Rivista Anarchica Online


violenza di genere

Al centro,
i centri

di Francesca Cuccarese e di Milena Scioscia


Sono i centri antiviolenza: sessantasei in tutta Italia.
Due operatrici di centri attivi in Toscana, rispettivamente a Prato e San Miniato, ne raccontano il contesto culturale e sociale,
spiegandone le modalità di funzionamento e gli strumenti di intervento.

Zapatos Rojos (Scarpe rosse), progetto d'arte pubblica
contro la violenza sulle donne dell'artista Elina Chauvet

Donne che sostengono donne

La pratica della differenza per il contrasto della violenza di genere nella concreta esperienza dei centri antiviolenza.


La cultura di genere come antidoto

Quotidianamente si tenta di negare, eludere, far scomparire quanto di più universale e trasversale esista nella relazione tra donne e uomini: la differenza di genere e di conseguenza la violenza di genere.
La violenza di genere è un fenomeno trasversale. Le vittime, così come gli autori, sono di tutte le età e di tutte le professioni, e gran parte della violenza avviene in famiglia, per mano di un partner o marito, spesso dinanzi ai figli.
È un errore pensare che la violenza alle donne si verifichi solo in ambienti in cui ci sia qualche disagio sociale, o povertà culturale. Nessuna società o cultura ne è immune.
La violenza colpisce le donne in ogni parte del mondo, nella sfera pubblica come in quella privata, in tempo di pace o durante i conflitti. Esiste una dimensione sociale della violenza alle donne perché essa attiene a profonde motivazioni culturali e ai modelli di relazione tra generi: la violenza altro non è che un modo per riappropriarsi di un ruolo gerarchicamente dominante, a cui sono da sempre stati concessi privilegi. Un modo per riappropriarsi di un potere.
Con il termine contrasto alla violenza di genere intendiamo un universo di attività che nel loro complesso sono impegnate a condurre chi ha subito violenza verso la riscoperta della propria identità, del proprio valore, delle proprie competenze, per ritrovare così il desiderio di un nuovo progetto di vita.
Nei centri antiviolenza vengono accolte e, se necessario – e possibile – ospitate donne di ogni paese, cultura e religione. Il capitale principale è costituito dalla motivazione, dalla competenza e dall'esperienza delle operatrici e ricercatrici, i cui migliori investimenti sono i programmi di libertà che mettono in atto.
I centri antiviolenza non sono pensati in chiave assistenzialistica, nella convinzione che le forme dell'assistenza lascino i problemi così come sono, senza modificarne alcun aspetto, tanto da farli resuscitare nel momento stesso in cui l'aiuto cessa. Il sostegno dei centri tende invece a restituire nelle mani della donna, accolta o ospite, la sua stessa vita, ma arricchita dall'esperienza che l'ha condotta verso la conquista dell'autonomia, fattore indispensabile per proiettarsi verso un futuro scelto e non imposto con il sopruso. Una donna libera di scegliere, forte nella sua identità, capace di una analisi critica delle relazioni, consapevole delle sue competenze, è una donna preziosa per l'intera società.1
Nelle associazioni di genere e nelle case delle donne si riversa tutta l'attualità difficile in materia di genere e sessualità; questi luoghi sono infatti come degli oblò attraverso i quali si scorgono le relazioni dispari fra i sessi, ma anche i disagi sociali e i traumi dei più piccoli.
Qui dentro entrano tutte le forme della violenza sociale e culturale, realtà dolorose come lo stupro perpetuato dal genitore o da un parente, il rischio di morte per aggressione da parte della persona amata, la negazione dei più elementari diritti umani, il malessere e il dolore dei minori. Il nucleo di ogni intervento che si attua nei centri antiviolenza è costituito dalla capacità di ascoltare la donna e dalla disponibilità a sostenerla. La maggior parte delle donne che si rivolgono a uno sportello o centro antiviolenza per rompere il silenzio e chiedere aiuto mostrano sorpresa e sollievo nella scoperta, finalmente, semplicemente, di essere credute.
Talvolta uscire dalla violenza può essere particolarmente difficoltoso; ci sono infatti dei fattori che portano la donna a non riuscire ad uscirne, o a ricaderne vittima. Per fattori situazionali intendiamo quelli che inducono la donna a rimanere o a tornare dal partner violento; le donne maltrattate sono infatti nella maggior parte dei casi dipendenti economicamente, terrorizzate rispetto a ripercussioni fisiche e psicologiche, vittime di stalking, impaurite dalla perdita dell'affidamento dei figli, prive di informazioni, carenti di relazioni parentali ed amicali che le facciano sentire accettate e comprese, spaventate di fronte all'ignoto, prive di un posto dove potersi rifugiare e dove sentirsi accolte.

Questione di sopravvivenza

I fattori emozionali sono quelli che condizionano la donna rendendo difficoltoso il percorso di fuoriuscita dalla violenza: l'insicurezza, la paura di non farcela, il crollo del progetto di vita costruito con il compagno violento e i sentimenti di lealtà verso di lui (lo devo capire), il desiderio di aiutarlo a cambiare, i sensi di colpa nei confronti dei figli e/o della famiglia d'origine per averne disatteso le aspettative, i sentimenti di amore e di speranza che le cose cambino, la bassa autostima indotta dalle umiliazioni subite, il senso di impotenza e di esaurimento.
Influiscono poi le credenze personali, fattori che condizionano la donna nelle proprie scelte: idealizzazione della famiglia, forte senso religioso e/o forte credo nel vincolo del matrimonio, e altre false credenze indotte dal contesto sociale (i bambini hanno bisogno di un padre anche se violento, la salvezza della famiglia dipende da me).
La donna vittima di violenza tende a proteggere il violento e cerca di giustificare il suo comportamento, rifiuta di collaborare per proteggersi dal dover prendere consapevolezza, esprime rabbia ed aggressività verso le forze dell'ordine e i servizi sociali se cercano di aiutarla, si assume la responsabilità della violenza del partner.
La motivazione, nella maggioranza dei casi, è la sopravvivenza personale.
Per questa ragione, uno dei punti cardine della metodologia d'accoglienza dei centri è quello per cui deve essere la donna stessa a doversi rivolgere alla struttura: parenti, amici, istituzioni non possono sostituirsi a lei, poiché il primo passo per allontanarsi da un uomo violento è avere la consapevolezza di essere vittima di violenza. È da qui che nasce la propria, personale determinazione e volontà di fuoriuscita.

La pratica della relazione

Nella maggioranza dei casi il primo contatto è telefonico: la donna chiama il centro antiviolenza per chiedere aiuto, spesso dopo un episodio o una serie di episodi particolarmente violenti, e fissa un appuntamento con la struttura. Anche in questo caso la volontà di scelta viene messa alla prova, fissando la data dell'appuntamento a qualche giorno dopo la telefonata (tranne in casi di emergenza) e non richiamando la donna in caso non si presenti. Può sembrare un metodo incoerente con la gravità e il pericolo che il fenomeno della violenza porta in sé, ma il know-how delle operatrici dei centri nasce dall'esperienza quotidiana con le donne vittime di maltrattamento, e trova conferma e riconoscimento in studi di livello internazionale. Nelle situazioni di vero e proprio pericolo di vita, la donna viene invece ospitata nel centro per un periodo di tre mesi. Durante il primo colloquio la donna esterna dubbi, paure e riceve tutte le informazioni necessarie a comprendere quali siano i propri diritti e le possibilità pratiche per uscire dalla condizione che sta vivendo. La donna elabora così un primo progetto di uscita dalla violenza, costituito da varie tappe, ciascuna delle quali caratterizzata da obiettivi specifici: richiesta di separazione, stesura di denunce-querele, consulenze specialistiche. Il percorso legale viene accompagnato dal percorso di elaborazione del proprio vissuto attraverso una serie di colloqui strutturati con le operatrici. Le operatrici dei centri, adeguatamente formate, conoscono bene le dinamiche della violenza.
La metodologia che attuano durante i colloqui con le donne è finalizzata a ripercorrerne le tappe con la donna, ad accogliere il suo racconto personale senza apporre alcun segnale di giudizio, spogliandosi dei pregiudizi, delle aspettative e dei desideri salvifici, per mettersi in una posizione di ascolto sincero. Il percorso di fuoriuscita dalla violenza di cui le operatrici si fanno guida, attraverso i colloqui e le attività con le donne, è teso ad accogliere la donna nella sua interezza, rendendola consapevole delle proprie debolezze, dei punti di forza e di criticità, delle ansie personali e delle proprie motivazioni e attitudini. Gli anni di maltrattamenti perpetrati da parte del partner minano profondamente l'autostima della donna, che arriva a credere di essere la responsabile della situazione in cui si trova, di non essere una brava madre, una brava moglie, di essere brutta e stupida, di essere un'incapace. Non sono capace a fare niente, da sola non ce la farò mai, era meglio se morivo, queste sono le parole che spesso ascoltano le operatrici durante i colloqui.
La formazione di genere e l'esperienza permettono alle operatrici di ascoltare, ricordare, guidare e valorizzare, non consentendo a intrusioni esterne, rappresentate da pregiudizi e stereotipi, di inficiare i momenti di condivisione. I colloqui non hanno il solo scopo di accogliere il dolore, ma di ricostruire l'autostima della donna, attraverso la lettura della sua storia in un'ottica di genere, che colloca cioè la violenza in una dimensione culturale e come tale ne riconosce il fenomeno. La donna ripercorre a ritroso la sua vita, fino a prima dell'incontro con l'uomo violento; si riscopre, si riconosce, ritrova la sua forza, che la violenza ha l'obiettivo di annullare e sottomettere. Si tratta di riprendere in mano le redini della propria vita, uscire dallo stato di vittima e ricominciare a decidere per sé, senza paura.
Riconoscere la propria storia come simile a quella delle altre donne vittime di violenza di genere è un momento fondamentale per la presa di consapevolezza della sua origine culturale: la donna si spoglia del senso di colpa e di inadeguatezza personale e si identifica come parte di genere.
L'intero cammino è segnato dalla scelta costante di riconoscere la donna come una sopravvissuta alla violenza, una forza viva a cui si deve dare la possibilità di essere sostenuta affinché possa liberarsi dal senso di colpa e ritrovare un senso di sé. Aiutare le donne a ritrovare il senso di sé e far rinascere in loro il desiderio di progettualità è il risultato finale a cui tende il lavoro dei centri antiviolenza. Un simile obiettivo non può che avere come strumento privilegiato quello della comunicazione profonda ed empatica generata dalla pratica della relazione femminista. Perché solo in questo modo possono essere scorti i bisogni e le risorse reali di ogni donna, in quanto donna. Taluni sono turbati nell'immaginare quest'attività come dolorosa. È invece una straordinaria avventura collettiva di donne che si incontrano su un desiderio comune: conquistare per sé e per le altre una liberazione mai raggiunta, ma tenacemente perseguita. Per mezzo di una solidarietà profonda, i centri trovano nella politica delle donne le fondamenta del fare e dell'elaborare.
Attraverso la pratica della relazione con le operatrici specializzate, basata sull'affidamento e la disparità, gli strumenti principe esercitati dal femminismo della differenza attraverso l'autocoscienza, la dignità della donna, ascoltata, creduta e accolta, lentamente riemerge, permettendole nuovamente di ritrovare il piacere delle cose della vita.

La spirale della violenza

Il vissuto personale di ciascuna donna vittima di maltrattamento in famiglia viene ripercorso nei centri attraverso i passaggi descritti dalla spirale della violenza. Da quanto emerge da numerose indagini2, la violenza domestica presenta delle peculiarità comuni, caratterizzate da alcuni meccanismi che si susseguono e si ripetono ciclicamente in maniera sempre più grave, fino ad intrappolare la vittima in una spirale, “immobilizzata come in una tela di ragno, tenuta a disposizione, psicologicamente incatenata, anestetizzata”3. L'uomo che perpetra tali maltrattamenti annienta gradualmente la sua preda fino a renderla incapace di reagire, senza mai ammettere siano modalità di potere e di controllo, giustificandone anzi le condotte come manifestazioni di eccessiva gelosia e affetto esasperato. La matrice culturale del fenomeno della violenza impedisce a sua volta alla donna di riconoscerli come tali, poiché i messaggi introiettati fanno rientrare nella normalità culturale certi comportamenti maschili.
Durante il percorso di fuoriuscita dalla violenza, la donna viene sottoposta al modello della spirale, ripreso dal modello Duluth, Minnesota, della Power and Control Wheel (La ruota del potere e del controllo, 1993); il vantaggio è la portata globale di questo modello poiché, fermo restando le differenze culturali esistenti in ogni paese e quelle che possono essere le caratteristiche particolari di una realtà rispetto a un'altra, la modalità con cui viene agita la violenza all'interno di una coppia segue una strategia, un modello appunto, riscontrabile nella maggioranza dei casi.4
In genere non ha inizio con maltrattamenti di tipo fisico, bensì di tipo emotivo psicologico, attraverso azioni subdole e meno evidenti. La prima tappa della “spirale” consiste nelle intimidazioni che avvengono attraverso la coercizione, minacce atte a spingere la donna a comportarsi come l'uomo vuole (se esci vuol dire che non ti manco, che non mi vuoi bene... se fai questo mi arrabbio...). Intimidazioni e minacce indeboliscono la donna e creano insicurezza nelle sue capacità decisionali autonome.
Parallelamente viene attuato un progressivo isolamento della donna dal suo contesto familiare, lavorativo, sociale. L'uomo tenta di limitare i contatti della donna con i suoi amici, la possibilità di coltivare interessi, di lavorare (tua madre si mette sempre in mezzo... la tua amica è poco seria...). L'isolamento può arrivare a forme di segregazione, quali chiudere a chiave la donna in casa, portar via il telefono di lei o controllare le chiamate al rientro in casa.
Una fase ulteriore è quella della svalorizzazione. Ogni attività della donna viene sminuita, ogni sua capacità e risorsa viene irrisa; l'obiettivo è la totale privazione dell'autostima della donna, al fine di privarla di qualunque possibilità di libera scelta e autodeterminazione. La svalorizzazione avviene anche attraverso la distruzione di oggetti e beni della vittima, la quale introietta in questa fase la sensazione di totale annullamento di se stessa (senza di me non sai fare niente...non sei capace a far nulla... non capisci niente... ma chi ti credi di essere... ma ti sei vista?)
L'aggressione fisica, preceduta dalle tappe di violenza psicologica, arriva nel momento in cui una donna comincia a ribellarsi o cerca di uscire dalla violenza. Sono violenze fisiche e sessuali, in cui l'uomo usa la forza per obbligare la donna a essere toccata nella parti intime, ad avere rapporti sessuali (fai il tuo dovere coniugale...), o per picchiarla, incuterle terrore e impedirle così di ribellarsi o andarsene, ripristinando lo status quo di potere e manipolazione.
Questi meccanismi della violenza sono alternati a momenti determinanti per il mantenimento della spirale e la crescita della tela di ragno: le false riappacificazioni. L'uomo violento alterna gesti e periodi di falso pentimento e di apparente normalità ad altri di improvvise, inaspettate fasi di aggressività e violenza, prostrando la vittima in un perenne stato di ansia, in cui non si conoscono mai né il tempo né la ragione dell'aggressione. Questa non continuità della violenza è una delle cause più rilevanti ad indurre una donna a restare, a non uscire dalla sua condizione. Questa sorta di fase da luna di miele induce la donna a credere che la situazione sia tornata come prima, che il suo compagno sia cambiato per amore (se la violenza fosse stata continua me ne sarei subito andata... c'erano sempre periodi di speranza e la cosa strana è che durante i periodi buoni, in cui faceva regali, mi aiutava in casa, andavamo fuori, io a malapena mi ricordavo dei brutti tempi...).
Un'ulteriore fase che caratterizza la spirale della violenza è il ricatto sui figli. Per sostenere questa affermazione e utilizzarla realmente come minaccia, l'uomo si affida all'isolamento e alla paura in cui ha segregato la donna e al fatto, consequenziale, che le informazioni di cui ella necessita per confutare tale timore le siano inaccessibili. Maggiore è il tempo in cui la vittima permane in questo abuso psicologico, maggiore è quello in cui a tale abuso sono esposti i figli. È proprio questo il momento in cui la vittima si rivolge generalmente al centro: per salvaguardare l'integrità psichica dei figli. L'esperienza nei centri antiviolenza e numerose ricerche scientifiche dimostrano infatti che dalla spirale della violenza non si riesce a uscire da sole. Sono necessari percorsi di consapevolezza, scelte coraggiose e impegnative, figure di supporto competenti.

Diamo i numeri?

“Dire che c'è crisi economica, e quindi le donne possono continuare ad essere maltrattate e uccise, sinceramente non lo accetto. Perché è vero, siamo in un momento molto difficile, ma quello che manca in questo paese è l'assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni”. A parlare è l'avvocato Titti Carrano, presidente dell'Associazione Nazionale DiRe, Donne in rete contro la violenza, che rappresenta sessanta tra centri antiviolenza e case delle donne in tutta Italia, quasi il 50 per cento dell'offerta nazionale, dal momento che in Italia si contano 150 associazioni di questo tipo.5
L'associazione DiRe è attiva sul territorio nazionale con due strumenti: i centri antiviolenza e le case delle donne. In questi luoghi le donne in difficoltà possono trovare un aiuto concreto, ospitalità in caso di pericolo, un luogo accogliente e sicuro per sé e per i propri figli.
Le operatrici delle associazioni sono donne competenti e specializzate, che hanno frequentato formazioni ad hoc e hanno praticato tirocini sul campo, affiancate da operatrici esperte, in un passaggio e una condivisione di competenze professionali e risorse umane che le donne sono capaci di sviluppare e restituirsi in ogni ambito, in nome di quella solidarietà femminile che le ha unite nelle lunghe lotte per la libertà e l'autodeterminazione.
Nel 2011 si sono rivolte ai centri di DiRe 13.137 donne, di cui 70 per cento per la prima volta, il 70 per cento italiane. Questo dato, da solo, è sufficiente a riflettere sull'urgenza di sportelli, centri, posti letto. Dei sessanta centri dell'associazione, invece, neanche la metà ha la possibilità di ospitare donne in difficoltà: in Sicilia c'è un solo centro con qualche posto letto, a Palermo, per 2 milioni e 600mila donne siciliane. Uno solo. In caso di emergenza, di una donna in pericolo di vita, si attiva la rete, ma si isola la donna. In Calabria, un solo centro, a Cosenza, ma non ha fondi, ed è senza posti letto. In Puglia due centri, a Barletta e a Polignano, in gravissime difficoltà economiche, entrambi senza posti letto. In Basilicata e in Molise non esistono centri, ne case rifugio. In Campania ci sono per fortuna tre case rifugio, aperte di recente in luoghi confiscati alla camorra. A Napoli invece il centro ha dovuto sospendere le attività perché dal 2009 non percepisce i fondi che il Comune gli deve. Le regioni italiane che contano il maggior numero di case sono la Lombardia, l'Emilia Romagna, la Toscana e il Lazio: laddove i centri ci sono, le donne arrivano a decine di migliaia. Il Centro Maree è uno dei tre centri finanziati dalla Provincia di Roma, Istituzione Solidea, con un milione di euro all'anno. È considerata una priorità della giunta della Provincia, ch'è riuscita a non tagliare i fondi a lei dedicati. Nel 2011 sono passate per questi centri più di 5.000 donne, solo per un colloquio, mentre moltissime altre negli anni vi hanno trovato un rifugio in cui essere protette, uscire dalla violenza, ricostruirsi una vita per sé e per i propri figli.
Statistiche comparate ed elaborate dall'associazione Women Against Violence Europe dicono che la forbice tra le Women Shelters (linguaggio militare che sottolinea l'urgenza di protezione, a dispetto del più morbido case delle donne) e quelle degli altri paesi europei, si allarga inesorabilmente nella conta dei posti letto: la Germania ha 7.000 posti disponibili all'anno, corredati da assistenza sanitaria, psicologica, sociale e legale; la Spagna, grazie al governo Zapatero, ha 4.500 posti letto, l'Inghilterra 3.890.
I dati che impressionano sono quelli che ci vedono indietreggiare di fronte a paesi quali la Turchia, con un numero tre volte superiore rispetto al nostro e, se si prende come riferimento lo standard europeo di un posto letto per 10.000 abitanti, è impressionante leggere che la nostra percentuale è relativa allo 0,09 per cento. Il Consiglio d'Europa, nelle raccomandazioni che basterebbe seguire, ci dice che l'Italia dovrebbe avere 1 posto d'emergenza per le donne ogni 10.000 abitanti, per un totale di 5.700 posti letto: attualmente, ne abbiamo 500. Undici volte in meno: 1 posto letto ogni 110.000 abitanti.
Hanno fatto meglio di noi la Grecia, l'Albania, l'Armenia, la Bosnia-Erzegovina, la Croazia, Cipro, la Georgia, l'Islanda, l'Irlanda, la Macedonia. Abbiamo battuto, sul filo dei decimi, l'Azeirbaigian, la Bulgaria, l'Estonia.6
Il Consiglio d'Europa, nelle raccomandazioni che basterebbe seguire, ci dice che l'Italia dovrebbe avere 1 posto d'emergenza per le donne ogni 10.000 abitanti, per un totale di 5.700 posti letto: attualmente, ne abbiamo 500. Undici volte in meno: un posto letto ogni 110.000 abitanti.

Costi sociali e tagli ai bilanci

Se una donna prigioniera già da molto tempo delle percosse e della paura non ha vicino a sé un posto a cui rivolgersi, a cui chiedere aiuto, o se quel luogo è stato aperto per qualche anno o per molti, accumulando esperienza, capacità, contatti, capitale umano, risorse, ricchezza, e poi chiude e disperde tutto a causa dei fondi a singhiozzo e di scelte politiche diverse, quanto costa all'intero paese questa assenza gravissima, in termini di salute, di welfare, di mancata crescita, di partecipazione sociale, lavorativa, professionale, umana? Nei casi in cui queste risorse mancano, o sono distribuite in modo disomogeneo sul territorio nazionale, creando territori di serie A e di serie Z, a farne le spese sono sempre le donne che poi vengono uccise anche perché non hanno potuto fare affidamento su una rete funzionale di servizi che le proteggesse.
In termini di costi, sociali oltre che umani, alcuni studi del 2003 di Dugan, Nagin, Rosenfeld7 dimostrano che i tagli che i governi operano a sfavore dei servizi di tutela per la vittima per prevenire la reiterazione della violenza, fanno lievitare i costi che ne derivano (spese sanitarie, legali, forze dell'ordine, della giustizia, perdita di produttività, costi legati all'infanzia privata della madre, che deve sopravvivere al doppio trauma della violenza assistita e della perdita dei genitori). Allo stato in fin dei conti costerebbe molto meno spendere per la prevenzione e affidarsi alle competenze preziose maturate negli anni dalle donne che sostengono altre donne, salvando loro la vita.
In Italia la variabile della continuità a quanto pare però, non è prevista: nel 2012 sono stati lanciati dei bandi ministeriali, 20 milioni di euro in più, con lo scopo di coprire i territori regionali scoperti e aprire 12 nuove case delle donne. Il problema è che il piano viene finanziato per pochi anni, e già con il dubbio che nell'anno in corso non si trovino i fondi per rinnovare il finanziamento. I progetti vengono infatti coperti per 24 mesi, dopodiché il rischio è aver aperto strutture che gli enti locali non riescono a sostenere o che non percepiscono come priorità nella loro agenda politica, e che quindi dovranno chiudere.
Tutto chiede che sulla violenza non si tagli, ogni nome, ogni dato dice che sulla violenza non si può tagliare, perché se si taglia sulla violenza avremo per sempre donne vittime e bambini che pagheranno le conseguenze di quanto vissuto. Tutto dice che le donne che escono dalla violenza tornano attive nella vita sociale, culturale, tornano a lavorare, tornano ad essere una risorsa per tutti. Le operatrici delle case delle donne insegnano: prima si esce dalla violenza, meno tempo serve per ricostruirsi una vita.
Solo i paesi che combattono la violenza e ogni forma di oppressione contro le donne figurano di diritto tra le società più avanzate.


Note

  1. differenzadonna.org/attivita/centri-antiviolenze/index.html.
  2. M. A. Gainotti e S. Pallini (a cura di), Uscire dalla violenza. Risonanze emotive e affettive nelle relazioni coniugali violente. Edizioni Unicopli, Milano 2006, pag. 32.
  3. A. C. Baldry, Dai maltrattameti all'omicidio. la valutazione del rischio di recidiva e dell'uxoricidio. FrancoAngeli, Milano 2008, pag. 39.
  4. Ibidem, pag. 39.
  5. R. Iacona, Se questi sono gli uomini, Chiarelettere, Milano 2012, pag. 114.
  6. Ibidem, pagg. 119-120.
  7. A. C. Baldry, Op. Cit. pag. 59.


Come operano
i centri antiviolenza

Assistenza legale, gruppi di auto mutuo aiuto, gruppi di conoscenza e di cura di sé, gruppi di sostegno alla genitorialità, incontri protetti, codice rosa, servizi anti-stalking. Viaggio tra i mille modi per affrontare un fenomeno molto più diffuso di quanto si creda.


a) Assistenza legale

L'assistenza legale dei centri è specializzata in materia di violenza di genere e nella difesa dei diritti delle donne e dei loro figli minorenni. Si compone di avvocate specializzate afferenti a tre settori: diritto civile, diritto penale e tribunale per i minorenni. Le donne che lo richiedono sono poi seguite lungo tutto l'eventuale percorso legale fino alla sentenza definitiva.
Il valore più alto del supporto legale dei centri antiviolenza sta nel suggerire un cambiamento nello sguardo colpevolizzante e discriminatorio che spesso le leggi gettano sulle donne che hanno subìto violenza e coloro che le rappresentano, quando chiedono che ciò sia riconosciuto, chiedendo giustizia per questo.
Gli obiettivi più specifici dell'ufficio legale sono:
- innovare la cultura giudiziaria attraverso lo studio delle fonti dell'Ue e delle organizzazioni internazionali in materia di violenza di genere;
- elaborare strategie difensive e le prassi giudiziarie a vantaggio delle donne e dei figli minorenni che hanno subito violenza;
- ricercare la giurisprudenza penale, civile e internazionale più innovativa.
Questo tipo di assistenza mira a realizzare un intervento interdisciplinare e interistituzionale operando in stretta sinergia con le psicologhe, le operatrici e tutte le altre figure professionali presenti nelle associazioni di genere per assicurare a ciascuna donna un intervento mirato e specifico. I servizi prevedono la formazione e la stretta collaborazione tra i centri, le forze dell'ordine, i tribunali, e tutti i servizi di giustizia coinvolti.

b) I gruppi di auto mutuo aiuto

Sono rivolti essenzialmente alle operatrici dei centri ma in alcune associazione si formano anche gruppi per le vittime di violenza domestica. I gruppi di “auto mutuo aiuto” si basano su una cultura solidaristica e si pongono come nuovi modi per far fronte a situazioni di disagio personale.
Attraverso questi gruppi si rende possibile una ricca e diversificata circolazione di esperienze, modi di pensare che si traducono nella opportunità di ampliare i confini della propria esperienza e delle proprie prospettive. I feedback diventano informazioni condivise significative riguardanti il modo di essere e di comportarsi di ognuna, contestualizzando così la propria esperienza personale nel più ampio spettro della violenza di genere quale fenomeno culturale. Attraverso le esperienze delle altre vengono compresi in modo differente i vissuti di ciascuna donna, e quindi le modalità per affrontare e superare le diverse problematiche che l'impegno nei centri richiede. Anche se questi gruppi vivono essenzialmente del valore del confronto fra le partecipanti, si rivela preziosa la presenza di una operatrice competente ed esperta che coordini gli incontri.

c) I gruppi sulla conoscenza e cura di sé

Sono rivolti alle ospiti dei centri. Sono incontri sull'igiene della persona e sull'igiene alimentare. Sono condotti da specialiste di informazione medica e da dietologhe, in aiuto alla scoperta delle motivazioni che impediscono alle donne di aver cura di sé e al confronto sui percorsi idonei per il raggiungimento del proprio benessere. Tali interventi si rendono necessari poiché molto spesso le donne che vengono ospitate, sopraffatte dalle difficoltà vissute, dimenticano la propria persona in un crescendo di trascuratezze personali. Si ritiene un prodromo di cambiamento positivo, quando una donna ospite migliora visibilmente il suo aspetto e la cura che dedica agli eventuali figli.
Le operatrici ormai sanno che il primo momento di un progetto di successo è sempre la scoperta della cura di sé.

d) I gruppi di sostegno alla genitorialità

Per le donne accompagnate da figli minori è previsto un percorso di rafforzamento della relazione affettiva e del rapporto tra madre e figlio attraverso il sostegno alla genitorialità.
I centri propongono alle donne la possibilità di condividere con le altre le proprie scelte e le proprie difficoltà, per riconoscere la comune appartenenza ad un contesto sociale in cambiamento, promuovendo gruppi che rappresentino delle reti sociali che consentano alle mamme di riappropriarsi e di rivitalizzare le proprie reti sociali naturali. Un gruppo di sostegno può accompagnare le mamme a sviluppare ciò che è già presente in loro internamente, senza sostituirsi al loro ruolo, aiutandole però ad esprimerlo e ad approfondirlo.

e) Gli incontri protetti

A volte il tribunale dispone che il genitore non affidatario possa incontrare il figlio solo in condizioni protette. Le ragioni possono essere molteplici. Può accadere semplicemente perché il genitore è stato per lungo tempo lontano dal piccolo e deve quindi lentamente ristabilire con lui una relazione. Spesso però le ragioni sono più gravi: il bambino può aver assistito alla violenza esercitata sulla madre, e dunque teme che il genitore sia una minaccia anche per lui, o può essere stato maltrattato, o rischia di essere portato oltre il confine nazionale nel caso in cui il genitore è cittadino di un altro paese. In questi casi particolarmente problematici il tribunale tutela il minore disponendo per lui questo sistema di protezione, evitando così di interrompere definitivamente il rapporto fra il genitore e il figlio.
Spesso il tribunale o i servizi sociali incaricano i centri antiviolenza di svolgere gli incontri protetti all'interno dei propri centri. In ognuno dei centri antiviolenza vi è un locale accogliente e fornito di giocattoli destinato a questi incontri.
Inizialmente il genitore viene convocato dalla struttura ospitante e messo al corrente delle modalità in cui si svolgono questi incontri, che potranno iniziare solo dopo che il genitore abbia accettato e firmato il regolamento che li norma.
Un'operatrice specializzata dell'associazione accompagna il bambino e resta come testimone attenta durante le ore di incontro (due ore circa).
L'operatrice scrive poi una breve relazione sui comportamenti del genitore, sui miglioramenti nella relazione fra padre e bambino o sulle difficoltà a volte insormontabili che questi incontri denunciano. Semestralmente il tribunale riceve una relazione complessiva dove si può dedurre se gli incontri hanno dato buoni risultati o se invece i rischi iniziali si sono attenuati o accentuati. Le operatrici dei centri svolgono quindi non solo una funzione di tutela del bambino, ma anche di garanti dei provvedimenti del tribunale lavorando in stretto contatto con i servizi territoriali e con le istituzioni.

f) I servizi antistalking

Ancor prima che venisse promulgata la legge antistalking 38/2009 l'associazione Differenza Donna di Roma, riconoscendo la gravità del fenomeno, si è dotata in ogni suo centro di sportelli antistalking che offrono: counselling psicologico; consulenza e assistenza legale per le vittime di stalking; sostegno psicologico, indispensabile in particolar modo durante quella delicata fase dove alla vittima si richiede collaborazione nel processo di raccolta delle prove; valutazione del rischio di recidiva e di escalation, utilizzando per i casi di stalking tra ex partner il metodo Thais (Threat Assessment of Intimate stalking) e il Sara (Spousal Assault Risk Assessment); monitoraggio dei casi attraverso studi di follow-up per la verifica dell'efficacia dei vari percorsi giudiziari ed extragiudiziari intrapresi; contatto diretto con lo stalker, qualora non ci sia un procedimento in corso, per informarlo dei rischi legati alla sua condotta e delle possibili conseguenze, e per proporgli un percorso di sostegno e di elaborazione delle sue problematiche; promozione di percorsi di formazione e aggiornamento rivolti ad altre associazioni di genere, psicologhe, educatrici, operatori dei servizi sociali, forze dell'ordine e della giustizia, operatori sanitari, scuole, professionisti, università, istituzioni nazionali e internazionali.

g) La salute delle donne: il Codice Rosa

La violenza denunciata spontaneamente dalle donne è solo una parte del reale numero delle vittime di violenza.
Così come le forze dell'ordine a cui esse si rivolgono hanno il dovere di informarle sui propri diritti, piuttosto che consigliar loro di non rovinare una famiglia, tanto il medico o l'infermiere che incontra una donna con lesioni dirette o indirette, presumibilmente dovute ad uno o più episodi di maltrattamento, ha il dovere di renderla consapevole della correlazione tra lo stato di salute in cui versa e le conseguenze traumatiche del suo vissuto.
Le vittime di violenza utilizzano frequentemente i servizi legati alla salute: medico di famiglia, pronto soccorso, consultori per Ivg o visite ginecologiche, centri specialistici per cefalee o altri disturbi cronici. Eppure, anche in questo caso, gli operatori addetti tendono a non vedere, a non riconoscere, e ad attuare quindi gli schemi stereotipanti di cui abbiamo già parlato, correlati cioè all'esonero del violento e ad atteggiamenti di biasimo/colpevolizzazione della vittima fino a ritenere, nei casi dei peggiori pregiudizi, la possibilità che le vittime siano masochiste, o complici della violenza. L'emergenza codice rosa nasce per individuare i fattori predittivi di una situazione presumibilmente correlata alla violenza di genere, a partire dalla constatazione di uno stato di malattia, con l'obiettivo di individuare ed attivare gli interventi più adeguati allo specifico caso.
L'associazione Differenza Donna, attuatrice della sperimentazione del codice rosa presso alcune strutture mediche della capitale, tra cui il policlinico Umberto I, ha attivato negli ultimi anni un servizio in loco grazie al quale ha affiancato gli operatori sanitari, per individuare con loro gli indicatori di violenza atti a redigere l'anamnesi del malessere e della violenza da accludere all'anamnesi clinica della donna o del minore, realizzando le buone pratiche dell'accoglienza in sinergia con gli operatori sanitari.
Il codice rosa, attualmente attivo, garantisce:
- un attento ascolto del contesto sanitario, in cui è possibile individuare situazioni di violenza; la possibilità di attivare le risposte necessarie attraverso il coinvolgimento immediato di altre figure (forze dell'ordine, magistrato competente);
- il confronto tra l'operatrice specializzata in violenza di genere e gli operatori sanitari, per il riconoscimento dei singoli casi come parte di un fenomeno sociale più ampio;
- la possibilità di documentare le attività svolte per produrre dati utili a ricerche epidemiologiche e qualitative, e dunque per monitorare e convalidare le prassi adottate;
- la sperimentazione di un approccio prognostico per individuare i fattori predittivi di un probabile rischio di recidiva, utile a realizzare un piano efficace di gestione e contrasto della stessa. La rete messa in atto dal codice rosa prevede l'intervento della magistratura penale e civile dei tribunali ordinari e dei tribunali dei minorenni, le forze dell'ordine, le aziende ospedaliere, le aziende sanitarie locali, i servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, le scuole e, ovviamente, i centri antiviolenza.

Specializzare, sensibilizzare, informare, comunicare

a) Formazione

Una delle attività fondamentali dei centri antiviolenza è la formazione, intesa come crogiuolo di azioni volte a sensibilizzare, informare, specializzare, raggiungendo in tal modo il maggior numero di persone e attori. Dal 1993 l'associazione Differenza Donna nello specifico offre gratuitamente ogni anno a circa 45 donne un corso teorico pratico di nove mesi per future operatrici, e una formazione permanente alle operatrici già attive nei suoi centri antiviolenza.
Ogni associazione di genere e centro antiviolenza promuove, all'interno di progetti finanziati da enti locali, dipartimento pari opportunità della presidenza del consiglio, ministero della salute, ministero del lavoro, ministero degli affari sociali, provveditorati agli studi, regione di competenza, corsi di formazione specializzata per operatori del settore, magistrati, forze dell'ordine, polizia municipale, psicologi, operatori sanitari, assistenti sociali, associazioni di donne, nonché corsi di sensibilizzazione per studenti e docenti delle scuole pubbliche primarie e secondarie e corsi specialistici o laboratori promossi da alcune università.

b) Prevenzione

Contrastare la violenza di genere significa lavorare non solo sulle conseguenze e i traumi che questa comporta per le donne e i loro figli, ma anche e soprattutto nel contribuire a prevenirla. Ogni attività di formazione promossa dai centri antiviolenza è intesa come occasione di prevenzione.
Le associazioni di genere scelgono spesso di lavorare con le adolescenti e gli adolescenti con l'obiettivo di favorirne la crescita, portando l'ottica di genere quale apprendimento necessario per la costruzione dell'identità di sé e il riconoscimento di quella degli altri e delle altre attorno a sé.
Dall'esperienza delle metodologie proprie del lavoro politico tra e per le donne vittime di violenza fatta nei centri antiviolenza, le socie hanno messo a punto, grazie a professionalità diverse, percorsi didattici di prevenzione rivolti ai ragazzi e alle ragazze delle scuole pubbliche primarie e secondarie con i principali focus sull'alfabetizzazione emotiva, la de-strutturazione degli stereotipi di genere e l'attivazione di letture critiche del fenomeno della violenza, attuati con metodologie relazionali innovative e secondo un'ottica di genere. Nascono così progetti di prevenzione primaria che di volta in volta trovano la collaborazione delle istituzioni nazionali e locali, delle associazioni professionali, della scuola, del mondo della ricerca.
I percorsi didattici di prevenzione alla violenza sulle donne permettono di entrare in contatto con i bambini e gli adolescenti attraverso uno scambio intergenerazionale non-giudicante sui temi di genere, di costruire con loro una presa di coscienza critica della propria identità di genere, di ri-leggere le loro relazioni tra pari in un'ottica di rispetto e apprezzamento delle differenze.

c) L'Osservatorio che comunica la violenza di genere

Solidea, l'Istituzione di Genere femminile e Solidarietà della provincia di Roma, attiva nel 2005 un osservatorio sulle donne vittime di violenza e i loro bambini.
Questo spazio provvede da allora alla costruzione di strumenti di diffusione e di divulgazione delle informazioni diretti sia ai cittadini che agli operatori del settore, al fine di supportarne la difficile gestione delle quotidiane criticità.
A partire dalla raccolta sistematica dei dati, l'organizzazione e lo studio di alcuni aspetti del fenomeno, l'esperienza maturata a livello locale è divenuta un esempio di buona pratica nel campo della diffusione e della disseminazione delle informazioni, tanto da allargarsi alla provincia di Vibo Valentia in Calabria e in Toscana, attraverso la formazione delle operatrici dell'associazione Frida di Ponte a Egola (Pi).
L'Osservatorio copre diverse aree di studio e di ricerca:
- l'area giuridico-normativa (leggi promulgate sul tema, livelli di attuazione delle norme, aree tematiche e territorio);
- l'area statistica (sistema di indicatori di genere, contesti, approfondimenti tematici, soggetti specifici);
- la mappatura dei servizi presenti sui territori;
- la diffusione delle pubblicazioni dell'osservatorio e dei link utili.
L'osservatorio ospita inoltre un'area riservata (intranet) nella quale è in fase di sperimentazione l'attivazione di un flusso informativo basato sulla rilevazione di una serie di dati socio-demografici e dei bisogni specifici relativi alle donne che si rivolgono ai centri, che alimentano una base di micro-dati.
Attraverso un sistema di warehousing, la raccolta e l'incrocio dei dati garantisce la produzione di mini-report aggiornati con le informazioni statistiche aggregate per vari livelli. L'area riservata alle operatrici dei centri per l'inserimento dati è ovviamente governata in base alle norme sulla tutela della privacy (d.lg. 196/2003).
L'analisi della totalità dei dati inseriti permette un approfondimento sulle condizioni della donna nelle aree che fanno parte dall'osservatorio, sulle forme di espressione della violenza di genere, sulle azioni più efficaci attuate per accrescere la consapevolezza della gravità della situazione nelle vittime, sui percorsi virtuosi intrapresi per affiancarle nel momento di fuoriuscita dalla violenza.
La homepage dell'osservatorio è nel sito: solideadonne.org.
Una porta che apre ad un mondo che non è fatto solo di donne, ma di donne e di uomini.
Perché la violenza dell'uomo sulla donna impone una riflessione che li comprenda entrambi: affinché il cambiamento culturale si traduca in comune consapevolezza del valore reciproco e paritario della dignità umana e della ricchezza delle sue differenze.
La più felice espressione di tale consapevolezza si realizza, infatti, nella relazione.

Francesca Cuccarese e Milena Scioscia