ingresso di una capanna prima di andare via. I resti di una condizione niente affatto voluta, accettata senza rassegnazione, la rabbia trattenuta dalla paura di vedersi negare un pezzo di carta con una data di scadenza ben evidente.
Cartoline ingiallite a tristi come quelle che ancora si possono vedere nei negozi di souvenirs di alcune località turistiche, che nessuno ha mai spedito e rimarranno sugli espositori ad intralciare il cammino dei passanti.

Poi ci sono i volti fieri e sorridenti, gli sguardi intensi delle foto salvate sugli immancabili telefonini o postati sulla pagina facebook, corpi in posa, magari decorati con una cornice o un disegnino facile da applicare per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con le funzioni del cellulare.
Gli atteggiamenti da “super macho”, l'ostentazione dei marchi di abbigliamento più alla moda, le imitazioni delle stelle nere del cinema o della musica, da mostrare orgogliosi e ironici su se stessi e sulla propria vita quotidiana spesso difficile. Oppure le foto rassicuranti, a casa, in Africa, scattate prima della partenza, insieme alle famiglie, le fidanzate, gli amici, conservate nella memoria di un freddo apparecchio elettronico ma che scaldano i pensieri e il cuore.

E allora l'idea di raccontare con l'obiettivo elegante di Alex Astegiano alcune esperienze ricorrenti vissute dai migranti che stanno cercando una difficoltosa integrazione sul territorio, ritratti luminosi in contesti che ancora vogliono brillare nonostante le ombre della crisi. Non certo per mistificare la realtà ma per riflettere sui desideri e sulla condizione dei migranti che poi è lo specchio della società in cui viviamo: precari e sfruttati, prigionieri di un sistema di relazioni economiche all'interno del quale spesso anche una qualità di vita inaccettabile viene considerata normale e imposta come unica aspirazione possibile.
Cartoline da inviare per rilanciare la speranza, sulle quali ognuno può mettere la propria faccia e il proprio nome per uscire finalmente dall'anonimato di una categoria sociale che si vorrebbe solo rassegnata e riconoscente.

Lele Odiardo


Alex Astegiano
Freelance, grafico pubblicitario, fotografo.
Cofondatore e ex cantante del gruppo rock Marlene Kuntz.
Collabora con: Slow Food, Rumore, XL Repubblica,
La Rivista della Montagna, Traffic Torino Free Festival,
Nuvolari Libera Tribù, Marlene Kuntz, MonfortinJazz.
Ha ritratto: Robert Wyatt, Patti Smith, Iggy Pop, Nico,
Vinicio Capossela, Shane Mc Gowan, PGR, Perturbazione,
Julian Cope, Subsonica, Antony & the Johnsons, New Order,
Asia Argento, Carmen Consoli, Aphex Twin, Franz Ferdinand,
Manu Chao, Africa Unite, Vivienne Westwood, Stefano Bollani,
John Cale, Werner Herzog e molti altri.


Andrea Fenoglio
Filmmaker e artista visuale.
Tra i suoi documentari: “L'isola deserta dei carbonai” (2007),
vincitore del premio della giuria al 55° Trento Film Festival,
del premio della giuria al 10° Cervino Cine Mountain e del
premio Città di Imola 2007; “Il popolo che manca” (2010),
vincitore del premio speciale della giuria, del premio UCCA e
del premio AVANTI al 28° Torino Film Festival,
del premio della critica cinematografica italiana “Luciano
Emmer” al 59° Trento Film Festival.
Oltre a “La Terra che connette” sta lavorando, con Diego
Mometti, a un progetto museale sulla figura dell'artista
svizzero Alberto Giacometti (“Giacometti, la Terra
delle origini”).


Cartoline da Guantanamo
(Trengari autoproduzioni, Saluzzo, 2014), libro
fotografico con le immagini di Alex Astegiano
e Andrea Fenoglio, testi di Lele Odiardo e
Gianluca Nigro e un testo inedito del
musicista maliano Baba Sissoko.
Può essere richiesto al Comitato Antirazzista
Saluzzese (fb oppure
comitatoantirazzistasaluzzese@gmail.com).
Costo 8 euro, 5 euro per chi ne ordina
più di 5 copie.