Rivista Anarchica Online


istituzioni totali

Il nuovo volto della carcerazione

di Laura Gargiulo


I muri di recinzione, le sbarre e i secondini sono rimasti. Eppure il carcere sta cambiando, adattandosi ai nuovi contesti sociali
e rispondendo a una funzione meticolosa di controllo dell'individuo dentro e fuori le sue mura.


I muri abbattuti diventano ponti
Angela Davis

Le ultime proteste nelle carceri e le nuove strategie di controllo messe in campo negli ultimi anni dallo Stato ci impongono la necessità di riflettere sul nuovo riassetto carcerario, per un'azione più efficace contro il simbolo della coercizione statale che ancora oggi ingoia uomini e donne.
Per capire la ristrutturazione in atto del carcere guarderemo ai documenti prodotti in ambito internazionale e alle circolari del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) soffermandoci su tre aspetti che ci sembrano caratteristici del carcere che verrà. O meglio che è già in corso d'opera sotto i nostri occhi.

NATO 2020

Di carceri, e della necessità di un nuovo apparato repressivo, se ne parla in modo puntuale in un documento fondamentale per capire la politica di controllo sociale che gli Stati stanno mettendo in campo. Il rapporto Nato Urban operations in the year 2020, pubblicato nell'aprile 2003, è il frutto di un gruppo di esperti appartenenti a sette Stati (Italia, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda e Stati Uniti) che a partire dal 1999 analizzano i futuri scenari internazionali; l'obiettivo è quello di delineare una politica di controllo e gestione della conflittualità che la crisi mondiale porterà a con sé a partire dalla metà del 2000, per raggiungere la fase più acuta nel 2020 (sul blog sidealibera è scaricabile il dossier “Nato 2020. un mondo a misura di banchiere”, il documento originale si può leggere al link http://www.dtic.mil). Secondo l'analisi, durante questi anni si creerà una situazione di povertà diffusa e concentrata negli agglomerati urbani, la quale porterà gli Stati occidentali a doversi confrontare con una nuova minaccia, i cosidetti informali, ossia una massa di individui senza sbocchi occupazionali e in aperta rottura con partiti e sindacati che rischierà di far esplodere la propria rabbia in rivolte spontanee; il nuovo nemico degli Stati, dunque, sarà interno ai propri confini e difficile da gestire a causa della profonda disillusione nei confronti delle istituzioni e dei tradizionali canali di mediazione.
Davanti a questo scenario, Nato 2020 propone un articolato approccio di controllo e repressione sociale con l'obiettivo di prevenire le rivolte ed evitare soprattutto il contagio tra i paesi. La strategia proposta si basa su cinque criteri tesi a rendere efficace un'azione di controllo in contesto urbano, facendo leva sulla conoscenza dettagliata del territorio e delle genti che vi abitano per individuare i potenziali nemici, il controllo dello spazio fisico per ottimizzare (in caso di intervento) la mobilità dei militari, la presenza dei militari in funzione anche umanitaria per un migliore radicamento nell'immaginario civile. In questa sede ciò che ci interessa approfondire sono gli ultimi due criteri individuati dal documento Nato perché è qui che il carcere svolge il suo ruolo da protagonista.
Il 4° criterio è denominato Consolidamento e riguarda la gestione del conflitto sociale nel momento in cui esso esplode; diventa fondamentale un'azione di “disarticolazione del nemico” in modo da “frantumare la coesione e la volontà di combattere” al fine di evitare l'insorgere di nuovi conflitti; gli strumenti individuati sono quelli della collaborazione con le autorità locali, del mobbing up (ossia l'epurazione dei nemici) e infine il trattamento dei prigionieri relegati nelle nuove carceri. Tenete a mente queste ultime parole, “nuove carceri”, perché sarà utile per capire la recente edilizia penitenziaria all'interno dello Stato Italiano.
Il 5° ed ultimo criterio, denominato Transizione, rappresenta la tappa finale, il cossi detto “the rule of law” ossia il ristabilimento della legge; una sorta di quiete dopo la tempesta (dal punto di vista degli Stati) tesa a ricostituire sul territorio la presenza delle autorità con il fine di garantire un nuovo periodo di pacificazione sociale basato anche su un controllo diffuso, ma di non minor impatto, grazie ai nuovi strumenti di sorveglianza. All'interno di quest'ultima fase, si riaffaccia la necessità di “mettere al margine gli elementi riottosi”, in modo particolare quei rivoltosi che hanno portato avanti un'azione di rottura con lo Stato e di innesco di tensioni e conflitti. Le nuove carceri, dunque, manterranno la funzione storica di isolamento e punizione, accentuando due aspetti: isolare in modo fisico le cosidette “realtà insorgenti” che hanno svolto o possono svolgere una funzione di catalizzazione della rivolta e fungere da deterrente per il resto della società, affinché il contagio della protesta non si diffonda e sia facilmente riconducibile all'ordine stabilito.
In quest'ottica, il documento suggerisce agli Stati di dotarsi di nuove carceri che favoriscano l'isolamento dei detenuti e siano maggiormente aggiornate sul piano del controllo e dell'annichilimento dell'individuo.

Dal contesto internazionale all'applicazione nello stato italiano

Sarà che siamo un po' prevenuti, ma la direttiva indicata in Nato 2020 sembra essere stata presa sul serio dallo stato italiano perché a partire dal 2009 due importanti azioni vengono intraprese sul fronte galere: a gennaio il Consiglio dei Ministri vara il Piano Straordinario Carceri con cui si realizzano otto nuove carceri (quattro in Sardegna e le restanti a Forlì, Rovigo, Savona e Reggio Calabria). Il Piano dovrebbe rispondere all'“inadeguatezza strutturale del sistema carcerario italiano” e al problema del sovraffollamento che, al di là della ciance umanitarie di cui si rivestono i discorsi, rappresenta per lo Stato la causa di salate penali da pagare all'Europa.
Non ci soffermeremo nel dettaglio sul Piano Carceri poiché già in un precedente numero di “A” ci eravamo occupati delle procedure di costruzione e in modo particolare delle quattro nuove carceri in Sardegna che mostravano un altrettanto inquietante coincidenza: tre delle quattro ditte a cui viene affidata la costruzione delle carceri sarde (Opere Pubbliche spa per il carcere di Uta a Cagliari, Anemone srl per quello di Bancali a Sassari e Gia.fi Costruzione Spa per quello di Tempio Pausania) sono le stesse che si sono aggiudicate gli appalti per la costruzione delle strutture del G8 che si sarebbe dovuto tenere al La Maddalena (poi dirottato all'Aquila). Questo sempre perché siamo un po' prevenuti... Ciò che tuttavia al momento ci interessa, non è tanto l'aspetto “affaristico” (che mostra comunque l'importanza strategica delle carceri anche in termini di rapporti tra lobbies e opportunità di magnozia per il Capitale) quanto la necessità per lo Stato di riattualizzare il proprio sistema coercitivo costruendo otto nuove carceri con sezioni di massima sicurezza, quattro delle quali situate in una zona insulare.
L'importanza dell'isolamento viene riaffermata nella seconda azione intrapresa dallo Stato nel nuovo riassetto carcerario: in aprile esce una circolare del DAP1 (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) con la quale si stabilisce che “i detenuti sottoposti al regime carcerario speciale devono essere ristretti all'interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all'interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell'istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria”. In poche parole si abolisce il circuito ad Elevato Indice di Sorveglianza (EIV) e si introduce il circuito Alta Sicurezza (AS) a sua volta suddiviso in tre circuiti: AS1 per i condannati per reati di mafia, AS2 per i reati di terrorismo o sovversione all'ordine democratico, AS3 per i prigionieri del vecchio EIV.
La circolare mette in luce due aspetti per noi di interesse, soprattutto per capire l'importanza che il circuito AS ha nei confronti dei detenuti per reati politici: la circolare sottolinea la necessità “al fine di assicurare al meglio l'osservazione scientifica della personalità ed il trattamento individualizzato” e “allo scopo di evitare influenze nocive reciproche” della separazione fisica e totale dei detenuti comuni dai detenuti assegnati ai circuiti AS; secondo aspetto, l'assegnazione al circuito AS viene realizzato secondo “i profili di omogeneità dei detenuti... relativi, più che alla pericolosità individuale, all'appartenenza degli stessi ad un'organizzazione.” Per questo si prevede il raggruppamento dei   detenuti per appartenenza ideologica: comunisti con comunisti, anarchici con anarchici ecc...
Se abbiamo tenuto a mente le indicazioni che Nato 2020 ci forniva, con la costruzione di nuove carceri e la necessità di scongiurare una generalizzazione del conflitto anche attraverso l'isolamento degli elementi riottosi con una maggiore coscienza politica, ecco che anche il riassetto interno con i circuiti AS si inserisce all'interno di questo vasto puzzle. L'isolamento fisico del detenuto politico dal resto dei detenuti e dal suo contesto sociale di riferimento risponde dunque a tre obiettivi precisi:
- Annullare l'identità del detenuto per spezzarne la resistenze attraverso una carcerazione sistematica basata sull'isolamento totale e l'allontanamento dal contesto di riferimento;
- Evitare possibili contatti e dialoghi tra aree ideologiche diverse: raccogliere i detenuti per appartenenze significa chiudere il dibattito entro un circolo ideologicamente omogeneo che porta con sé stagnazione e aridità del dibattito;
-Evitare che i detenuti comuni costruiscano una maggiore coscienza politica e sociale nel contatto con detenuti politicizzati, al fine di prevenire rivolte e disagi dentro e fuori nel mura.

Il controllo trasversale

C'è un altro aspetto importante che sta caratterizzando la nuova gestione delle carceri: in termini sbirreschi la chiameremo “gestione delegata dei servizi ausiliari”, in parole povere si tratta di delegare alcuni dei servizi di funzionamento del carcere a soggetti privati. Una spiegazione assai chiara di questa tendenza in atto è espressa nel documento dell'Amministrazione penitenziaria2 (provveditorato regionale del Piemonte e Valle d'Aosta) sulla visita nelle carceri francesi di alcuni architetti e dirigenti di galere per studiare il modello della gestione delegata dei servizi ausiliari: “carceri che, pur sotto il controllo degli operatori pubblici penitenziari, vedono impegnati al proprio interno, nell'assicurare i servizi essenziali di funzionamento delle strutture, alcune organizzazioni imprenditoriali private, specializzate nella prestazione di servizi ausiliari nelle carceri e negli altri luoghi ove siano presenti comunità quali scuole,ospedali, caserme, etc. (...)
La Francia, infatti, già da alcuni anni ha individuato  come soluzione utile il coinvolgimento di  soggetti privati, i quali non ingeriscono nella funzione di controllo, che rimane saldamente in  mano al personale interno, ma assicurano l'efficienza delle strutture carcerarie.
L'ingresso del privato nel mondo penitenziario risponde a diverse esigenze, come quella di evitare le sanzioni internazionali e ammantarsi di una veste più rispettosa di diritti, sdoganando l'immagine di una gestione di stampo poliziesco, ma soprattutto risponde alla necessità ben chiarita nel documento: la funzione di controllo vera e propria rimarrà nelle mani dei secondini e delle figure in organico al carcere, le quali potranno così “dedicarsi” in modo totale all'ordine e alla repressione, mentre il privato si occuperà di quei servizi più prettamente legati alla gestione amministrativa, dal vitto, ai trasporti, fino alla gestione della merce.
Come sottolinea il documento stesso, ci troviamo davanti a una “ben diversa soluzione data da altri Stati che, invece, hanno esclusivamente privatizzato le carceri, rischiando di emarginarne la funzione pubblica”. Non è quindi il modello statunitense che viene prediletto ma “la bontà della soluzione francese” perché quest'ultima ha saputo garantire la funzione repressiva dello Stato, aprendo al privato nella gestione amministrativa. Il privato, quindi, entra in carcere non solo nelle vesti di costruttore dell'edilizia penitenziaria, ma anche come ditta dedicata alle mansioni interne e come azienda che userà la mano d'opera dei detenuti in misura alternativa per la realizzazione dei proprio prodotti. Una perfetta fusione di Stato e Capitale che si spartiscono in modo più produttivo il grande business penitenziario. “D'altronde se ci sono riusciti i nostri cugini francesi, perché non dovremmo riuscirci noi?”, così se lo chiedono gli stessi carcerieri.
Rispetto a questa delega di servizi, accenniamo a un altro aspetto che si riallaccerà con il paragrafo successivo dedicato alla funzione della psichiatria in carcere: l'integrazione di servizi non si limita solo al privato, ma si apre al ruolo integrato di servizi pubblici quali quello psichiatrico. All'interno di questa nuova frontiera si inserisce la proposta della Società italiana di psichiatria che interviene sulla questione delle carceri “garantendo la disponibilità degli esperti del settore a dare una mano per migliorare la situazione del sistema penitenziario”: la psichiatria, quindi, si candida a voler diventare un importante interlocutore con il carcere, non solo in relazione alla possibile chiusura degli OPG, ma in un'azione integrata che porterebbe a gestire in modo trasversale dentro e fuori “l'osservazione scientifica della personalità dei ristretti e il relativo trattamento”.

Il controllo oltre le sbarre

L'isolamento degli elementi più riottosi, le punizioni, le condizioni disumane non bastano a rendere il detenuto un docile e mansueto agnellino pronto ad accettare passivamente, dietro e fuori le sbarre, il sistema coercitivo statale. Ci vuole qualcosa di più forte, qualcosa di fortemente invadente nella personalità dell'individuo, capace di rendere gestibile il detenuto in regime carcerario, ma anche abbastanza rincoglionito quando varcherà i muri della prigione. Lo possiamo definire un contenimento chimico, o meglio una sedazione istituzionale, ciò che avviene attraverso l'uso e abuso di psicofarmaci nelle galere. La stessa Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp) afferma che oltre il 40% dei detenuti in attesa di giudizio (circa 12mila) e oltre il 10% dei detenuti nelle case di reclusione (circa 4mila) sarebbe oggetto di una vasta somministrazione di psicofarmaci; se nella percentuale indicata includiamo anche i cosiddetti ipnotici o gli antidepressivi come il larox si arriva anche a cifre dell'80%. “Abbiamo tenuto conto solo di quei farmaci che sono di uso meno comune, ma quasi tutti i detenuti fanno uso di psicofarmaci per dormire tranquilli. I sedicimila soggetti che abbiamo indicato sono solo una parte, se avessimo dovuto indicare tutti i detenuti che fanno uso di psicofarmaci arriveremo a cifre assurde tipo 30 mila detenuti 35 mila detenuti”, aggiunge in una nota il segretario generale Leon Beneduci dell'Osapp. Le sostanze assunte vanno dagli antipsicotici agli ipnotici, dagli antidepressivi agli oppiacei, dalle benzodiazepine agli stabilizzatori dell'umore. Per capire l'impatto di questi sedativi anche una volta finito di scontare la pena, basti pensare che un solo anno di carcere a base di benzodiazepine assicura una serie di “effetti indesiderati” a distanza di anni dallo loro assunzione: riduzione dell'attenzione (tale da rendere pericolosa la guida), confusione ed affaticamento, cefalea, vertigini e debolezza muscolare, visione doppia, disturbi gastrointestinali ed epatici, cambiamenti nella libido fino all' impotenza sessuale, amnesia, irrequietezza, ottundimento delle emozioni, allucinazioni e addirittura tendenze suicide. Inoltre questi farmaci sviluppano una dipendenza fisica, e la sospensione della terapia può provocare fenomeni di rimbalzo e di astinenza. Il carcere ha così restituito alla società un perfetto cittadino modello. La funzione rieducativa è stata assolta. Amen.
L'uso degli psicofarmaci in carcere, tuttavia, oltre ai numeri e agli effetti, porta alla luce due aspetti su cui è necessario riflettere per capire come esso sia una pratica che, sperimentata dentro e fuori le sbarre, rappresenta un efficace strumento di controllo sociale. Il primo aspetto riguarda il funzionamento della psichiatria in carcere basato sul modello operativo della consulenza: in poche parole gli psichiatri che lavorano nel carcere sono convenzionati come medici specialisti, prima con l'amministrazione penitenziaria, dal 2008 con il servizio sanitario nazionale. Ogni qualvolta viene fatta una segnalazione dal personale del carcere di un comportamento giudicato pericoloso, si richiede un intervento specialistico che si traduce con l'attivazione dello “psichiatra specialista” che limita il suo intervento medico alla somministrazione di farmaci. La psichiatria, quindi, diventa un supporto farmacologico al contenimento, assume “il mandato contenitivo che le viene affidato dal carcere, evitando accuratamente di connettere il disturbo mentale o la sofferenza psichica con la condizione di vita in cui il prigioniero è immerso”. Il carcere richiede contenimento, la psichiatria risponde. Di fatto, le pratiche proprie del manicomio sono state trasferite nell'istituto penitenziario, segnando una vera e propria integrazione tra le due strutture e dando vita a una medicalizzazione della pena. Il controllo e la ridefinizione dell'identità dell'individuo avviene attraverso la psichiatrizzazione del modello disciplinare che, oltre a manganello e punizioni, si avvale di uno strumento che offre una nuova e importante opportunità: controllare il soggetto anche fuori dal carcere, renderlo dipendente dall'assunzione di psicofarmaci e segnare per gli anni a venire la sua autonomia. Non potremo più parlare di “liberi” per i detenuti che escono dal carcere, ma solo di “semiliberi” perché una parte della propria libertà sarà legata a doppio filo con il trattamento farmacologico ricevuto in carcere (...)

Il carcere (non)pacificato

“È nostra intenzione far sentire la nostra voce e protestare contro la situazione esplosiva delle carceri, la quale vede un sovraffollamento intollerabile con detenuti ammassati in celle lager, in condizioni igieniche e strutturali al limite dell'indecenza, speculazioni sui prezzi della merce, sfruttamento vero e proprio nei confronti dei cosiddetti lavoranti, trattamenti inumani di ogni sorta, abusi di qualsiasi genere e troppo, troppo altro ancora. Non possiamo inoltre esimerci dal protestare contro tutte quelle forme di tortura legalizzata in cui versano gli internati nei regimi di 41bis, 14bis e Alta Sorveglianza, che vengono quotidianamente uccisi, psicologicamente e fisicamente. Chiediamo quindi l'abolizione di questi strumenti degli della peggior dittatura e l'abolizione della legge Cirielli”. Sono queste alcune delle motivazioni che il Coordinamento del detenuti (nato in modo spontaneo alla vigilia della manifestazione di Parma del 25 maggio 2013) fa emergere in un documento che nell'estate dell'anno appena passato ha segnato l'inizio di una lunga serie di forme di protesta dentro e fuori le carceri. Dallo sciopero della fame e del carrello, alla battitura fino alla raccolta firme, come nel carcere di Buoncammino a Cagliari dove 134 detenuti hanno sottoscritto un documento collettivo in cui, oltre a denunciare le condizioni di tortura quotidiana, si annunciava lo sciopero dell'aria (dopo quello del vitto) e l'unione con le proteste in corso in tutte le altre galere. È questo sicuramente il fatto più importante che fa emergere come, nonostante la strategia di isolamento e annientamento dell'individuo in opera, il carcere sia ancora terra calda di lotte e desiderio di opporsi in modo collettivo al silenzio imposto. Le mobilitazioni dello scorso anno hanno segnato sicuramente un momento importante e hanno ancora una volta sottolineato la necessità di continuare sul territorio una pratica attiva non solo di solidarietà ai detenuti ma soprattutto di lotta contro quegli strumenti repressivi che abbiamo visto lo Stato sta meticolosamente affinando. Ecco perché diventa fondamentale capire quale sia la direzione che il sistema repressivo ha intrapreso affinché in direzione ostinata e contraria si pongano le lotte contro il carcere, tenendo conto della necessità imprescindibile di fare della lotta al carcere una lotta di coinvolgimento di tutto il sociale, poiché il confine tra controllo dentro e fuori le sbarre è ormai superato.
Il nuovo appello, quindi, lanciato dal Coordinamento dei detenuti per proseguire con una nuova mobilitazione a partire da aprile 2014 è un'altra tappa fondamentale: dal 5 al 20 di aprile dovrebbero iniziare – per quanto ne sappiamo al momento in cui questo articolo viene scritto – gli scioperi della fame, le battiture, il rifiuto del vitto e altre forme di lotta autodeterminate con il fine di continuare il percorso intrapreso a partire dalla coscienza che “riporre speranze nei confronti di chi questo sistema lo ha creato e sostenuto non serve a nulla così come lamentarsi o lagnarsi... noi e solo noi possiamo spezzare queste catene e per farlo dobbiamo iniziare dall'interno consapevoli che la lotta ci rende liberi” (dalla lettera del Coordinamento dei detenuti pubblicato sull'opuscolo Olga n°87).

Laura Gargiulo

Note

  1. La circolare 3619/6069 del 21 Aprile 2009, Ministero della Giustizia, Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria è consultabile al link http://www.ristretti.it/commenti/2009/maggio/pdf16/circolare_alta_sicurezza.pdf
  2. Il documento è consultabili al link http://www.ristretti.it/commenti/2013/ottobre/pdf/comunicato_dap.pdf.