  
                
  
                Germinale a Ribolla. 
Bianciardi e la memoria della miniera 
				 
                 «Ma cosa doveva diventare, secondo lui, la miniera di 
                  lignite, un salotto? 
                   
                  Per fortuna adesso al distretto minerario non c'era più 
                  lui a dettar legge, e con l'ispettore nuovo ci si poteva mettere 
                  d'accordo.(...) Quando l'avanzamento ha esaurito un filone, 
                  che bisogno c'è di fare la ripiena? È tutto tempo 
                  perso, tutta gente che mangia a ufo. Si disarma, si recupera 
                  il legname, e poi il tetto frani pure. E non c'è nemmeno 
                  bisogno di tracciare gli avanzamenti a giro d'aria. Si può 
                  anche scavare a fondo cieco, basta un ventilatore che ci forzi 
                  l'aria dentro, no? Certo, la temperatura così aumenta, 
                  a volte supera quaranta gradi, ma si può rimediare, con 
                  una tubatura che goccioli acqua davanti alla ventola. Sì, 
                  obbiettava il medico di fabbrica, la temperatura in questo modo 
                  scema, ma aumenta l'umidità, e aumentano i casi di malattia 
                  a sfondo reumatico.(...) Qui bisognava far meno storie e aumentare 
                  il tonnellaggio... E per favore, con le radiografie ci andasse 
                  piano, il dottorino. Non erano tempi, non era aria da mettere 
                  in mutua per una sospetta silicosi o per una diminuita capacità 
                  respiratoria del diciotto per cento.(...) Allora, con l'ispettore 
                  consenziente, misero ventiquattro cantieri su venticinque coltivati 
                  ad avanzamento cieco e a franamento del tetto, realizzando in 
                  tal modo, diceva la relazione, una normale concentrazione del 
                  personale. Rispetto al quarantasei, produzione pressoché 
                  identica con un terzo degli operai di allora. Certo, restava 
                  il grosso guaio della ventilazione imperfetta. 
                  Non occorreva che glielo dicesse la commissione interna – 
                  questi altri lavativi – lo sapeva da sé il direttore 
                  che il flusso d'aria non aveva andamento ascendente continuo, 
                  che due rimonte, la venti e la ventidue, facevano scalino, erano 
                  almeno venti metri più alte della galleria di livello, 
                  e lì l'aria stagnava. Sapeva anche (ma la commissione 
                  interna questo, per fortuna, lo ignorava) che a un certo punto 
                  della 265 l'aria di afflusso si mescolava con quella di riflusso, 
                  e il regolamento di polizia diceva, chiaro chiaro, che le vie 
                  destinate all'entrata e all'uscita dell'aria debbono essere 
                  divise da sufficiente spessezza di roccia tale da resistere 
                  all'esplosione. Altro che spessezza di roccia! Lì non 
                  c'era nemmeno un foglio di carta. 
                  Fortuna che quelli non l'avevano capito. Certo, si poteva rimediare: 
                  da anni erano sospesi i lavori per l'apertura di una galleria 
                  nuova che garantisse la ventilazione di tutto il settore. Ma 
                  con quelli che dalla sede centrale premevano, circolari su circolari, 
                  a chiedere che non si sprecasse un uomo, una tonnellata, un 
                  giorno lavorativo, cos'altro poteva fare lui direttore, che 
                  mettere tutti alla frusta, a tirar su lignite?(...) L'aspiratore 
                  nuovo, da sessanta cavalli, non l'aveva forse fatto piazzare 
                  la mattina del primo maggio, che era un sabato, approfittando 
                  delle due giornate di festa consecutive?(...) Ma la mattina 
                  del tre la festa era finita, e allora sotto a levare lignite. 
                  Si erano riposati abbastanza o no, questi pelandroni? Eppure 
                  il caposquadra aveva fatto storie: diceva che dopo due giorni 
                  senza ventilazione, giù sotto era pericoloso scendere, 
                  bisognava aspettare altre ventiquattr'ore, far tirare l'aspiratore 
                  a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo. Insomma, 
                  pur di non lavorare qualunque pretesto era buono.(...) Stavolta 
                  era stufo: meno storie, disse ai capisquadra, mandate cinque 
                  uomini della squadra antincendi a spegnere i fuochi, ma intanto 
                  sotto anche la prima gita. 
                  La mattina del giorno dopo, alle sette, la miniera esplose.» 
                  
                 «Rimasi quattro giorni nella piana sotto Montemassi, 
                  dallo scoppio fino ai funerali, e li vidi tirare su quarantatré 
                  morti, tanti fagotti dentro una coperta militare. Li portavano 
                  all'autorimessa per ricomporli e incassarli (...). Alla sala 
                  del cinema, ora per ora, cresceva la fila delle bare sotto il 
                  palcoscenico, ciascuna con sopra l'elmetto di materia plastica, 
                  e in fondo le bandiere rosse. Venivano a vederli da tutte le 
                  parti d'Italia, giornalisti con la camicia a scacchi, il berrettino 
                  e la pipetta, critici d'arte, sindacalisti, monsignor vescovo, 
                  un paio di ministri che però furono buttati fuori in 
                  malo modo.(...) Questa volta non venne la celere e anche i carabinieri 
                  del servizio d'ordine si tennero accosto al cancello della direzione. 
                  Ai funerali ci saranno state cinquantamila persone, tutte in 
                  fila con le bandiere, le corone dei fiori, il vescovo con la 
                  mitra e il pastorale. E quando le bare furono sotto terra, alla 
                  spicciolata se ne andarono via tutti, col caldo e col polverone 
                  di tante macchine sugli sterrati. Io mi ritrovai solo sugli 
                  scalini dello spaccio, che aveva chiuso, e mi sembrò 
                  impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente 
                  da fare. 
                  Nella bacheca al cancello stava scritto che alle famiglie delle 
                  vittime il ministero offriva contribuzioni straordinarie e immediate 
                  varianti dalle 60 alle 100 mila lire, oltre il normale trattamento 
                  previdenziale previsto dall'Inail. La direzione offriva assegni 
                  assistenziali di 500 mila lire e di un milione, secondo i relativi 
                  carichi familiari. A conti fatti ci scapitava una ventina di 
                  milioni. Ma in compenso poteva chiudere subito la miniera.» 
                   
                  Tutte queste parole vengono da un unico libro, “La vita 
                  agra” di Luciano Bianciardi. Si consideri questo un lungo 
                  omaggio a quei quarantatré minatori – subito diventati 
                  quarantaquattro, un sopravvissuto morì qualche giorno 
                  appresso delle conseguenze dell'esplosione – a quegli 
                  angeli lavoratori restati nel fondo del pozzo. Quanta potenza 
                  sta in queste parole, alle quali pare un delitto tagliare ogni 
                  sillaba, accorciare, “citare” dei frammenti per 
                  far rientrare nell'articolo giornalistico ciò che è 
                  stato scritto col respiro del tragico affresco. Si tratta del 
                  secondo capitolo de “La vita agra” di Bianciardi, 
                  scrittore di Grosseto, maremmano e anarchico. 
                  Nel 1954 il giovane Bianciardi, insieme a un'altra giovane promessa 
                  della prosa italiana Carlo Cassola, si muove spesso dalla natia 
                  Grosseto per condurre un'inchiesta sulle condizioni di vita 
                  dei minatori delle sue zone. Parla con loro, scrive la vita 
                  che vivono, ne diviene amico. Quando esplode uno dei pozzi di 
                  Ribolla, ne rimane sconvolto, annichilito, morto nell'anima. 
                  Il libro “I minatori della maremma” uscirà 
                  due anni dopo. Ma Grosseto ora più che mai gli è 
                  diventata pesante, non crede più in quel “lavoro 
                  culturale”, periferico e dal basso, che darà il 
                  titolo al suo primo romanzo vero e proprio. 
                  Presto accoglierà l'invito del giovane editore Feltrinelli 
                  e monterà a Milano, centro concentrico, prigione e fonte 
                  di molta sua letteratura e in particolare di questo suo capolavoro 
                  “La vita agra”. Nella rabbiosa prosa di questo romanzo 
                  il protagonista è proprio uno scrittore – alter 
                  ego fatto e finito dell'autore – che vive di traduzioni 
                  e lavoretti editoriali, ma che ha l'idea fissa di “vendicare” 
                  i suoi amici minatori “assassinati” dalla Montecatini, 
                  la società proprietaria della miniera che ha sede nel 
                  “torracchione” di Milano, che il nostro vuole fare 
                  esplodere. Ma la vita faticata, “agra”, cui costringe 
                  la città, farà a pezzi la rabbia vendicativa e 
                  lascerà un sordo autodistruttivo rancore nel protagonista. 
                  L'autore invece – dopo qualche anno di stenti – 
                  farà la propria fortuna proprio con quel romanzo, fra 
                  i più rappresentativi del Boom Economico e del suo connesso 
                  malessere. “La vita agra” diverrà un modo 
                  di dire popolare a quei tempi, quasi subito Carlo Lizzani ne 
                  trarrà un bel film con Tognazzi protagonista. Bianciardi 
                  per qualche anno diventa una celebrità mediatica, spesso 
                  intervistato dalla televisione e conteso dai giornali, presenza 
                  fissa della Milano della sinistra pre-contestazione. Molti ancora 
                  lo ricordano, avvinnazzato e berciante, ai tavoli del Bar Jamaica 
                  di Brera. Ma sarà una breve pausa in una vita che declina 
                  per lento suicidio attraverso l'alcool. Una dilazione della 
                  tragica sfiducia, di quell'amaro in bocca che lasciano in eredità 
                  le meravigliose ultime pagine del suo romanzo.
                 
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Lo scrittore Luciano Bianciardi 
                  (Grosseto, 1922 - Milano, 1971)  | 
                   
                 
                 «Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non 
                  ha l'automobile l'avrà, e poi ne daremo due per famiglia, 
                  e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due 
                  televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre 
                  apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, 
                  l'asciugacapelli, il bidet e l'acqua calda. 
                  A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti 
                  a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi 
                  l'un con l'altro dalla mattina alla sera. 
                  lo mi oppongo. 
                  Quassu io ero venuto non per far crescere le medie e i bisogni, 
                  ma per distruggere il torracchione di vetro e cemento, con tutte 
                  le umane relazioni che ci stanno dentro. 
                  Mi ci aveva mandato Tacconi Otello, oggi stradino per conto 
                  della provincia, con una missione ben precisa, tanto precisa 
                  che non occorse nemmeno dirmela. 
                  E se ora ritorno al mio paese, e ci incontro Tacconi Otello, 
                  che cosa gli dico? Sono certo che nemmeno stavolta lui dirà 
                  niente, ma quel che gli leggerò negli occhi lo so fin 
                  da ora. E io che cosa posso rispondergli? Posso dirgli, guarda, 
                  Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, 
                  lassù se caschi per terra nessuno ti raccatta, e la forza 
                  che ho mi basta appena per non farmi mangiare dalle formiche, 
                  e se riesco a campare, credi pure che la vita è agra, 
                  lassù. 
                  Almeno avessi trovato gente come te. Ma la gente come te non 
                  me la fanno vedere, non gli danno il modo di dormire a sazietà, 
                  la tengono distante, staccata, la fanno venire tutte le mattine 
                  presto col treno, e io ho appena fatto in tempo a intravederli, 
                  senza capirci nulla, senza nemmeno potergli dire una parola. 
                  (...) No, Tacconi, ora so che non basta sganasciare la dirigenza 
                  politico-economico-social-divertentistica italiana. La rivoluzione 
                  deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in 
                  interiore homine. 
                  Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, 
                  a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi rinunciare 
                  a quelli che ha. 
                  La rinunzia sarà graduale, iniziando coi meccanismi, 
                  che saranno aboliti tutti, dai più complicati ai più 
                  semplici, dal calcolatore elettronico allo schiaccianoci. 
                  Tutto ciò che ruota, articola, scivola, incastra, ingrana 
                  e sollecita sarà abbandonato. 
                  Poi eviteremo tutte le materie sintetiche, iniziando dalla cosiddetta 
                  plastica.» 
                   
                  Da Ribolla al mondo. L'indignazione per quel massacro voluto 
                  – o quanto meno volutamente non evitato – aveva 
                  acceso un furore profetico nello scrittore di Grosseto, una 
                  profezia attualissima. Bianciardi morì di tristezza e 
                  di ubriachezza il 14 novembre del 1971, a quarantotto anni. 
                  Il 4 di maggio del 2014 sono passati sessanta anni tondi dalla 
                  sciagura di Ribolla. Cosa abbiamo serbato noi di quella rabbia? 
                  Cosa ci resta nella memoria di tutto quel dolore? Uno splendido 
                  romanzo, lo abbiamo detto. Un libro inchiesta dello stesso autore 
                  (e di Carlo Cassola). E poi – e qui entro in ballo io 
                  – delle canzoni, perché la vita dalle nostre parti 
                  si è sempre sposata con la musica, e tanto più 
                  era vita – anche tremenda – tanto più si 
                  cantava per alleviare la fatica. 
                   
                  Meno male che c'è sempre qualcuno che canta  
                  e la tristezza ce la fa passare,  
                  se no la nostra vita sarebbe una barchetta in mezzo al mare, 
                   
                  dove tra la ragazza e la miniera apparentemente non c'è 
                  confine,  
                  dove la vita è un lavoro a cottimo e il cuore un cespuglio 
                  di spine. 
                   
                  Così fa un meraviglioso brano di Francesco de Gregori 
                  che si chiama proprio “La ragazza e la miniera”. 
                  Chissà se l'ispirazione per questa moderna ballata di 
                  lavoro, di solitudine e dolore esistenziale, è arrivata 
                  a de Gregori dal suo lontano sodalizio con Caterina Bueno – 
                  per la quale all'inizio della sua carriera lavorò come 
                  chitarrista – dal suo repertorio ritrovato e salvato di 
                  canzoni popolari toscane sul duro, povero e insano faticare 
                  dei carbonai o degli stagionali che percorrevano l'agra estensione 
                  del centro Italia, per qualche spicciolo mal guadagnato e già 
                  speso. 
                   
                  So stato a lavorà a Montesicuro 
                  se tu sapessi quanto ho guadagnato, 
                  ci manca quattro pavele a uno scudo. 
                   
                  Non posso dì però quanto ho sudato, 
                  so mezzo morto me se schianta il core 
                  e l'anema me va pè conto suo. 
                   
                  Mannaggia all'ora quanno ci ho pensato 
                  d'annatte a lavorà a quel diserto, 
                  che p'arricchì 'n brigante so crepato. 
                   
                  Caterina Bueno, questa grandissima ricercatrice e cantante di 
                  Firenze aveva reso celebre il repertorio maremmano, la dura 
                  maremma lontana dalle sdolcinate rievocazioni letterarie, enologiche 
                  e nostalgiche, dura di lavoro e verità: “una Maremma 
                  amara” come dice una delle più note canzoni popolari. 
                   
                  Tutti mi dicon Maremma, Maremma... 
                  Ma a me mi pare una Maremma amara. 
                  L'uccello che ci va perde la penna 
                  Io c'ho perduto una persona cara. 
                   
                  Sia maledetta Maremma Maremma 
                  sia maledetta Maremma e chi l'ama. 
                   
                  Sempre mi trema 'l cor quando ci vai 
                  Perché ho paura che non torni mai. 
                   
                  La ventura di questa improbabile vita di musicista itinerante 
                  mi ha fatto incontrare, su un palco a un angolo della vita, 
                  Eleonora Bagnani, giovane cantante residente a Siena, ma originaria 
                  di Roccastrada, il comune di cui Ribolla è frazione. 
                  La sua tradizione familiare – il nonno fu minatore e scampò 
                  alla strage solo perché il giorno prima si era infortunato 
                  a un piede – insieme al mio bisogno di cantare la memoria 
                  ci ha fatto concepire uno spettacolo su quel pozzo sprofondato 
                  nel nostro passato: la miniera. Siamo partiti alla ricerca delle 
                  canzoni: arrivare al cuore delle cose, per noi equivale a cantarle. 
                  Abbiamo scavato in questo giacimento sparso, vi abbiamo trovato 
                  delle perle, sempre macchiate di fango, qualche volta anche 
                  di sangue e sputo. Nasce così lo spettacolo “Germinale 
                  a Ribolla, memoria cantata del 4 maggio 54”, il titolo 
                  omaggia il capolavoro di Zola, il testo è un impasto 
                  di canti e citazioni di Bianciardi.
                 
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Francesco De Gregori, Caterina Bueno e Antonio  De Rose durante 
                  un concerto nel 1971  | 
                   
                 
                
                  Nella ricerca sono stato folgorato da questo brano che mi hanno 
                  fatto conoscere i compagni del Canzoniere Bresciano: un cupo 
                  capolavoro, proveniente dal repertorio della famiglia Bregoli, 
                  minatori in Val Trompia. Ascoltare dalle loro voci forti e consumate 
                  dalla silicosi, tirate e violente, queste parole mette un brivido 
                  nella schiena. E con queste parole vi lascio, con l'augurio 
                  e la voglia di aria pulita nei polmoni e sole, in memoria dei 
                  quarantaquattro di Ribolla. 
                   
                  E anche il mio padre 
                  sempre me lo diceva 
                  di star lontano 
                  dalla miniera 
                   
                  Ed io testardo 
                  ci sono sempre andato 
                  finché di una mina 
                  mi ha rovinato 
                   
                  Finché di una mina 
                  in quella galleria 
                  mi ha rovinato 
                  la vita mia 
                   
                  Non c'è più medici 
                  nemmeno medicine 
                  che fan guarire 
                  le mie rovine 
                   
                  Non c'è più medici 
                  nemmeno i professori 
                  che fan guarire 
                  i miei polmoni 
                   
                  O Santa Barbera 
                  o santa Barberina 
                  dei minatori 
                  sei la regina.  
                 Alessio Lega 
                  alessiolegaconcerti@gmail.com 
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