Rivista Anarchica Online




Campi rom/Una politica assurda

Caro Paolo,
ho letto l'articolo di tuo fratello Enrico sul penultimo numero di “A”. I dati che riporta ne “Il cuore freddo di molti italiani” a proposito dei rom sono impressionanti, ma per noi che lavoriamo su queste tematiche purtroppo ben noti.
Il punto è: com'è che il popolo italiano, in genere non particolarmente “cattivo” (!) e che ha mostrato anzi capacità di solidarietà piuttosto ragguardevoli in molte occasioni, è arrivato a un tal punto di ostilità (di razzismo) da far sì che solo il 17 per cento sia in grado di mostrarsi solidale verso questa gente?
Noi – mi riferisco sia all'Associazione OsservAzione di cui faccio parte, anche se ormai ne sono parte poco attiva per le conseguenze di una brutta malattia, sia a molte altre organizzazioni tra cui la 21 Luglio – pensiamo che l'immagine che è stata costruita addosso ai rom, attraverso il termine improprio di 'nomadi' e le condizioni di vita in cui sono costretti a vivere da oltre trent'anni qui in Italia, abbia influito pesantemente su quei sentimenti negativi già presenti da lungo tempo ed espressi nel termine “zingari”.
I dati ricordati da Francesca de Carolis nel riquadro “Roma / Dopo il fallimento dell'“Emergenza Nomadi” (“A” 382, estate 2013) rispondono in parte alla mia domanda. Responsabili delle condizioni di vita dei rom sono le politiche che lo stato italiano, sia quello centrale sia quello regionale sia, spesso ma non sempre, quello comunale, ha messo in atto da quando, trent'anni fa, le loro presenze hanno cominciato a salire, come risultato dell'immigrazione dalla Jugoslavia, rendendo visibile la loro presenza sul territorio.
Vita in campi autorizzati e non, e sgomberi continui, in tutta l'Italia: così si può descrivere la vita di gran parte dei rom immigrati in questi trent'anni. Scrive Francesca de Carolis: “ (...) a Roma sono stati spesi più di 62 milioni di euro. [Oggi] I villaggi attrezzati sono otto, mentre gli insediamenti a Roma sono quintuplicati, diventati più di 500 nonostante i 536 sgomberi forzati” (corsivo mio).
E in tutta l'Italia? Moltiplichiamo queste cifre per le città in cui vi sono stanziamenti di rom e otterremo cifre inimmaginabili, cifre di cui solo da poco si comincia a parlare.
Una ricerca delle associazioni Berenice, Compare, Lunaria e OsservAzione, appena pubblicata, dal titolo “Segregare costa: la spesa per i campi nomadi a Napoli, Roma e Milano” cerca di approfondire questo tema. Le conclusioni a cui arrivano gli autori sono riassunte nella frase finale della ricerca: “spreco di soldi pubblici”.
Ma un piccolo dubbio mi ronza in testa: dopo trent'anni di questa solfa è davvero ancora il caso di parlare di spreco? O forse dovremmo aver il coraggio di dire cecità strumentale, sfruttamento dei rom e delle loro deboli possibilità di difesa per far girare soldi?
Tuo

Piero Colacicchi
Firenze

Con Maria, con Leonarda, con il popolo rom

Da giorni in Italia è in atto l'ennesima, preoccupante, campagna di odio antizigano, fomentato ad arte da trasmissioni sedicenti “di servizio pubblico”, rotocalchi di intrattenimento, telegiornali, quotidiani...
Sappiamo che quando parliamo di rom, in questo paese che impedisce ai superstiti dei naufragi di Lampedusa di partecipare ai funerali, lo stato d'animo non è neutro.
Questa non è una sensazione, ma una consapevolezza accertabile attraverso la frequentazione delle associazioni di solidarietà con le comunità romanés, la conoscenza e l'informazione attraverso le pubblicazioni, i testi di ricerca, le statistiche delle condizioni drammatiche nelle quali le famiglie rom sono costrette a sopravvivere a causa delle politiche istituzionali locali e nazionali, con la complicità di un razzismo popolare forse senza precedenti.
Chi pretende di informare, chi si assume l'onore di fare informazione in Italia ha il doppio onere di essere informato e di trasmettere correttamente le notizie, senza allusioni o esplicite affermazioni di razzismo. È stato sostenuto, in una trasmissione televisiva della tv di stato, che la bambina sarebbe stata rapita da un network di trafficking di minori con sede in Bulgaria, e che sarebbe stata successivamente comprata dalla famiglia rom per “purificare la razza” della comunità romanés. Spesso vediamo, nell' “altro” da “noi”, lo specchio di ciò che siamo...
Niente di quanto è stato sostenuto, con la presunzione e la certezza della Verità granitica, ha ancora alcun fondamento. Un'ipotesi come un'altra, ma che sembra “pesare” più di altre, scartate a priori.
L'immagine di Maria e l'utilizzo del suo corpo mediatizzato e strumentalizzato secondo costruzioni comunicative che alludono, spingono a prendere parte, a parteggiare per i bravi (la polizia che l'ha “salvata” dagli “aguzzini”) contro i cattivi (la famiglia rom), denota il contrario della sensibilità dovuta in presenza della salvaguardia di un minore: le foto contrapposte della piccola con i capelli arruffati e le treccine più scure del biondo dei capelli e le manine sporche, contrapposta a quella della bambina “ripulita” dei segni del suo passato “vergognoso”, con il vestitino nuovo e i capelli completamente biondi, al sicuro nell'associazione di affidamento, quasi a voler “smacchiare” una colpa.
È forse una colpa essere poveri? No, non lo è. È una condizione sociale, non una condizione dello “spirito”, né ontologica, né tantomeno “innata”, proprio come la razzista equazione che sta nuovamente passando con ciò che è conosciuto per “linea del colore”: una piccola bionda non può essere figlia di genitori rom.
È talmente “normale” l'orrore della “razza” che in questi giorni stanno moltiplicandosi, in Europa, massicci controlli nei confronti di famiglie rom con minori “bianchi”. Qualcuno ha forse pensato, riflettuto sul fatto che questi controlli non sono affatto “normali”, né basati su alcunchè di scientifico?
Al contrario, a seguito dell'oggettivazione del corpo di Maria – il corpo del reato – cresce l'accanimento poliziesco e razziale verso una minoranza vittima di molti olocausti, piccoli e grandi, nella storia passata e recente di una rilevante parte del mondo.
Questo è l'orrore, questo ritorno del passato con gli abiti ipocriti di chi dice di voler tutelare i diritti dei più deboli, sbattendo i mostri in prima pagina: le foto di fronte e di profilo dei due rom del campo greco sulle televisioni pubbliche italiane. Foto terribilmente simili a quelle dei perseguitati del Casellario Politico fascista e dei reclusi nei campi di sterminio nazisti: in entrambi questi elenchi dell'abominio troverete volti di donne e uomini rom. Colpevoli di vivere secondo regole non scritte, colpevoli di essere poveri e di vivere in “discariche” a cielo aperto: non-luoghi nei quali le istituzioni nazionali li costringono a vivere, senza assistenza e lontani dal centro delle città, in periferie abbandonate e prive di mezzi di trasporto.
I rom hanno molti doveri per lo stato italiano, ma nessun diritto. Sono in maggioranza italiani, ma sono trattati peggio che se fossero stranieri.
Sappiamo che la costruzione dell'immaginario passa attraverso i corpi, e attraverso le modalità con le quali alcuni corpi contano più di altri, e vengono “raccontati” con differenti “marcature”. Così la cameretta di Maria, in ordine, pulita e ben arredata, è elemento di sospetto in una famiglia poverissima. In un mondo colmo di pregiudizi, questo è ciò che il nostro “sguardo” vuol vedere.
Così la giovane e coraggiosa Leonarda, pronta a percorrere la propria strada di autodeterminazione in Francia anche contro le violenze subite in famiglia, viene obbligata a scegliere tra ciò che è ritenuta essere la “sua razza” (la sua famiglia romanés, espulsa in Kosovo) e il cosiddetto diritto/dovere di studio, magari per diventare “una brava francese”. E magari per vergognarsi, in futuro, di avere genitori “rom”.
Si parla tanto di aiutare le donne a denunciare chi le stupra e molesta: lo stato francese si è reso complice della violenza contro Leonarda, spingendola a ritrattare le precedenti accuse verso il padre, a causa dell'attacco del governo francese contro la sua famiglia. Ma l'utilizzo del sessismo per politiche razziste e del razzismo per attacchi sessisti, noi, lo sappiamo riconoscere. Noi sappiamo da che parte stare.
La piccola Maria non è figlia “biologica” di chi l'ha comunque accolta e nutrita, pur in povertà. I motivi per i quali la bambina è cresciuta in quella famiglia rom possono essere tantissimi. La tv di stato e quella privata hanno già decretato il verdetto.
Noi stiamo con Maria, con Leonarda e con il popolo rom.

Osservatorio antidiscriminazioni
altra.info@yahoo.it
(24 ottobre 2013)

Torino/Appello alla solidarietà

Cari compagni e compagne,
siamo obbligati a fare appello alla vostra solidarietà attiva. Numerosi compagni e compagne della Federazione Anarchica Torinese sono sotto processo per la loro attività politica e sociale. Abbiamo in corso ben due maxi processi per la nostra attività antirazzista, un processo per antifascismo, uno per antimilitarismo, uno per il nostro impegno nel movimento No Tav.
Banali azioni di informazione e lotta sono entrate nel mirino della magistratura. Un presidio antirazzista diventa violenza privata, una performance antimilitarista un'offesa alla sacralità dell'esercito, il buttare via un manifesto fascista danneggiamento, un'azione popolare di contrasto al Tav viene perseguita con durezza.
Alcuni di noi hanno già subito nel recente passato condanne per la propria attività politica. Alcuni di noi rischiano la galera.
Siamo convinti che il miglior modo per rispondere alla repressione dello Stato consista nel continuare con ancora maggior impegno le lotte nelle quali siamo impegnati.
Siamo anche convinti che campagne pubbliche di appoggio ai compagni finiti nel mirino della magistratura possano riportare sul terreno della lotta le vicende che lo Stato vorrebbe relegare in un'aula di tribunale.
I processi hanno anche un costo molto elevato, sia per gli avvocati che per tutte le carte che la burocrazia della repressione pretende.
Ci servono urgentemente circa 10.000 euro. Non siamo in grado di farcela da soli. Il conto corrente postale cui potete inviare i vostri contributi è il numero 10 137 38 032 – intestato a Maria Margherita Matteo, Torino.
codice IBAN IT35 Y076 0101 0000 0101 3738 032. Codice BIC/SWIFT BPPIITRRXXX

Federazione Anarchica Torinese
fat@inrete.it

Il cimitero di Spoon River

Tutto il mondo è paese, un paese è tutto il mondo, per la stessa ragione per cui in ogni singola cellula esiste il segreto della vita; in un frammento, il dna racconta l'intero romanzo biologico e genetico di un individuo... un paese è il filamento di dna della Terra; un extra-terrestre potrebbe studiare la psicologia comportamentale dell'intero pianeta visitando Ducenta (Villanova di Bagnacavallo o il “Villaggio Anic”).
Un paese è l'archetipo di ogni carattere dell'umana commedia: c'è lo scemo, ci sono i fedifraghi, gli omosessuali più o meno dichiarati, meretrici, notabili, vittime, carnefici... tutti concentrati in pochi chilometri quadrati e in un angolo, un piccolo scampolo di terra circoscritto... l'album dei ricordi: il cimitero.
Un condominio di immagini e parole, dove il passato si intreccia con il presente dei parenti, degli amici sopravissuti che ancora calcano il palcoscenico della vita per continuare una rappresentazione che si ripropone sempre uguale e sempre diversa.
Ho visto le immagini del cimitero di Spoon River, non è un cimitero, è la fotografia dell'immagine che tutti noi occidentali abbiamo di un cimitero: alberi che ombreggiano tombe sormontate da croci in pietra, incrostate di muschio e muffe, epitaffi consolatori incisi su lapidi, consumate dal tempo, che si affacciano su sentieri ghiaiosi, delimitati dall'erba scomposta dal vento... luogo costruito dai vivi per i vivi, dove i defunti giacciono sotto due metri di terra e i vivi si aggirano minacciosi in superficie, mistificandone il ricordo e le verità.
Nemmeno la pace è concessa alla “Grande consolatrice”, non c'è perdono, consapevolezza n'è pietà o pentimento, non c'è saggezza o riposo. I vivi fanno sì che i morti portino con loro le meschinità, il desiderio di vendetta, l'astio, le recriminazioni, l'odio... e ciò, è rassicurante: c'è ancora vita, dopo la morte.
E così Dante Alighieri fa in modo che il conte Ugolino mastichi la nuca dell'arcivescovo Ruggeri per l'eternità e, con quale immagine:
Noi eravam partiti già da ello,
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l'un capo a l'altro era cappello;
e come 'l pan per fame si manduca,
così 'l sovran li denti a l'altro pose
là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca
(...)
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.

Nessun perdono, nessuna pietà, ma l'orrore bestiale di una vendetta, lo stesso sentimento di rivalsa che ha ispirato Edgar Lee Masters nella sua poesia Il Giudice Selah Lively:
Ora Jefferson Howard e Kinsey Keene
e Harmon Whitney e tutti i pezzi grossi
che vi avevano schernito sono costretti a stare in piedi
davanti alla sbarra e pronunciare “Vostro Onore”.
Be', non vi par naturale
che gliel'abbia fatta pagare?

Astio e vendetta anche nella versione di Fabrizio De André:
E allora la mia statura
non dispensò più il buonumore
a chi alla sbarra in piedi
mi diceva “Vostro Onore”,
e di affidarli al boia
fu un piacere del tutto mio,
prima di genuflettermi
nell'ora dell'addio
non conoscendo affatto
la statura di Dio.
Non c'è comunicazione fra i morti, tutto rimane congelato al momento in cui hanno cessato di vivere, non c'è nuova conoscenza perché fra vivi e morti non c'è relazione e non c'è nessuna comprensione nemmeno fra vivi; tutti consumano la propria vita come fossero i primi e gli ultimi... i soli:
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera

o, se preferite:
Questo pensiero non vi consoli, quando si muore si muore soli.

Mauro Squarzoni


Prosegue il dibattito su
Libertà senza Rivoluzione”

Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione di Giampietro “Nico” Berti (Piero Lacaita Editore, Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche stralcio in “A” 377 (febbraio).  Sui numeri successivi sono intervenuti Franco Melandri e Domenico Letizia (“A” 378, marzo), Luciano Lanza e Andrea Papi (“A” 379, aprile), Luigi Corvaglia e Alberto Ciampi (“A” 380, maggio), Marco Cossutta e Salvo Vaccaro (“A” 381, giugno), Persio Tincani e Fabio Massimo Nicosia (“A” 382, estate), Enrico Ferri e Antonio Cardella (“A” 383, ottobre) Cosimo Scarinzi e Francesco Codello (“A” 384, novembre) e ora Claudio Venza e Lorenzo Pezzica.
Il dibattito è naturalmente aperto a chiunque intenda intervenire, con il limite delle 6.000 battute spazi compresi.



Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/15

Claudio Venza/Nico Berti, un critico “a-rivoluzionario e a-riformista”

Non è proprio l'ultimo simpatizzante giunto quasi per caso. Nico Berti è orgoglioso di essere stato uno dei pochi giovani anarchici ad avvicinarsi al movimento nei primi anni sessanta. Egli ha avuto un ruolo di primo piano nella formazione di una “vulgata” libertaria a cominciare dai primi anni settanta. Ha percorso in lungo e in largo l'Italia per animare dibattiti e convegni promossi dal Centro Studi Libertari di Milano, vere officine di cultura. Senza contare i numerosi libri di storia del pensiero e del movimento anarchici, dal “mattone” di circa mille pagine che affronta due secoli di pensiero antiautoritario (Lacaita, 1998) alle monumentali biografie di Francesco Saverio Merlino e di Errico Malatesta.
Tali informazioni, forse superflue per compagni meno giovani, servono per capire lo spirito con cui è stato scritto questo ennesimo libro di analisi e di proposte attorno all'anarchismo di ieri, di oggi e di domani. Insomma è un lavoro che merita seria attenzione invece di una schematica e troppo comoda etichettatura.
Questo è innanzitutto un testo di filosofia politica pieno di ragionamenti sui termini fondamentali di quella scienza che mancherebbe all'anarchismo e che qui è offerta in modo perentorio. Molte sono le asserzioni decise e senza indugi. Valga citarne alcune: “Il pensiero rivoluzionario è necessariamente un pensiero fondamentalista”, “La Rivoluzione è priva di significato e, soprattutto, è inutile”, “La Rivoluzione è autoritaria perché è impossibilitata a costruire, in breve tempo, alcunché di legittimo”. Logicamente se si parte da questi principii ne discende che l'aspirazione alla libertà, vero nocciolo duro dell'anarchismo, deve prescindere da ogni tipo di Rivoluzione che la nega alle fondamenta. Qui non si affronta, nemmeno di passaggio, la possibile esistenza di una Rivoluzione Libertaria. La stessa esperienza spagnola, a cui Nico fa spesso riferimento quale più alto esempio di tentativo libertario nell'Europa Occidentale, sarebbe stata sconfitta per una intrinseca debolezza o contraddizione: le masse spagnole non erano sufficientemente rivoluzionarie. Una simile affermazione mi pare francamente molto parziale e piuttosto autoconfermante.
L'analisi bertiana del fenomeno rivoluzionario è davvero spietata e la condanna dell'anarchismo all'irrilevanza attuale è senza appello. La causa risiede nella sconfitta definitiva del comunismo che avrebbe comportato anche la fine del movimento operaio e socialista nel quale, bene o male, l'anarchismo si è riconosciuto. Dal successo del capitalismo deriva anche la fine dell'“anarchismo classico”. E come si può salvare l'anarchismo? Per il “profeta” Nico solo trovando un confronto, e una collaborazione, con l'ideologia meno lontana (e vincente) del mondo occidentale: il liberalismo democratico.
Il bivio per l'anarchismo, a questo punto della storia umana, sarebbe tra il preservare la memoria del passato oppure l'“aprirsi al futuro, rinunciando a una parte – non piccola – della sua identità pregressa”. La strada maestra, per Berti, sarebbe quella della “libertà che parla a nome dell'eguaglianza” ovvero l'accettazione del fatto che “il politico è più importante del sociale”. Ancora una volta la storia spagnola dimostrerebbe che “la rivoluzione sociale non ha in sé la risoluzione di se stessa”. Altrimenti (e ciò, secondo me, è poco fondato storicamente) “gli anarchici avrebbero vinto”.
Un punto forte per evitare l'emarginazione risiederebbe nella scelta del “male minore”, quello che è “il più possibile vicino a ciò che piace”. Va quindi rifiutata la sirena dell'utopia, troppo a lungo ascoltata (ma era pure uno dei punti centrali dell'attività del Centro Studi Libertari di Milano a cui egli ha dato per decenni un notevole contributo!) in quanto “orizzonte teorico-concettuale che ha drogato il pensiero anarchico”.
Questo testo presenta una tranquilla (“candida” direbbe l'autore) affermazione sulla superiorità della civiltà occidentale sulle altre civiltà che “non presentano prioritariamente il valore centrale della libertà”. Così Berti risponde ad una “operazione delirante sotto il profilo epistemologico e abominevole sotto l'aspetto etico”, quella del relativismo culturale che sta affascinando vari ambienti libertari.
Molto significativa, e molto discutibile, appare la stroncatura dedicata a tre militanti (e teorici) dell'anarchismo: Tomás Ibáñez, Andrea Papi e Maria Matteo. I tre esprimono convinzioni rivoluzionarie, sia pure aggiornate e rivedute, rispettivamente in base al desiderio di rottura radicale, al bisogno di una trasformazione profonda, all'urgenza dell'agire rivoluzionario. Ebbene Berti contesta queste aspirazioni ripetendo “Perché mai?”, ma trascura il fatto che tutti e tre, e non solo loro, non si rassegnano a vivere nell'attuale tipo di società basata sullo sfruttamento, l'oppressione, la gerarchia. Chissà se gli anarchici dovrebbero, per uscire dall'insignificanza storica e politica, rinunciare alla lotta antiautoritaria e sedersi a chiacchierare con i potenti di turno, i liberaldemocratici? Non penso che chi continua a dichiararsi anarchico, e che qui ha realizzato un grande sforzo intellettuale per ridefinire l'anarchismo, voglia indicare l'inutilità di ogni forma di opposizione al sistema dominante in quanto “male minore”.
Forse è un dato che l'anarchismo non è in grado di giocare in proprio un ruolo importante sullo scenario complessivo. È però altrettanto vero che “insistere sui nessi che uniscono l'idea anarchica a quella liberale e a quella democratica”, come Nico propone in conclusione, non significa indicare una nuova promettente strada, bensì un triste vicolo cieco. Un vicolo piuttosto oscuro nel quale, tra l'altro, lo stato liberaldemocratico non appare per nulla disposto a giocare dalla parte della squadra libertaria.

Claudio Venza



Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/16

Lorenzo Pezzica/La memoria contro l'oblio

Libertà senza rivoluzione è senza dubbio un testo importante e denso, soprattutto per il lavoro di ricerca teorica, anche se in alcuni suoi passaggi, l'eccessiva enfasi della scrittura indebolisce in parte l'analisi e la critica. Si passa dal saggio storico-filosofico al pamphlet polemico, dal linguaggio complesso e articolato ad espressioni affrettate e acritiche, a volte eccessivamente liquidatorie.
Libertà senza rivoluzione lancia una sfida – storica, culturale, politica - nei confronti di chi oggi si ritiene anarchico. L'obiettivo di fondo del libro è infatti quello di affrontare il problema politico e culturale che l'anarchismo (pensiero e movimento) si trova oggi a sostenere dopo la sconfitta del comunismo e la conseguente vittoria del capitalismo. Nello spazio concesso, mi limiterò a brevi considerazioni e personali suggestioni, in ordine sparso, rispetto ai temi principali che emergono dal libro.
Merita seria attenzione la spiegazione che viene proposta nei confronti del rapporto tra “rivoluzione e Rivoluzione”. Persuade l'analisi dell'esaurimento storico della Rivoluzione (con la R maiuscola) “rimasta una chimera”, meno la conseguente risoluta rinuncia ad interrogarsi rispetto un suo possibile nuovo significato (senza la R maiuscola). Convince la critica serrata del comunismo e della sua storica e inesorabile sconfitta, che del resto l'anarchismo, in tempo reale e non a posteriori, aveva già criticato e condannato.
Quando però Berti affronta la questione della vittoria del capitalismo nei confronti del comunismo, fatto storico oggi evidente, affronta l'argomento senza dedicargli analoga acribia intellettuale.
La vittoria del capitalismo oscilla tra la rilevazione di un fatto storico difficilmente confutabile e l'asserzione di una sua irreversibilità. Ma la vittoria a livello storico non significa per forza aver ragione in base ad una impostazione teleologica della storia, come sembra emergere dalle pagine del libro, nonostante l'autore nello stesso tempo sottolinei come la storia non abbia alcuna direzione e non abbia alcun senso. Se è così, non si capisce perché poi, nella sostanza, emerga una sorta di filosofia della storia con l'obiettivo di trovare una giustificazione a definizioni universalistiche che non lasciano spazio a confronti interpretativi.
L'analisi teorica e storica della vittoria del capitalismo è affrontata senza tropo preoccuparsi di ricordare le numerose trasformazioni avvenute sin dal suo inizio ed eludendo ad alcuni tratti che hanno segnato e che segnano, in senso micidiale, la sua storia e il suo presente, se non con qualche accenno ai suoi “misfatti”, tutto sommato collaterali. L'analisi così elude alla genealogia del capitalismo, al suo “Cuore di tenebra”. Una genealogia fatta di conquiste coloniali, di imperialismi, di forza lavoro asservita e schiavizzata, di usurpazione politica e sua traduzione in principi di diritto, di guerre, che hanno segnato la forza vincente di un capitalismo difficilmente riducibile a semplice ordine “neutro” e spontaneo di forze apolitiche di mercato. Con questa omissione “genealogica” sembra difficile poter sostenere la piene libertà di scelta dell'uomo trascurando di esaminare storicamente e concretamente chi opera tale scelta e quali siano i suoi concreti margini di autonomia e le sue condizioni materiali, culturali e sociali.
Ha ragione Berti quando afferma che l'anarchismo opera un ribaltamento semantico, proponendo una diversa prospettiva del rapporto politico e sociale non più in termini orizzontali di destra/sinistra, bensì verticali di alto/basso. Eppure nonostante la coppia destra/sinistra sia difficile da riconoscere nella prassi politica quotidiana e sia considerata superata dalla radicale trasformazione dello spazio politico, dalla globalizzazione e dalla crisi dello stato-nazione, penso che tale coppia conservi ancora oggi un suo senso e significato.
Il libro pone una questione certamente importante, quella di “immettere nuovamente l'anima universale dell'anarchismo contro la storia ma (...) nella storia”. Argomento che meriterebbe una riflessione articolata che per ragione di spazio non è possibile condurre in questo contesto. Per rendere concreta questa possibilità l'anarchismo, sostiene Berti, deve liberarsi dell'ipoteca fallimentare della prospettiva rivoluzionaria in senso socialista che lo ha connotato nel passato come movimento inserito nel più ampio movimento operaio e affrontare “l'ineludibile confronto-incontro” con il liberalismo e la democrazia. Se l'anarchismo non riesce a realizzare questo proposito il rischio è la fuoriuscita dalla storia e la sua definitiva marginalità.
Non si capisce però perché sia necessario “gettare il bambino insieme all'acqua sporca” fino a sostenere in modo perentorio che all'anarchismo oggi rimangano solo due strade: preservare i suoi contenuti storici, “coltivandoli sotto forma di memoria (impressionante [corsivo mio], e altamente significativo, questo suo guardare indietro come è dimostrato dal numero crescente di iniziative archivistiche di documentazione del passato promosse all'interno del movimento anarchico)”, o aprirsi al futuro “rinunciando a una parte – non piccola – della sua identità pregressa”.
Non si capisce perché debbano essere necessariamente due strade in contrasto.
Senza dubbio l'esercizio della memoria è strettamente connesso a quello dell'oblio, come sottolineava Nietzsche. Un'operazione che non è certo indolore; ma “la memoria e l'oblio”, come scrive Remo Bodei, “non rappresentano (...) terreni neutrali, ma veri e propri campi di battaglia”. La coppia memoria/oblio ha costituito un'importante posta in gioco nella lunga lotta per il potere condotta dalle forze sociali che hanno dominato e dominano le società storiche. Impadronirsene è sempre stata una delle loro massime preoccupazioni, per poi manipolare la memoria stessa e spesso sostituire ad essa un “comodo” oblio delle coscienze. E allora “la lotta dell'uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l'oblio” (Kundera).

Lorenzo Pezzica


Spagna/Ma c'è stato anche Fèlix Carrasquer

Mi ha sorpreso trovare su “A” 382 (estate 2013) un articolo su Francisco Carrasquer; non perchè non se lo meriti, ci mancherebbe, ma perchè in ambito libertario qui in Spagna è sicuramente più conosciuto e apprezzato il fratello maggiore, Félix, a cui non si accenna nello scritto di Javier Barreiro.
Ho avuto l'occasione di conoscere Francisco Carrasquer nel 2007 (e non Félix, morto nel 1993) per un'intervista nella sua casa di Tárrega (provincia di Lérida): oltre a presentarmi molti dei suoi scritti letterari, ricordava la sua guerra civile combattuta sul piano militare e sosteneva la teoria che se l'avanzata verso Saragozza non l'avesse guidata Buenaventura Durruti bensì Francisco Ascaso (aragonese che conosceva bene il territorio ma venne ucciso il 19 luglio) le cose sarebbero andate in modo diverso1. È certamente da ricordare la biografia di Francisco, che combattè la guerra civile “de punta a punta2, subí la repressione franchista e riuscí poi a stabilirsi nei Paesi Bassi, portando avanti una lunga carriera universitaria e intellettuale.
Ma credo valga anche la pena di addentrarsi nella biografia del fratello maggiore per cogliere l'entusiasmo e la portata delle trasformazioni sociali: Félix, autodidatta libertario, dedicò la sua vita a creare progetti basati sull'autogestione e l'orizzontalità, e incarna secondo me l'essenza della rivoluzione spagnola.
La sua testimonianza ci permette di conoscere il lavoro preparatorio alle collettivizzazioni, di diffusione delle idee, di presa di coscienza e organizzazione. Dalla sua esperienza traspare chiaramente come l'avvicinarsi alle teorie anarchiche fosse intrinsecamente legato a una pratica di cambiamento radicale della società dell'epoca. I progetti che mette in moto negli anni '30 sono precursori di ciò che verrà organizzato durante la rivoluzione, non saranno certamente gli unici, ma ci permettono di capire come poi la risposta all'insurrezione militare del 1936 fu così estesa e organizzata.

Interesse per l'educazione
I fratelli Carrasquer erano quattro, Félix era il maggiore e come si vedrà in questa breve biografia, il suo percorso ha influenzato la vita degli altri. Il padre era segretario comunale in un paesino aragonese (godevano quindi di una buona posizione), Félix imparò a leggere molto presto e aspettava con ansia il momento di iniziare la scuola. Il primo giorno di scuola però non fu come sperava: il maestro urlava che doveva solo obbedire, mentre lui voleva imparare... A causa anche di una forte miopia convinse il padre che quella scuola non gli sarebbe servita e si dedicò a pascolare le capre e (comunque) a leggere, attività che gli permisero di avere molto tempo per pensare e formare le proprie idee. A 14 anni decise di provare la vita in città e da Albalate si trasferì a Barcellona dove dopo vari lavori, scelse di fare il panettiere, unica attività che non gli occupava tutta la giornata (anche se parte della notte) per avere tempo libero il pomeriggio e poter coltivare la sua grande passione, la lettura.
La Barcellona degli anni venti era tutto un fermento socio-politico, le esperienze viste e vissute si affiancavano quindi alla lettura dei classici pensatori nella formazione del suo carattere. La morte di sua madre e il secondo matrimonio del padre con la sorella di Felipe Alaiz, noto scrittore anarchico dell'epoca, marcarono definitivamente l'orientamento delle sue inclinazioni, incoraggiato dalla famiglia nei suoi studi. Nel 1925 si iscrisse all'Ateneu Enciclopèdic Popular, istituzione che da inizio secolo aveva svolto un ruolo paradigmatico nella diffusione della cultura come mezzo di emancipazione e che nonostante fosse in ribasso durante la dittatura di Primo de Rivera, giunse alla conclusione che senza un solida educazione non sarebbe stata possibile una rivoluzione.
L'interesse di Félix per l'educazione nasceva dalla riflessione sulle cause e possibili rimedi dei problemi sociali, partendo dal fatto di non aver subìto la pressione scolastica (visto che non ha mai frequentato una scuola) ma di aver visto gli effetti nocivi di questa repressione sugli altri3. Studiava quindi con passione le opere di filosofia e di pedagogia, sviluppando un'idea orizzontale e autogestita del processo di apprendimento.
Dopo un'esperienza negativa di ricerca di lavoro a Madrid, che accentuò la sua coscienza politica, tornò al suo paese dove organizzò una scuola e una biblioteca nel Centro Repubblicano. Le lezioni erano per adulti e bambini, uomini e donne; applicava il metodo Decroly per gli analfabeti e la scelta di temi su argomenti liberi per gli altri e in breve si iniziarono prove di teatro. Poi un evento esterno marcò il futuro del paese, la morte di un duca e la vendita di terreni del feudo che possedeva ad Albalate: il Gruppo Culturale si impegnò nella creazione di un'associazione di lavoratori per l'acquisto delle terre da gestire in comune. Con la proclamazione della repubblica nel 1931 il Gruppo Culturale organizzò una manifestazione che raggiunse i paesi vicini per incitarli a cambiare radicalmente il panorama sociale e in quattro mesi vennero organizzati 24 sindacati con più di 4.000 contadini iscritti. Venne celebrato il 1ºmaggio con un'opera di teatro italiana a cui partecipò tutto il paese. Dopo le elezioni sindacali vennero scelti i membri del comune in un'assemblea della Cnt (Confederación Nacional del Trabajo), e nonostante si fossero eletti dei maturi repubblicani, l'interferenza del sindacato risultò uno scandalo. Dopo solo due mesi venne chiesto a Félix di riprendere il posto di segretario, avendo visto come ad Albalate la libertà era totale e parte del paese partecipava alle assemblee come “in un'autentica democrazia”4.
Mentre la vista di Félix continuava a peggiorare e venne sottoposto a un intervento antiquato con un ago rovente infilato nell'occhio, nel suo paese cominciavano gli esperimenti delle prime colletivizzazioni. Prima nei terreni del padre con dei compagni di Barcellona che comprarono il primo trattore del paese, poi nelle terre vendute dal duca. Sul terreno sindacale Félix ricorda come reagì in un'assemblea quando si accorse che si dava per scontato che le donne non avessero diritto alla parola. E per quanto riguarda il boicot agli unici proprietari di bestiame che non volevano firmare l'accordo sulle condizioni di lavoro ricorda con tristezza come molti reagirono con aria di vendetta nel momento in cui si decisero a firmare, cosa che lo fece riflettere su una naturale inclinazione dell'uomo alla vendetta.
Ad Albalate quindi si anticipavano le colletivizzazioni, ma nel 1933 la Fai affermò troppo decisa che se la destra avesse vinto le elezioni, gli anarchici sarebbero scesi in strada. L'8 dicembre 1933 venne proclamato il comunismo libertario in vari paesi sparsi su tutto il territorio spagnolo. La repressione ovviamente fu immediata. La testimonianza di Félix ci ricorda come venne cancellato il lavoro degli ultimi cinque anni: chiuso il Gruppo Culturale, il sindacato, sospese le lezioni e il teatro, smantellate le sperimentazioni nelle campagne e soprattutto l'entusiasmo. Albalate non sarebbe mai tornata la stessa.
I partecipanti all'insurrezione dovettero fuggire e nascondersi finchè grazie ad un'amnistia poterono tornare al paese, ormai solo per recuperare le loro cose. José, il secondo fratello, si era stabilito in un paesino dei Pirenei dove, con il titolo di maestro e grazie al materiale di Félix, aveva montato una scuola col metodo Freinet. Félix tornò a Barcellona con Francisco diciasettenne che stava finendo le superiori, ed essendo ora vegetariani provarono a guadagnarsi da vivere facendo il pane integrale, mentre Félix scriveva articoli di pedagogia per la Revista Blanca, rivista di riferimento nella diffusione culturale anarchica dell'epoca gestita dalla famiglia Urales-Montseny.

La scuola autogestita Eliseo Reclus
Ma l'idea di fondo era creare una scuola autogestita e dopo aver letto con Francisco tutta l'opera di Dewey, De Cousinet e di altri pedagoghi, trovarono nell'Ateneo de les Corts grande entusiasmo per realizzare la loro proposta. I tre fratelli e la sorella minore Presen nel 1935 crearono la scuola Eliseo Reclus (anche José lasciò momentaneamente l'insegnamento ufficiale e con il suo titolo permise di legalizzare la scuola) basata sull'insegnamento razionalista ma, grazie agli studi approfonditi di Félix, con un passo avanti per quanto riguarda l'autogestione e l'orizzontalità: dopo aver visitato varie scuole razionaliste Félix si trova d'accordo sui metodi utilizzati (Ferrer, Tolstoj, Freinet) ma considera che l'iniziativa deve partire dai ragazzi e non dal maestro che continuava a dirigere in qualche modo la classe. La scuola Eliseo Reclus funzionava quindi con assemblee in cui maestri e alunni avevano la stesso potere decisionale, e una cooperativa che permetteva l'autogestione a livello economico. Inoltre riuscirono a coinvolgere gran parte del quartiere nel progetto grazie ad assemblee con i genitori, e serate con gli adolescenti.
La scuola venne criticata da altri maestri perché eccessivamente “politica” e mi sembra molto significativa la risposta di Félix: “se la politica è una questione del popolo, sarebbe assurdo escludere i bambini da questa dinamica fondamentale. (...) Se la pedagogia può avere un qualche valore, dovrebbe consistere nell'aiutare i giovani a uscire da un quadro tradizionale di oppressione e ingiustizia (...) Se la storia dell'uomo è una catena di lotte cruente tra dominatori e dominati, i bambini non possono ignorarlo né essere neutrali in questo eterno scontro”5. Purtroppo la scuola, come la la gran parte dei progetti dell'epoca, ebbe vita breve a causa del golpe militare. I suoi fratelli combatterono a Barcellona e poi al fronte (José morì negli scontri, Francisco combatterà tutta la guerra) e Félix, ormai cieco, venne incaricato di organizzare l'ospedale della Maternità, sempre situato nel quartiere de Les Corts, dove si volevano sgomberare le suore che lo gestivano senza avere personale preparato per sostituirle. Riuscì a organizzare assemblee con medici e infermiere, limitare la mortalità infantile dei bebè abbandonati con semplici accorgimenti di affetto e libertà di espressione. Quando l'istituzione tornò in funzione, si recò nella sua regione natale, l'Aragona, dove si stavano organizzando le collettivizzazioni in un ambiente di incredibile entusiasmo ma con poca capacità amministrativa.
Decise quindi di organizzare una Escuela de militantes, con l'obiettivo di formare adolescenti capaci di portare avanti le collettività contadine aragonesi a livello contabile e di organizzazione, anche tenendo conto dell'imminente mobilitazione militare degli adulti. La Escuela de militantes era un podere-fattoria in cui i ragazzi convivevano e lavoravano oltre a fare lezione; l'armonia nata dalla libera cooperazione, e il fatto di lavorare solo tre ore al giorno per mantenere il progetto sono un altro successo della connessione tra teoria e pratica di Félix. Di nuovo l'avanzata dei fascisti tronca il progetto in corso che si sposterà verso la frontiera francese finché saranno obbligati all'esilio nel gennaio 1939.

Dodici anni in carcere, tanti in esilio
Vennero accolti in un campo in un paese vicino alla frontiera svizzera dove organizzarono una scuola, e Félix ebbe occasione di conoscere Piaget e altri importanti pedagoghi durante un viaggio a Ginevra, prima di essere trasferito al campo di concentramento di Argelès-sur-Mer. Nonostante il trasferimento in diversi campi, continuava a organizzare un ambiente di autogestione e collaborazione finché non evase alla fine del 1943 e rientrò in Spagna attraversando i Pirenei all'inizio del 1944. Riprese il contatto con i compagni e partecipò alla lotta antifranchista con la pubblicazione di volantini e mantenendo in piedi la struttura della Cnt. Venne imprigionato più volte, passando dodici anni in carcere, castigo reso ancora più duro dall'impossibilità di leggere a causa della sua cecità.
Nel 1959 tornò in libertà ma con il divieto di vivere a Barcellona, decise quindi di trasferirsi in Francia dove propose un progetto di Escuela de Militantes; anche se l'accoglienza del progetto fu poco ottimista, vennero organizzati dei corsi estivi nella fattoria di Thil e pubblicati dei brevi testi che contribuirono alla formazione di Gruppi di Solidarietà.
Nel 1971 tornò in Spagna dove realizzò innumerevoli dibattitti sulle necessità del paese e sulla pedagogia libertaria ma la transizione distrusse gran parte del lavoro che i rimanenti affiliati alla Cnt stavano portando avanti. Di molte sue opere di teatro e poesia scritte prima e durante la guerra e negli anni di carcere non è rimasta nessuna copia, ma solo il racconto vibrante delle sue parole; le sue pubblicazioni sulle esperienze autogestite ci permettono di condividere il suo punto di vista e il travolgente sentimento libertario che lo ha guidato.

Valeria Giacomoni
Barcellona (Spagna)

Note

  1. Francisco Carrasquer: Zaragoza y Ascaso. Dos pérdidas: la pérdida, Alcavarán Ediciones, Zaragoza, 2003
  2. Intervista a Francisco Carrasquer, Tárrega, 25 luglio 2007
  3. Alejandro Tiana Ferrer: “El itinerario pedagógico de Félix Carrasquer” en Monografia dedicata a Félix Carrasquer sulla revista Anthropos, novembre 1988, Nº. 90, pp. 42-50
  4. Félix Carrasquer: “Autopercepción intelectual de un proceso histórico. Notas autobiográficas” en Monografia dedicata a Félix Carrasquer sulla revista Anthropos, novembre 1988, Nº. 90, pp.13-30
  5. A. Tiana Ferrer, op. cit.

Per saperne di più

Félix Carrasquer: La Escuela de Militantes de Aragón. Una experiencia de autogestión educativa y económica, Barcelona, Foil, 1978, 178 pp.

Félix Carrasquer: Una experiencia de educación autogestionada. Escuela Eliseo Reclus, calle Vallespir 184, Barcelona años 1935-1936, Barcelona, edición del Autor, 1981, 189 pp.

Félix Carrasquer: Las colectividades de Aragón. Un vivir autogestionado, promesa de futuro, Barcelona, Laia, 1986, 295 pp.

Monografia dedicata a Félix Carrasquer sulla revista Anthropos, novembre de 1988, Nº90




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