Rivista Anarchica Online




L'etica in bilico (dalla padella della biologia alla brace della cultura)

1.
Felice Accame è un abile provocatore e, sebbene da giovane mi sia stato insegnato che non si deve rispondere alle provocazioni, in questo caso ho deciso di accettare la sfida. La mia non è una replica o una confutazione degli argomenti di Accame (con cui sono sostanzialmente in sintonia): la mia è una nota a margine, un breve cenno a proposito di argomenti su cui vale la pena di ragionare un minuto e che in Diventare Umani – che è una sorta di tuttologia – non hanno trovato lo spazio che forse meritavano.

2.
La selezione e la sopravvivenza delle specie dipendono, in buona sostanza, dal comportamento individuale e collettivo. Il comportamento altro non è che se non la risposta agli stimoli che provengono dall'ambiente, ambiente dal quale dipendiamo e dal quale ci si deve anche difendere. Il comportamento è guidato da riflessi spontanei e da risposte condizionate dall'esperienza. L'esperienza è composta da almeno tre componenti: uno stimolo; un comportamento in risposta allo stimolo; l'effetto conseguente al comportamento. È questa triade – che chiamiamo esperienza – che si radica nella memoria. Ripetute esperienze simili tra loro inducono comportamenti stereotipati: ciò avviene verosimilmente attraverso facilitazione di circuiti neurali indotta dalla reiterazione di triadi ripetitive. Fino a qui la cultura non entra in gioco. Fino a qui sono sufficienti dotazioni di base di tipo associativo messe a disposizione dei sistemi neurocognitivi di tutte le specie animali, nessuna esclusa. La cultura entra in gioco quando sono richiesti comportamenti complessi in risposta a stimoli complessi.
Gli animali che vivono in branco (ad esempio lupi, scimmie, elefanti), ma anche quelli che convivono in uno spazio limitato (ad esempio, le galline che razzolano in un'aia), seguono regole precise, acquisite e memorizzate in virtù dell'apprendimento: l'esempio più classico è quello dell'esercizio delle relazioni gerarchiche. Gli individui di questi gruppi imparano a codificare comportamenti differenziati a seconda delle gerarchie. Senza volere “umanizzare” questi animali, possiamo semplificare dicendo che essi adottano schemi per i comportamenti che, in certe contingenze, possono essere adottati (buoni) e che, in altre contingenze, non possono essere adottati (cattivi). I gruppi che seguono queste tradizioni comportamentali (che sono l'anticamera della cultura) probabilmente sono premiati dai processi di selezione naturale e i loro sistemi cognitivi si sono conformemente evoluti. Un fatto analogo è accaduto anche per l'uomo i cui sistemi cognitivi, di norma, impediscono che si infrangano i tabù che sono stati individuati e trasmessi attraverso i meccanismi dell'apprendimento sociale. Per l'uomo la questione è però un po' più complicata che per le galline o i lupi.

3.
Felice Accame afferma che è “destrorso” cercare di legittimare comportamenti autoritari e repressivi attraverso l'idea che “il male proviene dall'uomo”. Negli animali che vivono in branco, i comportamenti aggressivi nei confronti degli individui che violano le gerarchie sono la regola. Ma gli animali non conoscono le categorie del bene e del male e nemmeno quelle di destra o di sinistra. Quel che io trovo più che discutibile è legittimare comportamenti aggressivi e repressivi in virtù di presupposti filo-naturalistici in cui si assume che uomo e animali, avendo una natura simile e condividendo alcune facoltà cognitive, debbano anche condividere i modi di relazionarsi tra loro. Il fatto che uomini e animali condividano una filogenesi e una serie di facoltà cognitive non deve far dimenticare che l'uomo ha acquisito alcune facoltà, non presenti negli animali, che gli consentono di avvalersi di una cultura molto più articolata rispetto a quella degli animali e che questa cultura è un filtro necessario per la “scelta” dei comportamenti da adottare. Anch'io affermo che “il male proviene dall'uomo”: non per giustificare il male, ma perché è in virtù delle sue particolari facoltà cognitive che l'uomo è riuscito a concepire il male, ovvero ad attribuire un “valore” ai comportamenti, assegnandoli di volta in volte alle categorie contrapposte del “bene” o del “male”. Ecco qui introdotte le categorie del “bene” e del “male” e il tormentone della “libera scelta”.

4.
I genitori e i nonni passano gran parte del loro tempo a insegnare a figli e nipoti, fin dai primi mesi di vita, che cosa si può fare, ma soprattutto che cosa non si può fare. “Non fare questo, non fare quello”; “questo non si fa”; “guai a te se lo rifai”; “non farlo mai più”. La categoria del male sembra del tutto prevalente su quella del bene. Solo quando si frequenta il catechismo, o durante insegnamento della religione nelle prime di classi della scuola elementare, si viene a sapere che esiste un bene contrapposto al male e che la conoscenza dell'uno e dell'altro non si addice a chiunque, o che il frutto di quella conoscenza (mela o fico che sia) è piuttosto indigesto. A partire dall'infanzia – con i “no” dei genitori e con il regime sanzionatorio delle religioni – impariamo, finalmente, che il bene e il male sono categorie rigide: di qua il bene, di là il male; un comportamento è buono, oppure è cattivo; una persona (bambino o adulto che sia) è buono oppure è cattivo. Sono categorie tagliate con l'accetta – tanto care a Platone come a Papa Ratzinger – quelle del bene e del male. Le neuroscienze, per nostra fortuna, non sono ancora riuscite a identificare circuiti specifici per i comportamenti buoni e per quelli cattivi.

5.
Le neuroscienze però si occupano, eccome, del bene e del male. Ci sono molte prove, sia di tipo psico-comportamentale che di tipo neuro-fisiologico, che dimostrano che facoltà prettamente umane (come la capacità di mettersi nei panni dell'altro e l'empatia) sono prerequisiti necessari per poter categorizzare un fatto o un comportamento nella categoria del bene o del male. Naturalmente ci sono alcune aree del cervello (per esempio il sistema limbico e le amigdale) dalla cui attività dipende l'elaborazione di queste facoltà. Da qui, la facile deduzione riduzionistica che “i cattivi” sono tali perché la loro biologia o la loro genetica è stata avara nel fornire loro queste facoltà. Citando me stesso, ricordo che per Francisco Ayala “il senso morale è determinato dalla biologia nella misura in cui biologia e genetica determinano lo sviluppo cognitivo e intellettivo della specie umana. Il senso morale è quindi determinato da una struttura cognitiva ma, per esprimersi in modo concreto, il senso morale necessita di codici morali strettamente correlati all'esperienza e al contesto”. Parole non molto diverse sono quelle di Paolo Legrenzi il quale afferma che: “l'analisi delle precondizioni biologiche dell'empatia non esaurisce il problema della bontà e della cattiveria. La questione riguarda lo scenario e la relazione di collaborazione o di competizione che si ha con l'altro”. L'idea di Platone che “'uomo buono è colui che ha la conoscenza del bene” mi sembra altrettanto riduttiva di quella di una “cattiva” neuroscienza quando afferma che l'uomo cattivo è quello con un sistema limbico difettoso.

6.
I sistemi cognitivi datici in dotazione dalla natura ci consentono di elaborare codici di comportamento che, quando vengono messi in relazione a scopi o a risultati di utilità per il gruppo (più raramente per l'individuo), assumono il connotato di codice morale. L'applicazione di questi codici (che possono essere rigidi) va però adattata ai vincoli culturali, all'esperienza, alle contingenze del contesto (che possono essere piuttosto variabili). Si può convenire sulla necessità che i codici etici siano entità rigide, ma si deve anche convenire che la giustizia e l'ingiustizia, il bene e il male vanno valutati nello specifico contesto, un contesto che esperienza e cultura possono dilatare di molto: io credo che nel giudizio etico (checché ne pensino Platone e Ratzinger) il relativismo è d'obbligo. Il relativismo è d'obbligo perché, altrimenti, nessuna “scelta” potrebbe essere “responsabile”. Ci sono molti studi di neurofisiologia e di neuroimmagine che dimostrano che l'individuo diviene cosciente di una scelta dopo che il suo cervello ha effettuato quella scelta. La sincronizzazione di vaste aree cerebrali da cui dipenderebbe la coscienza impiega più tempo a realizzarsi che non l'effettuazione della scelta stessa. Ciò sembrerebbe ridurre i margini della “libera” scelta. Non è necessario mettere in dubbio i risultati di questi studi scientifici. È sufficiente pensare che, almeno per ogni scelta ragionata, sia necessario un doppio comando per mettere in atto un comportamento. Se il cervello elabora una scelta e poi ce la notifica, a noi tocca poi la responsabilità di convalidare o di invalidare quella scelta. La libertà, in fondo, dipende ancora da noi.

Piero Borzini
Milano

Note
Il mio Diventare Umani è edito da Aracne, Roma 2013. La citazione di Francisco Ayala sul senso morale è a pag. 387 ed è ripresa dal suo articolo The difference of being human: Morality, in PNAS 2010; 107: 9015-9022. La citazione di Paolo Legrenzi è tratta dal suo articolo L'empatia: il bene e il male, in MicroMega 2014; 1: 122-135.


Black block, G8, violenza, ecc./ Danni irreparabili

Caro Andrea Staid,
leggendo il tuo intervento uscito nel numero di maggio sugli articoli di Toni Senta apparsi negli scorsi numeri di A-Rivista, mi sono sentito coinvolto nelle tue critiche ai “commenti” redazionali e soprattutto nella critica al comunicato “genovese” che anche io sottoscrissi e di cui contenuti ritengo di non dovermi pentire. Sono sempre più convinto, infatti, che le imprese dei Black block a Genova, tanto di quelli che pensavano di star facendo qualcosa di simile a una rivoluzione, quanto, e soprattutto, di quelli che erano lì per dare sfogo alle proprie frustrazioni, se non, così non fosse, per obbedire agli ordini di questure e ministeri, abbiano prodotto, oltre ai danni materiali, danni irreparabili (e irreparabili, col tempo si sono purtroppo dimostrati) ai movimenti di opposizione sociale e alla loro attività.
Per non parlare della sorte dei compagni che si trovano a scontare anni di galera motivati, secondo la logica della “giustizia”, dalla radicalità dello scontro. Compagni che reputo incolpevoli delle accuse mosse loro ma che stanno pagando per altri che già sapevano che non avrebbero pagato nulla. E anche il movimento no global, non ha certo tratto grandi benefici dalle imprese di chi ha inteso ridurre i suoi contenuti e la sua potenziale ricchezza nel più banale e scontato “scontro diretto” con le vetrine della controparte.
In una delle pagine più belle della sua Breve estate dell'anarchia Hans Magnus Enzesberger, nel descrivere il carattere e la natura dei vecchi, meravigliosi, combattenti anarchici spagnoli esiliati in Francia, scrive: «La violenza è loro familiare, il piacere della violenza è invece profondamente sospetto».
Guardavo, giorni fa, un servizio sui recenti scontri madrileni, nei quali, a margine di una imponente manifestazione, alcune decine (ma il numero non conta) di manifestanti hanno deciso, tanto per cambiare, di dare l'assalto a qualche bancomat e vetrina. Quello che mi ha impressionato non è stata tanto l'accanimento con il quale un giovane cercava di rompere un vetro infrangibile, quanto, piuttosto, il codazzo di fotografi e cineoperatori che “circondavano” il giovanotto in questione, attenti a non perdere nemmeno un fotogramma dell'impresa: una performance teatrale con la sceneggiatura di prammatica se non un vero e proprio “rito” che un bravo antropologo come te non faticherebbe a descrivere.
Tutto questo per dire cosa? Per dire che non si possono accostare l'impresa del Matese, l'arditismo e la Resistenza con certe manifestazioni piazzaiole di questi ultimi tempi. Opporre alle violenze del potere, quando indispensabile, una necessaria contro violenza, è un conto, che può piacere o dispiacere, ma che comunque potrebbe essere inevitabile, mettere al centro della propria azione la violenza come primo strumento dell'attacco al potere, è un altro. Come anarchici dobbiamo sempre porci il problema di far sì che il nostro agire non solo sia coerente con i fini che ci proponiamo, ma che sia anche in grado di far crescere nel corpo sociale una coscienza collettiva disposta alla libertà.
Quando però certi fatti diventano, come dicevo, puro spettacolo, abitudini scontate e stancamente ripetitive, riconducibili a una dialettica che non può appartenerci, mi sembra indispensabile che come portatori di un progetto sociale veramente “altro”, si diventi quanto mai criticamente circospetti.
Critica e circospezione che possono essere offuscate dal sottile fascino che una bella immagine di “attacco al sistema” può trasmetterci, ma che non devono mai mancare in chi è convinto, come sono sicuro che siamo entrambi, che il nostro mondo nuovo potrà nascere solo da un moto spontaneo, collettivo e condiviso, di rifiuto del potere. E, a mio parere, anche di uno dei suoi assunti più solidi: quello secondo il quale la categoria della violenza sia imprescindibile nella dinamica dei rapporti sociali.
Un fraterno saluto

Massimo Ortalli
Imola

Prosegue il dibattito su
movimenti e potere

Pubblichiamo qui di seguito il quarto e il quinto intervento nel dibattito sulle tematiche toccate nei quattro articoli di Antonio Senta (“potere e movimenti”) pubblicati sulla nostra rivista tra l'ottobre 2013 (“A” 383) e il febbraio 2014 (“A” 386). In precedenza erano intervenuti Andrea Papi e Andrea Aureli (“A” 388) e Francesca Palazzi Arduini (“A” 389). Ricordiamo che gli interventi in questo dibattito, come sempre aperto a tutti, non possono superare le 6.000 battute (spazi compresi).



Dibattito
Movimenti e potere/4 e 5

Andrea Staid/Posizioni antipatiche e poco efficaci

In questi mesi grazie a Toni Senta nelle pagine di “A” rivista abbiamo letto e capito meglio quelle che sono state le rivolte, le manifestazioni e i nuovi movimenti che in giro per il globo hanno chi più chi meno scosso le sfere alte della società del dominio.
L'analisi lucida e accurata di Toni Senta non si è soffermata solo su un paese ma ha cercato di analizzare e trovare i punti di contatto tra le varie rivolte che si sono susseguite negli ultimi anni. Tutto il mondo si è sollevato, dall'Europa al Magreb passando per l'Asia e il centro America quello però che ci allarma è che sembra che le cose rimangano sempre uguali o peggio, difatti in certi casi dopo le rivolte sembra che la situazione peggiori.
Ma dobbiamo stare attenti a dare una lettura superficiale di questi moti perché molto spesso non prestiamo attenzione a quelle che sono le mutazioni culturali in atto in seno a queste ribellioni, ovvero quelle mutazioni silenziose ma profonde che si portano dietro i moti di rivolta.
Detto questo devo ammettere che non ho molto da dire su gli articoli di Toni Senta perché condivido la sua analisi, invece quello su cui vorrei soffermarmi sono le note che compaiono ogni tanto sulla “nostra” rivista.
Le trovo alquanto antipatiche e poco efficaci, nel senso che penso (e invito a farlo) che la redazione di A si debba esprimere più profondamente su tematiche come queste in modo da approfondire le critiche, non può e non basta scrivere brevemente “noi” non concordiamo con l'autore dell'articolo, le nostre posizioni sono da sempre contro la violenza... cosa significa? Devo dedurre che la rivista quindi è contro i moti del Matese, contro l'arditismo popolare, contro le azioni partigiane, contro le rivolte degli anni 70, contro la resistenza in Val Susa?
Non penso, in più in questo caso, nota per me collaboratore della rivista dolente è che in uno degli articoli di Toni dove è apparsa questa posizione antiviolenza la redazione ha tirato in ballo nelle poche righe scritte in fondo all'articolo delle giornate centrali come quelle del luglio 2001 e le ha liquidate dicendo eravamo contro 10 anni fa e lo siamo ancora oggi. Ma contro a cosa? Il fatto grave di questa posizione per me non è non condividere certe pratiche ma parlare sbrigativamente di questioni importanti e soprattutto di usare termini sbagliati. Credo che etichettare certe pratiche con il nome violenza, ovvero usare lo stesso vocabolario di chi ci governa quando in realtà, soprattutto per le giornate del 2001, si tratta di danneggiamenti a feticci.
Altra nota dolente e soprattutto fastidiosa è che la redazione tira in ballo Genova dopo lungo silenzio non per parlare degli anarchici incarcerati con condanne dagli otto ai 12 anni per degli scontri di piazza, ma per puntare il dito contro dei fantomatici atti violenti. Per questo mi auguro una chiarificazione seria e profonda in queste pagine sulla posizione della redazione. Sono convinto che non c'è solo un modo di sviluppare la lotta libertaria e non credo che l'anarchismo sia universale ma, credo e sono convinto che la violenza sia quella contro le persone, contro gli animali uccisi tutti i giorni nei nostri piatti, quella dello stato che incarcera e reprime le lotte sociali, quella del lavoro salariato e non dei danneggiamenti a proprietà; condivisibili o meno, controproducenti o meno, ma non certo riconducibili a atti violenti.

Andrea Staid

Carlo Boffa, 2013, “Sulle spine”
elaborazione digitale


Federico Battistutta/Mille piani in movimento
Nel corso di una conversazione Gilles Deleuze si pose la domanda sul perché le persone si ribellano e fanno rivoluzioni, se poi queste rivolte alla fine falliscono. Tutte le rivoluzioni falliscono (anche quando apparentemente vincono, come in Russia o da altre parti) – diceva Deleuze – ma ciò non impedisce il divenire-rivoluzionario da parte delle persone, sempre e in ogni epoca. Anche oggi.
Vi ricordate Fukuyama e le sue tesi sulla filosofia della storia? Oggi è finalmente possibile delineare una vera e propria fine della storia, e questa è collocabile in un ben preciso contesto sociale, politico ed economico, ossia il sistema capitalistico, liberale e democratico e, in particolare, nella versione di essa concretizzatasi negli Stati Uniti. Vi ricordate Huntington e la sua teoria sullo scontro delle civiltà? Viviamo nel migliore dei mondi possibili – il mondo occidentale, lo stesso decantato da Fukuyama – ma bisogna coalizzarsi e proteggersi dalle minacce esterne che mirano a de-occidentalizzare il mondo. Sono trascorsi una manciata di lustri e la storia ha provveduto a sollevare il velo di maya che avvolgeva questi discorsi, per rivelare ciò che in effetti erano: mere ideologie, rivestimento della concreta realtà materiale con idee e principi astratti, mascherando e fornendo così surrettizie giustificazioni.
Nonostante ne abbiano provate di ogni per convincerci, sappiamo bene, sulla nostra pelle, che non viviamo nel migliore dei mondi possibili e, in questi ultimi anni, la rinnovata lotta dei ricchi contro i poveri ha reso evidente, anche ai più ingenui, in quale mondo abitiamo. Altro che fine della storia! Altro che “stringersi a coorte” contro la de-occidentalizzazione del mondo! A ogni latitudine è tutto un fiorire di movimenti, di mobilitazioni, di iniziative, di lotte, come mostrano le pagine di Antonio Senta. Non c'è stata solo l'acampada spagnola o Occupy Wall Street. Non ci sono state solo le primavere arabe o Gezy Park a Istanbul. È un pullulare, uno sciamare di uomini e donne, di giovani e meno giovani, per le strade, nelle piazze, nelle città come nelle campagne, dal nord a sud, da est a ovest. È un nascere, spegnersi e riaccendersi di iniziative. Dai Sem Terra brasiliani agli operai cinesi delle zone economiche speciali, dagli esodati in Italia agli zapatisti del Chiapas, dai migranti che sbarcano sulle coste del primo mondo agli studenti europei privati di futuro, dai lavoratori precari della produzione immateriale ai nativi dell'Amazzonia o del Kalahari espropriati dalle loro terre.
Dire tutto ciò è dire tutta la ricchezza, ma anche la frammentazione che attraversa le proteste e le proposte di questi tempi. Da qui dobbiamo partire. Seppure in forme e modalità differenti, siamo tutti poveri o impoveriti da questa aggressione scatenata dai ricchi. Ricchi e poveri: categorie sociologiche obsolete, si dirà; forse, ma dicono meglio di tante analisi sofisticate (per intenderci: in Italia il 46% della ricchezza è in mano al 10% delle persone). Ha perciò ragione Antonio a parlare dell'esistenza non di un piano unico, ma di mille piani (mille plateaux!) dei movimenti odierni. È vero, la realtà sociale è moltitudine, è irriducibile pluralità. Ma questi mille piani chiedono a voce alta, per essere efficaci e incisivi, processi di comunicazione e di articolazione solidali che funzionino da acceleratori e moltiplicatori. I tratti libertari e orizzontali che manifestano buona parte dei movimenti in corso costituiscono una promessa e una scommessa da leggere e raccogliere, proseguendo il cammino in tale direzione.
Queste, in breve, mi paiono, al momento, le questioni cruciali all'ordine del giorno. Mentre non mi sembra così centrale la preoccupazione, avvertita da qualcuno sulle pagine di “A”, circa l'esercizio di pratiche violente, accadute sporadicamente durante alcuni scioperi o manifestazioni, in Italia o fuori. Francamente non mi sembra che stiano emergendo derive lottarmatiste o minacce del genere nei movimenti in corso. Certo l'uso della forza e della violenza è un tema che le rivolte di ogni tempo hanno dovuto affrontare (o meglio: come reagire a una società costitutivamente violenta nelle sue procedure di marginalizzazione e di esclusione), quindi neppure noi dovremo eludere il problema, imparando anche dagli errori di un passato prossimo. Ma, come si suol dire, ogni cosa a suo tempo: cerchiamo di non essere più realisti del re, lasciamo certe litanie ai politici di palazzo o agli editorialisti del “Corriere” e di “Repubblica”, usciamo all'aperto e collochiamoci insieme – uomini e donne, giovani e vecchi – nel cuore della vita che, a gran voce, chiede un più di vita.

Federico Battistutta

Bella ciao/ A proposito di un progetto

A proposito dell'articolo di Alessio Lega su Bella Ciao (“A” 388). Alessio mi cita tra coloro le cui esperienze confluirono nello spettacolo; la mia ricerca è cominciata invece poco dopo e devo dire che fu esattamente il contrario, perché proprio Bella Ciao fu una tra le motivazioni che mi spinsero a fare ricerca e ad avvicinarmi alle allora Edizioni del Gallo e ai Dischi del Sole.
Di Bella Ciao avevo letto sui giornali recensioni e anche la storia delle contestazioni di Spoleto per cui quando lo spettacolo arrivò a Milano, andai da solo al teatro Odeon per vederlo. Ne rimasi affascinato e coinvolto tanto che alcuni giorni dopo riuscii a convincere la sezione del PCI di Bergamo a organizzare un pullman per i compagni che volevano vedere Bella Ciao a Milano. Così lo rividi per una seconda volta.
Questo per quanto riguarda la mia storia personale. Ma le considerazioni che si possono fare su Bella Ciao sono tante, dalla bravura degli interpreti alla spettacolarizzazione delle canzoni popolari su una semplice scena disadorna in cui le canzoni stesse venivano valorizzate da una regia essenziale nella sua linearità. Bella Ciao è anche un miracolo di realizzazione su dei materiali piuttosto esigui perché fino ad allora le ricerche sul campo in Italia erano state abbastanza scarse: i dischi con Teresa Viarengo che Franco Coggiola scoprì nel 1964 e quello delle Sorelle Bettinelli arrivarono alcuni anni dopo, e allora solo Roberto Leydi aveva un grosso fondo di materiale di ricerca. Gianni Bosio e Cesare Bermani avevano da poco tempo avviate delle campagne di ricerca e per il Sud dell'Italia non c'era molto a disposizione, anche se Ernesto de Martino, Diego Carpitella e altri avevano registrato sul campo e indagato sul mondo popolare delle regioni più povere dell'Italia.
Alessio Lega rileva giustamente che il disco e il CD uscito successivamente, sono frutto di una registrazione in studio. Purtroppo anche il CD è identico al LP degli anni '60 e ne ha la stessa durata, ma l'Istituto Ernesto de Martino non possiede la registrazione dello spettacolo, dal vivo, che però esiste. È una vecchia storia per cui mi batto da anni: che venga pubblicato un CD con una versione più completa dello spettacolo, visto che oggi un supporto di questo tipo può contenere anche più di un'ora di registrazione Ho perorato la stessa causa in favore del disco tratto dallo spettacolo “Ci ragiono e canto” al quale ho davvero dato un modesto contributo con le mie ricerche. Roberto Leydi, purtroppo scomparso nel 2003, aveva i nastri con la sua registrazione dell'intero Bella Ciao e mi aveva detto che non avrebbe avuto problemi a prestarli per una loro eventuale pubblicazione su CD. Aveva detto la stessa cosa a Ivan Della Mea, ma anche lui ci ha lasciato quattro anni fa, per cui rimangono solo il mio ricordo e la mia parola per testimoniare questa sua promessa. Ora i nastri di Bella Ciao sono a Bellinzona nel Fondo Roberto Leydi del Centro di Dialettologia e di Etnografia, e non ho idea se ci sia una disponibilità a concederli per un'operazione di questo tipo. Per “Ci ragiono e canto” invece manca solo la volontà, o meglio la disponibilità anche finanziaria, per fare questo lavoro di ricupero. Alessio Lega conclude il suo articolo augurandosi un riallestimento di Bella Ciao in una nuova versione. Io ricordo che uno dei momenti in cui si arrivò quasi alla realizzazione di quest'idea fu il centenario della CGIL; ci furono riunioni e convocazioni di cantanti vecchi e nuovi, ma il progetto non andò in porto. Non so se sia ancora possibile che questo accada in futuro, come Alessio auspica. Credo che invece almeno l'idea della riproposizione discografica dell'intero spettacolo sia più realizzabile. Mi rendo conto che in un periodo di crisi come questo fare un CD nuovo comporti dei rischi non indifferenti, ma sono sicuro che anche chi sia già in possesso del vecchio LP o del CD di questo spettacolo, sarebbe ben lieto di acquistarne un'edizione nuova e completa.

Riccardo Schwamenthal
Bergamo


“A” alla fine del mondo

Grazie al nostro lettore Davide Costantino che ci ha inviato
questo scatto dalla Patagonia argentina

Carrara/Quella “patrimoniale” imposta dai partigiani

Caro Paolo,
in relazione al numero di aprile (“A” 388) relativo alla nostra presenza nella lotta di liberazione dal fascismo, ad essere precisi la Resistenza al fascismo iniziò quando Mussolini si installò al potere! Per quanto riguarda Carrara,  la Formazione Lucetti fu a lui dedicata fino allo sganciamento dalla linea gotica avvenuto nel novembre 1943, causa la comunicazione degli alleati che avevano deciso di rimandare l'offensiva alla primavera successiva.
Al rientro nel gennaio 1944, prese il nome della Schirrù. Il fatto rilevante da voi della rivista evidenziato, fu il prelievo forzoso ai cittadini benestanti, prelievo da Ugo iniziato e poi autorizzato dal CLN locale, del quale due anarchici facevano parte. Venne raccolta una somma di otto milioni di lire (grande somma per quel tempo), che fu utilizzata per provvedere ai bisogni dell'ospedale, del ricovero per anziani e per le necessità materiali di tutte le brigate in campo.
Si trattò di una vera e propria “patrimoniale”, di cui oggi si parla tanto, ma restò l'unica, credo, nella storia di questa repubblica fondata sul mercato, sul profitto e sullo sfruttamento.
A onor del vero, il governo del CLN nazionale, presieduto da Parri, restituì le somme versate dai sottoscrittori, ma nessuno a Carrara accettò il rimborso.
Quelle somme furono quindi ripartite tra le organizzazioni partigiane, e con la sua parte, Ugo fondò la Cooperativa di consumo del Partigiano. Custodisco ancora l'elenco dei soci che aderirono alla iniziativa. Anche questo ad onor del vero di questa gente.
Ti mando queste memorie trasmessemi da mio padre, perché i giovani sappiano e gli anziani ricordino.
Un abbraccio dal sempre vostro

Alfredo Mazzucchelli
Carrara

Per un riavvicinamento tra anarchici e radicali

Nel mio contributo al dibattito sul noto libro di Nico Berti (Libertà senza rivoluzione) ho auspicato un riavvicinamento e l'instaurazione di un rapporto politico tra movimento anarchico e area radicale, per quanto l'uno e l'altro siano in profonda crisi, di identità e di consenso, anzi proprio per questo, dato che la comunicazione tra anarchici e radicali potrebbe portare, spero, a un rilancio di entrambe le aree.
So bene che sono passati più di quarant'anni da quando radicali e anarchici procedevano a braccetto nelle marce antimilitariste, e che gli anarchici non hanno perdonato a Pannella l'appoggio dato a Berlusconi nel 1994 (in cambio di sette deputati) e il voltafaccia (forse solo apparente) sulla questione degli interventi militari nelle due guerre del Golfo, a tacere della politica “ultraliberista” dei radicali anni '90.
La situazione è però mutata. Nell'attuale contesto, abbiamo un'area radicale ridotta al lumicino nelle competizioni elettorali (gli ultimi sondaggi la davano allo 0,6%), tanto da suggerire a molti la non presentazione alle elezioni, ma comunque impegnata in varie battaglie, che non possono lasciare indifferenti gli anarchici, trattandosi di battaglie francamente libertarie, condotte, oltre che dal leader, da associazioni satellite, come “Nessuno Tocchi Caino” o “Luca Coscioni”.
Si pensi dunque alle battaglie anticarcerarie e per l'amnistia, all'abolizione della pena di morte in tutto il mondo e dell'ergastolo, alla legalizzazione (io preferirei dire liberalizzazione) di alcune o di tutte le droghe in nome dell'“antiproibizionsmo su tutto” (altro slogan radicale, che, preso alla lettera, significa stato di pura anarchia), alla libertà di ricerca scientifica e contro la vergognosa legge 40, in gran parte smantellata in forza delle azioni giudiziarie promosse in prima linea dall'associazione “Coscioni”, si pensi ancora alle questioni del “fine vita”, eutanasia, testamento biologico, etc.
Le battaglie sono quindi buone, anzi ottime, ma errata è la teoria: i radicali infatti conducono da alcuni anni codeste e altre battaglie in nome del rispetto del cosiddetto “Stato di diritto”, ma a ben vedere nella pratica contraddicono questo assunto retorico (si noti che Pannella, nel 1973, nella bella prefazione al libro di Andrea Valcarenghi, oggi Majid, “Underground a Pugno Chiuso”, parlava esplicitamente di deperimento del potere).
Quando Pannella chiede l'amnistia, o Rita Bernardini regala rami di canapa indiana, essi lo fanno invocando lo “Stato di diritto”. Ora a parte che anche il fascismo, per imporre la propria dittatura, seguì almeno all'inizio percorsi giuridici formalmente ineccepibili (i noti decreti del '25 e del '26), e che persino la guerra è soggetta a un “diritto bellico” (Balladore-Pallieri), ciò che più conta, per quanto qui interessa, è che nessuna norma, nemmeno a livello di dichiarazione dei diritti dell'ONU (che Pannella giustamente considera “diritto positivo storicamente acquisito”, e non positivizzazione di un presunto diritto “naturale”, come riteneva Bobbio), prevede l'inderogabilità dell'amnistia o l'erba libera. E lo stesso vale per le battaglie storiche, divorzio, aborto e obiezione di coscienza, che non avevano alcun appiglio giuridico superiore, ma erano manifestazione del volontarismo di chi si batteva. Gli atti di disobbedienza civile vengono effettuati in realtà solo apparentemente in nome dello Stato di diritto, dato che nessuna norma di rango superiore o supremo (se non molto indirettamente eventuali norme, interne ed internazionali, che tutelano, in modo indeterminato, il “diritto dell'uomo”) impone queste battaglie, se non innovando radicalmente il diritto, ma in nome di che? Io direi della libertà dell'individuo, che è concetto filosofico e/o morale.
E qui entra in campo il movimento anarchico con tutto il suo carico teorico libertario che è incredibilmente vasto: è inutile fare nomi perché li conoscete meglio di me: i classici Godwin, Stirner, Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Tolstoj, gli americani Thoreau, Tucker, Warren, Spooner e molti altri, tra cui Camillo Berneri che non disdegnava rapporti con l'area “radicale” di allora, il liberalismo rivoluzionario di Gobetti e il socialismo liberale di Rosselli. Ai quali aggiungerei Paul Goodman, apprezzato anche da un anarco-capitalista, diciamo così, per certi versi di “sinistra”, come David Friedman.
E allora io immagino uno scambio tra anarchici e radicali, i primi ci mettono ed elaborano la dottrina della libertà, i secondi individuano le battaglie di second best da proporre agli anarchici (i quali a loro volta possono individuarne altre), almeno a quelli che accettano l'indicazione di Nico Berti di non trascurare la dimensione politica liberal-democratica, pur consapevoli, come diceva Isaiah Berlin, che il liberalismo non è altro che un anarchismo annacquato. E con la precisazione che, secondo me, teoricamente e storicamente, il radicalismo è la linea immaginaria che conduce dal liberalismo all'anarchismo all'infinito.

Fabio Massimo Nicosia
Milano

Luigi Galleani anarchico

Ho letto con interesse e attenzione l'articolo di Nicosia, sulla figura e il pensiero di Luigi Galleani sotto il titolo “Comunista libertario”.
Cercherò di replicare esprimendo il mio modesto pensiero e punto di vista in proposito, nel modo più chiaro possibile, senza presunzioni di verità, invogliando così un prossima possibile apertura di dibattito e di scambio d'opinione fra compagni e non, su questa nostra importante figura dell'anarchismo purtroppo accantonata per troppi anni, oltre ad altre figure altresì poco dibattute come per il Ciancabilla, il Damiani ecc. anche se negli ultimi periodi si nota una riscoperta,speriamo continuativa, a tal tema.
Veniamo all'articolo, Nicosia fa ruotare la quasi totalita' del suo scritto, sulla questione economica di organizzazione sociale a venire prospettata dal Galleani, ponendosi dei dubbi, obiezioni, e interrogativi, nonostante un po' di complicità di fondo.
Nicosia ci descrive un Galleani rivoluzionario, ma allo stesso tempo riformista, dibattuto tra il comunista e il liberale, tra rivolta e gradualismo.
Ora più o meno per ordine vedrò di esporre ciò che penso e che so.
Galleani come molti sapranno, e fra questi anche Nicosia, vedeva ed auspicava dopo la rivoluzione del cambiamento radicale, la miglior via, nel comunismo libertario o anarco-comunismo, come riorganizzazione di vita sociale,ovvero la proprietà comune dei mezzi di produzione e di scambio, dove ogniuno contribuirà secondo le proprie forze e prenderà secondo i suoi bisogni.
Pensiero questo comune a Malatesta, Kropotkin, Cafiero Reclus e cosi via...
Dal collettivismo precedente i più passarono poi su posizioni comunistiche, perché si ritenne a buon ragione aggiungo, che un tale sistema sociale rispondesse meglio ai bisogni dei più deboli, comunisti antiautoritari beninteso, il solo comunismo accettabile perché libero, gran parte degli anarchici non solo in Italia, furono i primi a definirsi tali, Malatesta dopo la rivoluzione russa con i comunisti marxisti al potere, ironicamente disse, “per chiamarci noi ancora comunisti, bisogna avere del bel coraggio”.
Continuando nicosia pone dei dubbi verso il comunismo del galleani dipingendolo come liberale e individualista.
Ora, la funzionalità di una comunità libera dovrà pur essere sperimentata provata, dagli individui stessi che la compongono, e se ne daranno la forma più fattibile e desiderabile, tramite il libero comune accordo, in una nuova società dove l'imposizione autoritaria il monopolio e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo non sia che un triste lontano ricordo.
Anche lo stesso Merlino così affermava: “Sulle rovine del monopolio fonderemo un sistema di economia razionale di comunanza dei beni nelle libere associazioni dei lavoratori”.
Poi che la società sia autogestita, in modo comunistico, collettivistico, mutualistico, federalistico, in parte anche individualistico o un mix di questi chi lo puo affermare con certezza?
Per le figure sopra citate il sistema più auspicato era il comunismo, per Proudhon era il mutualismo, per Bakunin il collettivismo per il Tucker l'individualismo e il libero scambio, Berneri era federalista e mi fermo.
Ma tutti loro, anteponevano prima di questo l'azione diretta, la propaganda l'azione tutta rivolta verso il compito più arduo e necessario nel cambiamento rivoluzionario generale.
Senza dimenticarne il dopo, su tal tema vediamo l'importante studio di Kropotkin, uno fra i tanti, che Nicosia giustamente afferma l'influenza sul Galleani, ma non solo.
Più avanti il Nicosia si chiede se vi sia un legame logico tra la sua concezione rivoluzionaria e le sue idee sociali,concludendo il tutto negativamente, (a nostro avviso?) così è riportato.
Così oltre all'attesa galleanista del mezzo secolo, perché il comunismo libertario (la presa nel mucchio) fosse di attualità, nonostante tutto, però notiamo la preveggenza sua, addirittura anticipando i tempi,per quel che poi si verificò, nelle comuni machnoviste in Ukraina, 1918-19 e nella Rivoluzione Spagnola del 36, dove l'anarco-comunismo divenne realtà, seppur per breve tempo, per le cause che ben sappiamo.
Galleani non era affatto un attendista, anzi l'opposto contrario, la sua vita lo dimostra...
Le condizioni lavorative di allora erano talmente dure e pesanti, ed era anche comprensibile un certo benevolo squardo verso il supporto scientifico e tecnologico, che nel tempo avrebbe potuto alleviare le fatiche di molti, e in parte questo si è verificato, anche se in modo spesso discutibile.
Perché penso che solo quando la scienza sarà veramente libera ed autonoma dai poteri forti, solo allora si otterranno i maggiori benefici per il benessere comune, non solo per quanto riguarda la produttività.
Personalmente, sarei più propenso a scommettere per un massiccio ritorno alla terra, più che per l'industria visto le prospettive attuali, per far sì che la presa nel mucchio sia più efficace anche coll'apporto scientifico perché no.
Tutte queste aggettivazioni su galleani mi paiono forzate e con deboli fondamenta, ma per non essere cattivo, salvo seppur in modo poco sufficente, la gradualità: mi spiego; nel corso di libera sperimentazione sociale per il Malatesta c'era la possibilità di gradualità dei tempi e modi che gli individui si daranno per raggiungere determinati obiettivi liberamente voluti, e qui penso che anche il Galleani non fosse contrario, in un costante movimento verso condizioni di vita sempre più migliori.
Comunque, sempre orientati verso modelli di associazione rispettosi della libertà dell'individuo, che troverà nella libertà altrui la massima elevazione in comunità dove nessuno impone e nessuno obbedisce, questa libertà di tutti è l'individualismo anarchico, anche del Galleani, in totale disaccordo però coll'individualismo nel campo economico.
È indubbio, che ci sarà anche bisogno per la migliore riuscita dell'apporto di convizioni personali e di una certa cultura, che l'esperienza di vita dovrebbe apportare anche con i nuovi sistemi di insegnamento (scuole Libertarie-Razionaliste).
Galleani sosteneva chiaramente, “che l'anarchismo non vuol essere l'estrema tule della perfezione ma una tappa soltanto, più progredita e più umana su per l'erta dell'eterno divenire, l'anarchismo così vigoroso fervido e operante isopprimibile sarà”. Da qui l'auspicio che si ritorni o si inizi lo studio e la lettura dei suoi scritti, perché solo in essi si può capirne l'uomo e il suo pensiero, contenente ancor oggi freschezza e magari lo stimolo per qualche buon editore.
Nonostante il materiale sia non di facile reperibilità (purtroppo), non è però impossibile... Per cui buona ricerca...
Galleani è stato un lottatore coerente e infaticabile durante tutta la sua vita completamente dedicata all'ideale dell'emancipazine sociale, poco propenso a delineare società a venire ma lottando nel presente, gli venne dato dell'antiorganizzatore, che tuttora persiste, lui che era tutto propenso verso l'associazione libera degli individui e la loro organizzazione, ma decisamente contrario a quella di stampo politico,semi-partitico,con statuti e regole programmatiche, dove spesso la libera iniziativa rischia di spegnersi, e di conseguenza la volontà inividuale (altro tema importante).
Portò sempre la sua vicinanza e la propria voce, agli sfruttati, nelle agitazioni operaie prima in Italia, poi negli Stati Uniti d'America, polemista formidabile sia nei contraddittori a voce che su carta, ci ha lasciato migliaia di scritti, sulla questione operaia e il sindacalismo, la polemica antiparlamentare coi socialisti legalitari (medagliettati), sull'antimilitarismo, sull'anticapitalismo, dopo l'espulsione americana ritornato in Italia, rifinì al confino per la sua opposizione al fascismo.
Non nascose la sua vicinanza solidale a diversi compagni che praticavano, l'azione diretta, e la propaganda col fatto, egli vedeva questo fenomeno come un evento naturale che paragonava al fulmine od a meteore,ed anche qui ci ha lasciato innumerevoli racconti su compagni e resoconti processuali, come le memorie di Clement Duval e Faccia a faccia col nemico.
Termino con una citazione di Ugo Fedeli: “la vita di Galleani rimane uno specchio nel quale molti giovani e non più dovrebbero specchiarsi, le sue idee un pungolo per meglio approfondire lo studio dei problemi sociali per ricercare le forme e i mezzi migliori e più atti a formare gli uomini che dovrebbero vivere nella vita da lui pensata e propagandata, libera e feconda di lavoro”.

Vittorio Lorengo
Brescia

P.S. Riporto qui gli ultimi, libri in ordine di tempo, ancora accessibili d'acquisto.

Faccia a faccia col nemico, Galzerano Editore
Memorie autobiografiche di Clement Duval, Ediz. Kaos
Luigi Galleani, Alcuni articoli da cronaca sovversiva, Archivio Fam. Berneri-Chessa
Ugo Fedeli - Luigi Galleani Quarant'anni di lotte rivoluzionarie, Edizioni Centolibri
In ordine sparso, Edizioni Gratis.

NoMuos/Un viaggio indimenticabile

A maggio di due anni fa sono entrata a far parte del comitato di base NoMuos di Ragusa, ed è iniziato quello che io voglio paragonare a un viaggio.
Non di quelli delle agenzie con un programma pianificato e privo di stress o brutte sorprese ma più simile a quello di un gruppo di naufraghi che si trovano di fronte a una situazione nuova dove imparano a conoscersi, a fidarsi e a poter contare l'uno sull'altro.
Un viaggio dove al posto delle insidie della natura si ritrovano ad affrontare lo sfacelo delle istituzioni, la finta democrazia, la falsità dei politici, la freddezza e la brutalità delle forze dell'ordine e l'atteggiamento di passività o di derisione della gente che si trovano davanti. In questo percorso provano momenti di entusiasmo, euforia, allegria alternati a momenti di amarezza, senso di sconfitta, paura e delusione.
Nonostante ciò il gruppo continua ad andare avanti sul sentiero che reputa sia quello giusto, con orgoglio e determinazione va verso la meta convinto che ciò potrà cambiare il presente, migliorare il futuro e riscattare le brutture del passato.
Questa è la sintesi di ciò che per me è l'esperienza da attivista NoMuos, difficile ma appassionante, di arricchimento storico-culturale, politico, sociale ma anche di crescita interiore.
Comunque andrà a finire e ovunque ci ritroveremo nell'ultima tappa resterà la convinzione che si sia trattato di un viaggio fondamentale e indimenticabile.

Clara Cutraro
Ragusa

Ragusa/Disegni e parole

Venerdì 11 aprile scorso, a Ragusa, presso la Bottega dei Popoli, si è ricordato il secondo compleanno del Comitato di base NoMuos del capoluogo siciliano. Tra le numerose testimonianze che hanno arricchito l'incontro, pubblichiamo qui accanto quella di Clara Cutraro. E la accompagnamo, in queste due pagine con alcuni disegni presi dal quaderno di appunti di un'altra giovane partecipante al movimento, Francesca Dimanuele.


Bella Ciao, gli anarchici e la Resistenza

Buongiorno, riporto con copia-incolla parte di un articolo del “Fatto Quotidiano”:

Prima il divieto di cantare Bella Ciao durante la cerimonia commemorativa per il 25 aprile “per motivi di ordine pubblico”, poi la retromarcia. E' stata la giornata difficile del prefetto di Pordenone Pierfrancesco Galante che dopo ore di polemiche ha diffuso un'ultima nota che precisa che “a chiarimento delle argomentazioni emerse in sede di comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica si precisa che non vi sono motivi ostativi all'esecuzione della canzone Bella ciao”. In realtà inizialmente proprio il Cosp aveva preso la decisione per motivi di ordine pubblico legati alla possibile presenza in piazza di gruppi anarchici che, dal 2006 in poi, avevano dato vita ad azioni di disturbo delle manifestazioni ufficiali, prendendo di mira in particolare esponenti dell'amministrazione provinciale. La famosa canzone della Resistenza sarà, quindi, eseguita dalla Banda unicamente durante il corteo cittadino.

Vengo al dunque; a parte la cazzata di proibire una canzone (per ordine pubblico) durante una manifestazione, la cosa che mi ha maggiormente colpito è stata la giustificazione, cioè il fatto che a dare vita ad azioni di disturbo siano dei gruppi anarchici.
A parte la canzone, non ho mai saputo che gli anarchici fossero contrari alla resistenza. Potete darmi delucidazioni in merito?

Angelo Manzoni

Gli anarchici non sono e non possono essere contro la Resistenza, visto che vi hanno partecipato fin dall'inizio. Come abbiamo contribuito a ricordare sul penultimo numero di “A” (388 - aprile 2014) pubblicando un lungo dossier proprio su “gli anarchici contro il fascismo”.


Dormono

Dormono
tra una veglia e l'altra.

Dormono poco
perché vegliare è necessario al vivere
ed incerto è il passo
di quelli che s'aspettano la resa.

Dormono
ma il corpo percepisce
la vibrazione sorda
della paura e della tracotanza.

Dormono
sognando braccia tenere 
e non spari e comandi
ed un sorriso modifica la bocca
quasi fossero ancora
bambini da svezzare.

Dormono
sulla terra prima che sia sottratta
e li unisce il respiro della vita
fin che vita sarà...

Non li ho invitati – non li conoscevo –
ma sono qua seduti alla mia tavola.

A volte scoppia un riso
che pare una granata
ed è senso fraterno in vita e in morte.

Vengono dal novecento,
dalle scalze utopie,
dalle scelte pagate fino in fondo.

Bevono grappa e fumano
tabacco amaro e scuro – ombre soltanto
a ricordare ai vivi
il senso dell'umana appartenenza.

Gianni Milano
Torino




I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Massimiliano Paccagnella (Torino) 100,00; Libreria San Benedetto (Genova Sestri Ponente) 13,40; Albino Trucano (Borgiallo – To) 10,00; Davide Schifano (Caltanissetta) 50,00; Domenico Bevacqua (Leinì – To) 50,00; Davide Foschi (Gambettola – Fc) 10,00; Gelateria Popolare (Torino) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Umberto Marzocchi e Alfonso Failla, 500,00; Giancarlo Nocini (San Giovanni Valdarno – Ar) 10,00; Roberto Palladini (Nettuno – Rm) 20,00; Paolo Guaitani (San Giuliano Milanese – Mi) 10,00; Edo Bodio (Condino – Tn) 10,00.; Daniele Romagnoli (Sant'Olcese – Ge) 4,00; Natale Musarra (Piano Tavola – Ct) 40,00; Amalia Cinzia Cislaghi (Robecco sul Naviglio – Mi) 40,00; Andrea Zen, 20,00; Daniele Romagnoli (Genova) 6,00; Davide Turcato (Vancouver – Canada) 100,00; Diego Giachetti (Torino) 40,00; Società dei Libertari (Ragusa) 220,00; Francesco Pavia (Torino) 10,00; Diego Razzitti (Angolo Terme – Bs) 15,00; Unicobas (Roma) 50,00; Gianfranco Manfredi (Gordona – So) 100,00; Gianni Ricchini (Verbania) 10,00; Leonardo Muggeo (Canosa di Puglia – Bt) 10,00; Laura Villa (sc Helmond – Olanda) 20,00; Salvatore Circolo (Marino – Ro) 10,00. Totale € 1.498,40.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Margherita e Giulio Canziani (Castano Primo – Va); Alberto Carassale (La Spezia); Beppe Chierici (Todi – Pg); Enzo Boeri (Vignate – Mi) 200,00 Donata Martegani (Milano); Enrico Maltini (Milano); Franco Vite (Monticello Amiata – Gr); Enrico Camenzind (Pontassieve – Fi); Daniele Andreoli (Pisa); Fabio Zanavella (Verona); Sergio Santoni (Monte San Vito – An); Maurizio Frongia (Busachi – Or); Enrico Calandri (Roma); Lorenzo Brivio (Besana Brianza – Mb); Gruppo CAOS - Centro A Ordine Sparso (Genova). Totale 1.600,00.