Rivista Anarchica Online





In lei la troverà

Intervista a Gabriella Gagliardo di Renzo Sabatini


A colloquio con una donna impegnata per i diritti delle donne, in particolare in Afghanistan e in Pakistan.
Parlando anche di De André e delle “sue” donne, dell'immaginario maschile, di Marinella e Biancaneve, della Buona novella....


Ho conosciuto Gabriella Gagliardo nel 1986, nell'umida primavera di Rio de Janeiro. Erano i tempi di un'inflazione galoppante che si mangiava i salari e mordeva i poveri. Lei era lì come volontaria di una ong e viveva fra i lavoratori più umili, nell'immenso ventre opaco della periferia di Rio, in una casupola senza neanche l'acqua potabile.
Aveva alle spalle già una lunga serie di attività che l'avevano vista al fianco delle Madres argentine, o in Nicaragua per la campagna sandinista di alfabetizzazione. In Brasile, sulla spinta della pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, realizzava un lavoro di “coscientizzazione” con le donne dei quartieri popolari, il che voleva dire, più o meno, aiutare quelle donne analfabete, povere e sfruttate, a costruirsi una coscienza critica, una consapevolezza della propria condizione di oppressione. Com'è nello spirito della pedagogia degli oppressi, Gabriella con questo lavoro educava e apprendeva allo stesso tempo. Non era partita, come tanti altri, con l'ansia missionaria o la presunzione dell'occidentale che crede di andare a portare la civiltà e quel lavoro era per lei anche un'esperienza preziosa di apprendimento, una fonte di conoscenze da utilizzare poi con altri gruppi di oppressi, una volta rientrata in Italia. Perché di oppressioni da cui liberarsi è pieno ogni angolo del pianeta.
Venticinque anni dopo Gabriella, in fondo, è sempre la stessa: la si ritrova impegnata a insegnare italiano ai figli dei migranti, o a organizzare un qualche evento di solidarietà con le donne afgane. Lo stesso entusiasmo di allora, la stessa determinazione, lo stesso spirito: imparare dall'esperienza altrui, per provare a cambiare anche da noi. Anche noi stessi. Conserva quell'antica passione per il lavoro di base e continua a non fregiarsi di alcun titolo.
Nel momento in cui mi sono trovato ad affrontare il tema delle donne protagoniste delle canzoni di De André, volendo analizzare questo aspetto da una prospettiva femminista, mi è sembrato naturale rivolgermi a lei, di cui conosco la passione per la poesia del cantautore ma anche il rigore con cui, sapevo, avrebbe analizzato quelle figure.

Hai una biografia piuttosto densa. Oggi insegni in Italia ma hai anche trascorso alcuni anni in America Latina come volontaria. Soprattutto sei stata sempre impegnata sul piano sociale e hai legato il tuo nome a quello di tanti movimenti, dalla Lega per i diritti dei popoli alle associazioni di solidarietà con le “Madres” argentine e con le donne afgane. Dacci un ragguaglio su questa tua biografia dell'impegno sociale.
«Mi sembra un po' esagerato parlare di biografia sociale, comunque sì, ho sempre seguito determinate tematiche e negli ultimi anni mi sono occupata prevalentemente di diritti umani delle donne, soprattutto sul piano internazionale. Ho seguito varie aree del mondo ma ultimamente mi sono concentrata principalmente sull'Afghanistan. Gestisco un sito che si occupa di questo ma l'informazione è solo uno degli aspetti perché quello che ci preme è, in primo luogo, mettere in collegamento organizzazioni e movimenti che si occupano di queste tematiche per organizzare poi iniziative specifiche. Come insegnante invece mi occupo soprattutto dell'inserimento degli stranieri nella scuola media della periferia milanese, in classi che sono ormai decisamente multietniche».

Il sito che curi si chiama Iemanjà1 e il gruppo con cui lavori sull'Afghanistan si chiama Comitato italiano di solidarietà con le donne di Rawa2. Che cosa fate esattamente?
«Iemanjà si offre come mezzo di comunicazione che mette in collegamento gruppi e movimenti di donne. In questi anni abbiamo seguito i lavori della Marcia mondiale delle donne e di altre reti, ad esempio quelle che si occupano dei diritti delle migranti. Seguiamo anche alcune iniziative specifiche, come la campagna Abiti puliti, che cerca di mettere a fuoco i problemi delle donne lavoratrici nelle industrie tessili dislocate soprattutto in Asia e Africa e organizza campagne di boicottaggio contro le ditte che non garantiscono i diritti fondamentali delle lavoratrici e dei lavoratori. In Italia Iemanjà ha aiutato anche a costituire un coordinamento tra vari gruppi e associazioni, anche molto eterogenee fra loro, che da molto tempo si occupano della solidarietà con le donne afgane. In particolare lavoriamo con Rawa3, che è l'organizzazione rivoluzionaria delle donne afgane. Quest'impegno, negli ultimi anni, ha assorbito gran parte delle nostre energie perché, con tutte le emergenze che ci sono state in Afghanistan abbiamo pensato che fosse importante intensificare questa attività. Questo sia perché loro avevano bisogno di sostegno politico e anche di finanziamenti per il sostegno dei loro progetti in ambito sociale; sia, soprattutto, perché pensiamo che il punto di vista delle donne afgane, l'esperienza di lotta che stanno sviluppando nel loro paese, rappresentino un contributo prezioso anche per i movimenti italiani. Quindi abbiamo sentito la responsabilità di cercare di veicolare, all'interno dei movimenti italiani, i contenuti dell'impegno delle donne afgane, perché questi contenuti potrebbero arricchire molto il nostro modo di fare politica o di operare sul piano sociale e culturale».

È abbastanza sorprendente apprendere che esiste ed opera un movimento rivoluzionario delle donne afgane. Immagino che non sia facile per queste donne agire in un paese dove la loro condizione è tanto discriminata. Parlaci di queste donne. Come si muovono, come ce la fanno?
«Rawa è un'organizzazione che ha circa trent'anni di vita ed è ormai molto radicata. Queste donne hanno vissuto tutto il periodo che va da prima dell'invasione sovietica a tutta la lotta contro l'invasione sovietica, alla lotta contro il fondamentalismo che contemporaneamente si andava affermando. Quindi hanno dovuto lottare costantemente su due fronti e l'organizzazione è stata sempre clandestina perché già al momento della fondazione non era possibile per le donne organizzarsi alla luce del sole. Rawa ha sviluppato il suo intervento lavorando soprattutto con le donne più povere, le donne di base, a cominciare dal lavoro di alfabetizzazione. Bisogna considerare come, all'epoca, la grandissima maggioranza della popolazione femminile, oltre il 90 per cento, fosse completamente analfabeta. Quindi l'alfabetizzazione è stata considerata la priorità assoluta anche perché attraverso il lavoro di alfabetizzazione c'era la possibilità di sviluppare un lavoro di presa di coscienza dei diritti umani fondamentali da parte delle donne.
Questo lavoro è stato strutturato mediante piccolissimi gruppi clandestini che lavoravano nelle case e che, alfabetizzando le donne, facevano in modo di formare anche persone che fossero poi in grado di diffondere, a loro volta, il lavoro di formazione, sempre a livello di ambiente popolare. Questo lavoro, proprio perché veniva svolto da donne che in quanto tali non erano assolutamente considerate in grado di fare qualcosa di pericoloso per lo stato o per il regime, ha avuto risultati enormi, nonostante la fortissima repressione. In questo modo Rawa ha conseguito un forte radicamento a livello popolare.
Poi, quando milioni di afgani sono dovuti andare all'estero come profughi, le donne di Rawa sono state molto presenti anche fra i profughi e hanno rafforzato moltissimo il loro lavoro, soprattutto in Pakistan, dove sono arrivate a gestire completamente alcuni campi profughi, organizzandoli secondo le idee che nel frattempo avevano sviluppato, per esempio impostando in un certo modo i servizi educativi e sanitari all'interno dei campi. Ancora oggi le donne di Rawa sono molto presenti all'interno dei campi di rifugiati afgani in Pakistan, oltre ad essere presenti, ovviamente, in Afghanistan, dove si sono reinserite massicciamente dopo la caduta dei Talebani, lo smantellamento di molti campi e il rientro dei rifugiati. Oggi in Afghanistan le donne di Rawa realizzano soprattutto un lavoro di tipo sociale.
Oltre all'alfabetizzazione, che continua, organizzano corsi professionali che consentono alle donne di avviare un'attività e avere un reddito. Si occupano di salute attraverso una serie di ambulatori ed hanno costituito una rete di micro orfanotrofi, sorta di case famiglia che sono anche delle scuole a tempo pieno, in cui i bambini vengono cresciuti con una grandissima attenzione alla loro formazione. Molte delle leader attuali del movimento, giovanissime, sono in realtà cresciute in questi orfanotrofi, negli ultimi venti, trent'anni. Gli orfanotrofi accolgono bambine e bambini ed educano all'uguaglianza tra i sessi e tra le diverse etnie, tagliando alla radice i presupposti che permettono all'integralismo e al fondamentalismo di esercitare un potere sulla coscienza. Opporsi alle discriminazioni e all'ingiustizia e sottoporre a critica le decisioni dei responsabili sono scelte fondanti del modello pedagogico di Rawa, applicate in modo sistematico nelle loro scuole».

Un'immagine mitica

Passando a De André, mi interessa molto il tuo sguardo di donna così attenta alla condizione delle donne. Le canzoni di De André sono popolate di personaggi femminili spesso vittime di vari tipi di oppressione. Come ti ritrovi in questo mondo cantato da De André? Sono donne reali o solo personaggi di canzoni?
«A me le sue canzoni sono sempre piaciute moltissimo per la musica e soprattutto per la voce con cui lui riusciva a interpretarle. Però le donne delle sue canzoni, spesso, non sono personaggi nei quali mi sembra possibile riconoscersi, almeno oggi. Bisogna tener conto che ormai sono trascorsi molti anni da quando le prime canzoni, quelle più famose, sono state scritte. Sono canzoni della fine degli anni cinquanta, inizio dei sessanta, quindi precedono il sessantotto e il femminismo degli anni settanta. Sarebbe anche ingiusto aspettarsi una coscienza femminista in un tipo di testo che viene ben prima che certe tematiche si fossero sviluppate in Italia. Quei personaggi invece direi che risentono di un altro tipo di coscienza che De André aveva sviluppato negli anni della sua gioventù e rispetto a quello ha sicuramente precorso i tempi. Perché prima ancora che scoppiasse il sessantotto c'è in De André questo tema della repressione sessuale contro cui le sue canzoni si scagliano in maniera polemica, utilizzando spesso l'ironia. Quindi, in questo senso, le figure femminili servono più che altro per esprimere questa legittima esigenza di liberazione, vista però ancora da un punto di vista molto maschile, senza un'analisi dell'oppressione di genere. Infatti, l'immagine della prostituta che ricorre in molte canzoni è un'immagine completamente mitica, non è storica. È la proiezione di questo desiderio maschile di una libertà sessuale in cui il sesso, invece di essere qualcosa di proibito, di oscuro, di cattivo, l'incarnazione stessa del male, diventa invece l'incarnazione del piacere, del bello, della felicità, della vitalità, dell'energia positiva. Per cui queste prostitute sono figure felici, solari, ma non sono autentiche».

Però, proprio parlando delle “creature che si guadagnano il pane da nude”, molti hanno affermato che le canzoni di De André sono servite a restituire dignità alle prostitute. Da questi microfoni ce lo ha confermato proprio Carla Corso4, già prostituta e poi fondatrice del Comitato per i diritti civili delle prostitute. Secondo te invece c'è il rischio solo di mitizzare ed esaltare una realtà che è poi la mercificazione del corpo femminile a uso e consumo dei maschi?
«Io penso che in De André (penso a quelle prime canzoni ma anche a quando ha riscritto alcune poesie dell'Antologia di Spoon River) ci sia anzitutto una problematica di tipo esistenziale, una sorta di indagine sulla condizione umana in generale. In questo senso le prostitute di De André fanno parte di quella umanità derelitta, emarginata e condannata dalla società che invece lui rivaluta perché, in queste figure apertamente sconfitte, riconosce qualcosa di profondamente universale. È quindi la condizione umana che è più evidente in queste figure. La loro debolezza, i loro limiti, la loro sofferenza. Ma anche l'oppressione che subiscono emerge in maniera inequivocabile. Però se si vanno a vedere proprio i testi dell'Antologia di Spoon River che lui ha selezionato per la sua raccolta, si vede che ha scelto tutti personaggi maschili, mentre le figure femminili sono solo degli scorci, restano sullo sfondo. Comunque mi sembra che quello di De André sia soprattutto un discorso sulla condizione umana. Per quanto riguarda le prostitute in particolare non mi sembra che siano mai rappresentate come persone con una loro identità. È come se fossero più nell'ambito della natura che della storia, come se si trovassero in una certa condizione per natura. Se guardiamo alla Canzone di Marinella, che De André ha scritto rivedendo e trasfigurando proprio la vicenda di una prostituta che era stata assassinata e gettata in un fiume, vediamo che ci propone una figura di donna, che poi forse è rimasta anche un po' come modello per i suoi successivi personaggi femminili, che esiste solo nelle favole. C'è lei, c'è il principe e ci sono tutti i simboli: il fiore, l'acqua, la stella... e lei alla fine, cadendo nell'acqua, ritorna alla natura, ovvero torna a far parte di questo ciclo naturale a cui le donne sono destinate, secondo il mito tradizionale. Cioè secondo questo mito, che qui non viene messo in discussione, le donne non sono mai dentro la storia ma dentro la condizione della natura, quindi non c'è mai nessuna possibilità di riscatto. Quindi tutte queste prostitute che si incontrano nel canzoniere di De André e a cui lui guarda certamente con grande simpatia non hanno mai via di scampo perché, essendo un mito, sono destinate a rimanere eternamente in quella posizione».

Continuando a parlare di prostitute, che ne pensi di Nancy, che lui ha tradotto da Leonard Cohen? I suoi clienti sembrano immaginarla serena, forse addirittura felice, ma poi lei muore suicida. Molti hanno sfiorato il suo corpo ma nessuno l'ha capita. Non ti pare che qui De André ci comunichi anche la superficialità di molti uomini che forse si nascondono dietro le loro certezze e rinunciano a farsi domande sulla sofferenza delle donne che si ritrovano accanto?
«Di Nancy mi colpisce soprattutto quella frase in cui dice: “Si innamorò di tutti noi”. Non dice che i clienti si sono innamorati di lei ma è Nancy a essersi innamorata di tutti loro. Poi la strofa prosegue con quei versi: “Dicevamo che era libera e nessuno era sincero, non l'avremmo corteggiata mai, eccetera”. Ecco, c'è questa idea della prostituta che si innamora dei suoi clienti che è il massimo del sogno maschile! C'è questo immaginarsi una disponibilità totale, anche se è una disponibilità che deve essere condivisa con una serie di altri uomini. E c'è questa idea che lei fosse libera, che rappresenta una totale negazione della realtà, un'idea della prostituzione completamente mistificante. Da questo punto di vista mi sembra anche molto ingenua la maniera di De André di parlare delle prostitute e che quindi non ci sia la possibilità di riconoscere l'identità di qualcuna o la storia di qualcuna ma soltanto una rappresentazione, anche molto bella, molto ricca, di questo mito, che è anche un mito estremamente tradizionale. Mi sembra che il fatto che lei, poi, muoia suicida, confermi quello che dicevo prima parlando di Marinella, ovvero che a queste figure non si dà scampo. Non si può comunicare realmente con un mito, quindi il finale deve per forza essere tragico. Anche in altre canzoni mi sembra che non ci sia un finale che permetta l'idea di una comunicazione e di un cambiamento di prospettiva, una via d'uscita. Sono situazioni cristallizzate».

Le vedove in testa

Be', le canzoni di De André che hanno un finale positivo sono rare, però non dobbiamo dimenticare Angiolina, che dopo tanti fallimenti, “Si veste da sposa, canta vittoria, volta la carta e finisce in gloria”! Comunque, restando su questo tema, bisogna ricordare che in un'intervista De André ha detto: “Se la sofferenza porta alla santità non capisco perché la Chiesa non ha mai santificato una prostituta”. Come la vedi una provocazione di questo genere?
«Come provocazione va benissimo, la trovo assolutamente opportuna! Certo che però in un'intervista di questo genere salta fuori che la prostituzione non nasce affatto da un'adesione gioiosa, da una scelta e che si tratta invece di una realtà di sofferenza. Quindi mi sembra che questa coscienza nel momento in cui parla ci sia ma nel momento in cui elabora artisticamente scompaia. Comunque rispetto alla Chiesa la trovo senz'altro una provocazione molto, molto opportuna».

La riflessione sulla santità delle prostitute ci traghetta verso l'album in cui De André ha dedicato riflessioni molto delicate e profonde alle donne del Vangelo, da Maria alle madri dei ladroni. Tu hai sempre avuto una particolare attenzione verso il cristianesimo, le vicende narrate nei Vangeli. Come ti sembrano le donne descritte da De André nella Buona novella?
«La buona novella per me è una delle raccolte più belle di De André, anche dal punto di vista musicale. Lo dico non da esperta, ma da semplice ascoltatrice: secondo me in De André la trasmissione di gran parte dei significati passa non solo attraverso i testi ma anche attraverso la musica. Cioè le sue canzoni non si possono considerare semplicemente come testi poetici, avulsi dalla musica in cui nascono e questa operazione nella Buona novella è particolarmente riuscita. I personaggi femminili del Vangelo descritti nella Buona novella sono personaggi significativi, intanto perché nella prima parte c'è tutta l'infanzia di Maria. È una ricostruzione che si rifà ai Vangeli apocrifi e che quindi non è completamente frutto della sua immaginazione ma che comunque è sicuramente ampiamente rielaborata. C'è un'attenzione forte a questa situazione di oppressione che la cultura e il contesto sociale costruiscono attorno alla figura di Maria, rispetto alla quale lei trova una scappatoia, che però rimane molto ambigua, nel senso che non è mai evidente che cosa realmente sia successo, se lei abbia vissuto una relazione amorosa con qualcuno, se sia stato un sogno, se sia stato un angelo. Resta un margine di ambiguità di questo suo destino che comunque prende una strada diversa perché in qualche modo lei risponde liberamente alla possibilità di una strada diversa. Quindi c'è un'apertura che rende questo personaggio molto più umano.
Poi ci sono le donne sotto la croce, ci sono le madri dei ladroni: sono personaggi che riescono a rappresentare i valori universali dell'umanità e, finalmente, in Via della croce, le donne come tali costituiscono un gruppo sociale distinto e contrapposto ad altri gruppi. Ogni strofa individua infatti un gruppo che reagisce diversamente all'esecuzione di Gesù. Ci sono i padri dei neonati trucidati da Erode, quelli che considerano Gesù un ciarlatano colpevole di avere attirato la violenza del potere sugli innocenti. Ci sono i discepoli sgomenti e terrorizzati, incapaci di stargli vicino. Ci sono i potenti che si rilassano, anche perché nessuno protesta. E infatti umili, straccioni, poveri, cioè quelli che appartengono a Gesù, che lo amano come se stessi (così dice sorprendentemente il testo di De André) non esibiscono il loro dolore e non ci sono sotto la croce, se mai ci sono sopra, rappresentati dai due ladroni crocifissi con lui. Ecco, tra questi gruppi troviamo finalmente il gruppo delle donne. La descrizione di queste donne è veramente tragica: non si vede la faccia, perché sono curve e col velo fin sugli occhi. “Fedeli umiliate da un credo inumano”, è la stessa loro fedeltà che le condanna a essere “schiave già prima di Abramo”.
Intrappolate in un ciclo mitico come i personaggi femminili che abbiamo visto fin qui? Direi proprio di no! Infatti, a differenza delle donne rappresentate finora, queste si muovono! Oddio, si muovono a fatica, e chi cammina in testa sono proprio le più sfigate, quelle senza alcun valore sociale, probabilmente non più buone nemmeno come merce sessuale: le vedove. Ma queste donne ora si identificano con Gesù: con riconoscenza soffrono la sua pena. Loro vedono benissimo che il Dio di Gesù non è quello a cui loro erano fedeli prima, poiché Gesù “una nuova indulgenza insegnò al padreterno”. Loro riconoscono in Gesù, che ha perdonato Maddalena, che le è stato fratello, cioè che si è messo alla pari con lei, un redentore. Lo seguono sulla via della croce perché quel sistema di potere che uccide Gesù è lo stesso che soffrono loro, la sua sofferenza è la loro stessa sofferenza, e la loro possibilità di riscatto dipende da come va a finire questa storia. Ecco qui finalmente un'apertura. Certo lo ammazzano, ma questo apre una strada nuova e la sconfitta di Gesù e del suo progetto, per chi decide di camminare, non è affatto definitiva, anzi vale la pena andare avanti. Infine, l'accostamento delle tre madri (Maria e le due madri dei ladroni, una che non si sa neanche da chi abbia avuto 'sto figlio delinquente) esalta fino allo spasimo la potenza tutta terrestre dei legami affettivi, del valore della vita umana, della cura della vita di cui le donne sono depositarie. È molto forte la rappresentazione delle tre donne insieme, in un unico gruppo solidale».

Possibilità di scelta

Come ti sembrano invece quelle donne della galleria deandreiana che hanno un'estrazione più borghese? Penso ad esempio alla protagonista di Giugno '73 o alla moglie dell'impiegato in Verranno a chiederti del nostro amore. Donne che, secondo me, sembrano aver perso spontaneità, i cui comportamenti paiono dettati dalle convenzioni della classe sociale cui appartengono.
«Verranno a chiederti del nostro amore io l'ho letta all'interno della raccolta che la contiene, Storia di un impiegato, un album che esce dopo i fatti del sessantotto, quindi quando c'è già un clima diverso, pieno di fermenti, di discussioni all'interno degli ambienti di sinistra che De André sicuramente frequentava. Storia di un impiegato è un album che riesce a esprimere con forza tutte le tensioni che ci sono all'interno di questa sinistra, tutte le tematiche della contestazione di quegli anni contro le varie oppressioni, quella sessuale, quella delle relazioni familiari, delle istituzioni come il matrimonio, l'oppressione del potere politico. C'è proprio la contestazione degli istituti che controllano, regolano, bloccano la possibilità degli individui di autorealizzarsi; penso per esempio alle figure del padre e della madre nel Ballo mascherato. In questo ambito c'è questa canzone, Verranno a chiederti del nostro amore, questa lettera rivolta a una donna. Io qui non colgo tanto l'estrazione borghese, che è probabile ma forse non è particolarmente significativa all'interno di questo lavoro in cui i personaggi vengono un po' tutti da un ambiente di classe media. Quello che mi colpisce in questa canzone è che qui il problema di scegliere finalmente si pone. Viene posto, certo, in modo polemico, perché il protagonista, proprio alla fine della canzone, dice: “Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?”. Ma il fatto che lei possa finalmente prendere delle decisioni evidentemente è qualcosa che mette in crisi la normale relazione che avrebbe potuto esserci, perché evidentemente c'è una relazione che è finita, c'è la possibilità che lei scelga di andare a vivere con un'amica o con un altro uomo. Che decida, insomma, di fare qualche cosa della sua vita. E questa decisione non è necessariamente solo quella di vivere con un uomo. C'è la possibilità che scelga altro, che decida dove stare, cosa fare. Quindi questo disagio che si sente nella canzone, rispetto a questa relazione che non ha funzionato, lo vedo legato ai cambiamenti, al fatto che non è più così facile cantare la bellezza di questa donna e la ciclicità naturale dell'amore, perché è una relazione che, finalmente, è uscita dal mito ed è entrata nella storia. Quindi ci sono dei conflitti, c'è una realtà da affrontare».

Vorrei commentare con te questa frase ripresa da un'intervista rilasciata da De André a un giornalista: “Forse per un'educazione di stampo maschilista ho sempre considerato la donna come l'immagine e il simbolo del sacrificio. Prima di tutto quello della maternità, una malattia sconosciuta all'uomo, che dura nella sua fase acuta per nove mesi e poi continua per tutta la vita. Poi quello grave della prostituzione. Un altro ancora, improvvisamente ricomparso, è quello della verginità. Laddove vedo la donna come simbolo del sacrificio, con gli stessi occhi, vedo noi uomini come simbolo della prevaricazione, tante volte associata all'optional della violenza”. Come donna come ti ritrovi in questa analisi della società che vede da una parte le donne simbolo del sacrificio e dall'altra gli uomini simbolo della prevaricazione?
«Identificherei questa come l'immagine più antica, quella che lui canta nei suoi primi lavori, dove le donne, come dicevo, sono legate al mito, quindi come immagine del sacrificio sono inchiodate a questa loro condizione “naturale”, dalla quale non possono spostarsi sul piano della storia. Però con Storia di un Impiegato, che è appunto un lavoro posteriore al '68, ci sono delle mutazioni. Quando si riferisce alla madre, nel Ballo mascherato, in modo certo ironico, corrosivo e anche rabbioso, si vede che qualcosa è cambiato. Perché per la madre del protagonista il martirio è addirittura “il suo mestiere, la sua vanità”, quindi qui la madre è pienamente nel ruolo della donna come simbolo della sofferenza e del sacrificio. Però questa madre ora “accetta di morire soltanto a metà, la sua parte ancora viva le fa tanta pietà”. Quindi qui, anche da parte di una persona non più giovanissima, non c'è più la totale adesione, senza dubbi e senza remore a questo ideale di sacrificio e di immolazione totale di sé. Per cui c'è qualcosa che sta cambiando. In questo caso la consapevolezza non sembra portare molto lontano perché l'unico sentimento che riesce a suscitare è il fatto di riconoscere di avere ancora una parte viva, ma con grande commiserazione. Del resto siamo in un contesto in cui ognuno cerca di costruirsi una maschera e apparire in un certo modo. Però qui c'è un passo avanti rispetto all'idea della donna che è solo sacrificio senza speranza».

Andando molto avanti nel tempo, c'è una canzone cantata in genovese nell'ultimo album di De André, che si intitola: 'A cumba, la colomba, ambientata in una campagna immaginaria. Qui assistiamo alla trattativa fra il padre di una ragazza e il suo pretendente, che alla fine la spunta e riesce a far “volare” la colomba, ovvero la ragazza, dalla casa paterna al suo casale. Sembra una favola ma la frase finale racconta che la storia finisce male per la ragazza: “Serva a strofinare per terra, con il marito a zonzo”. Che valore ha un testo così pubblicato in un contesto storico molto diverso, alla fine degli anni novanta?
«Qui viene ripresa una visione molto tradizionale, quella degli uomini che usano la donna come merce di scambio. Gli uomini comunicano tra loro e usano le donne, che non sono riconosciute come soggetti. Come stile letterario qui, in qualche modo, De André sembra volersi richiamare a quei testi di tradizione medievale che troviamo come adattamenti e traduzioni in alcune delle sue prime canzoni. Riprendere questo argomento negli anni novanta secondo me è validissimo perché questo problema non è un problema che appartiene al passato o che sia risolto nella storia. Purtroppo nel fondo della coscienza collettiva è rimasta molto radicata questa tradizione culturale e il fatto di rappresentarla in qualche modo la denuncia. Se l'idea della denuncia non era così esplicita, come senz'altro non lo era nei testi medievali, cantarla adesso, con l'aggiunta di quel verso finale in cui, uscendo dall'immagine retorica di questa bellissima colomba, si vede che cosa poi comporti per lei, nella realtà, questa transazione, solo quello rende questa rappresentazione una denuncia del fatto che questa condizione non è ancora cancellata, anzi, è ben radicata e presente nella nostra condizione culturale».

Guerrieri e vecchi professori

Tra gli aspetti sottolineati dal canzoniere di De André c'è anche la violenza, fisica e morale contro le donne. Penso per esempio al vecchio ricco che seduce la giovinetta nella Leggenda di Natale, canzone della seconda metà degli anni sessanta. Penso al re che conclude la transazione con il marchese prendendosi la marchesa e ripudiando la regina in Il re fa rullare i tamburi. Penso a “Maggie uccisa in un bordello dalle carezze di un animale” in Dormono sulla collina, e così via. Ti sembra che De André abbia colto nel segno parlando di questi aspetti? Si poteva magari scegliere un linguaggio più esplicito?
«Mi sembra che il linguaggio sia comunque abbastanza esplicito, tenendo presente che è un linguaggio poetico. È come se in De André il maschile fosse visto su due linee. Da una parte c'è l'aspetto negativo, che viene presentato attraverso la denuncia dei comportamenti che portano all'aggressione, alla violenza, al sopruso, fino alla guerra. Qui c'è da includere anche tutto il filone antimilitarista. C'è questa idea del maschile in cui si utilizza molto l'ironia, anche nell'ambito di testi che di per sé non sono ironici. Penso per esempio a Fila la lana, dove la donna aspetta il marito che è morto in battaglia. Anche se non è una canzone ironica c'è quel verso molto ironico all'inizio: “Se sia stato un prode eroe non si sa, non è ancor certo”. Un verso che, da solo, mette in dubbio tutta la retorica militare sul valore del cavaliere, mentre il resto della canzone è concentrato sul dolore della sposa che aspetta invano il suo ritorno. Quindi il maschile, visto in maniera guerrafondaia, aggressiva, prevaricatrice, viene senz'altro denunciato.
C'è poi un'altra immagine del maschile, anche quella, direi, piuttosto decadente. Non ci sono grandi eroi ma figure piuttosto meschine. Dal vecchio professore della Città vecchia a questa massa di perdenti, che magari trova rifugio nelle prostitute. Rispetto a tutta questa umanità maschile dolente c'è una certa indulgenza che a volte potrebbe sembrare anche compiacimento, come accade spesso, ad esempio, nell'ambiente dei drogati, fra loro stessi. Probabilmente fa parte della cultura del poeta maledetto essere dentro questo clima che comunque ha qualcosa di affascinante ed è anche legato alla possibilità di essere creativi, di essere personaggi positivi pur nella propria debolezza, anzi compiacendosi anche un po' dei propri limiti, della propria debolezza, come aspetto della condizione umana da accettare».

Però c'è da tener presente che molte delle canzoni che hai citato sono nate alla fine degli anni sessanta, nell'ambito del tentativo di ribaltare la morale comune. In quelle canzoni diviene protagonista un'umanità che, secondo il sentire comune, non avrebbe neanche dovuto trovar posto in una canzone.
«È vero e in questo De André ha sicuramente precorso i tempi, perché molte canzoni che sono state scritte ben prima del sessantotto mettevano in crisi proprio questa morale dell'epoca e questo è stato un merito. Per questo molte generazioni si sono nutrite di quelle canzoni».

Torniamo a Marinella, di cui hai parlato all'inizio. È un po' un mostro sacro, anche perché è stato il primo successo commerciale di De André quando l'ha interpretata Mina. Come ha scritto lui stesso, negli ultimi anni della sua vita, è stato proprio quel successo inaspettato a convincerlo a continuare sulla strada della canzone, abbandonando gli studi di giurisprudenza. Tu hai già ricordato che la canzone era ispirata alla storia di una giovane prostituta uccisa brutalmente e scaraventata in un fiume. Una storia che De André raccontò di aver letto sulla cronaca locale appena quindicenne, quindi verso la metà degli anni cinquanta. Però tutto questo retroscena De André l'ha raccontato solo negli anni novanta. Per decenni Marinella è stata vista come una favola d'amore molto ben riuscita nella fusione fra versi e musica. Per questo De André, negli anni della contestazione, ricevette anche molte critiche e nel 1973 il movimento femminista romano ne fece una versione in chiave femminista dove Marinella diventava una moglie/schiava che “lavava i piatti da mattina a sera”. Rivista alla luce delle rivelazioni di De André sull'origine della canzone, secondo te Marinella resta una: “canzonetta”, come scrisse Giuseppe Vettori nel suo Canzoni italiane di protesta? Avevano ragione le femministe degli anni settanta, oppure la possiamo rivalutare?
«Secondo me Marinella va ascoltata come si ascoltano le favole, come si ascoltano Biancaneve o Cenerentola. Le favole le puoi leggere a tanti livelli e in tanti modi, però è su quel piano che va letta, perché si tratta di una storia ricca di simboli, come nelle favole. Marinella è come La bella addormentata, che a un certo punto viene svegliata dal principe e che lei segue senza una ragione. Di positivo, in questa favola, c'è il fatto che la relazione anche erotica, sessuale, viene vista in maniera assolutamente positiva. Considerando che comunque in quegli anni il sesso veniva visto in maniera negativa e la donna veniva considerata l'incarnazione di una sessualità che faceva paura, che rappresentava la tentazione, allora, in questo senso, una canzone di questo tipo conserva una funzione positiva. Però resta il fatto che il personaggio femminile non è reale, è una proiezione dell'immaginario maschile. Io non conosco la versione alternativa, però immagino che le femministe di quegli anni avessero delle buone ragioni per contestare un mito di questo tipo, perché si doveva uscire dall'idea di Biancaneve; perché la prospettiva di Marinella, che alla fine ricade nel fiume, non lascia scampo, ed era quindi una prospettiva inaccettabile per un movimento femminista che stava cercando di trovare delle strade diverse».

Le donne di Atene

C'è da dire che la Marinella di De André cade nel fiume anche perché ricalca così il destino della ragazza che ha ispirato la canzone, che fu appunto assassinata e gettata in un fiume.
C'è qualche protagonista delle canzoni di De André che proprio non sopporti? Che magari rappresenta uno stereotipo tale che saresti contenta se De André non l'avesse mai cantata?

«Direi di no e comunque anche gli stereotipi è importante che vengano rappresentati. Si tratta di opere artistiche e quindi non è che si leggano come altri tipi di testi. Nel momento in cui si ascoltano, si interpretano. Comunque, laddove si vede rappresentato un mito che al suo interno ha qualcosa di negativo per le donne, è comunque bello e importante che venga rappresentato, perché se ne prende maggiormente coscienza. Quindi io non toglierei assolutamente nulla».

Francesco De Gregori ha detto che “le canzoni di De André costituirono una tappa importante della nostra crescita morale e culturale”. Evidentemente si riferiva soprattutto alle canzoni degli anni sessanta, che lui ascoltava da ragazzo, prima di diventare lui stesso cantautore. Da un punto di vista prettamente femminista le canzoni di De André di quegli anni, potrebbero essere servite a una qualche crescita?
«Potrebbero essere servite agli uomini per prendere coscienza della propria situazione di repressione sessuale. Potrebbero averli aiutati a riconoscere l'aspetto ironico della propria sessualità, a riconoscere e mettere in discussione quegli aspetti della cultura maschile che riguardano l'aggressività, la prevaricazione o il mito dell'eroismo. Sono canzoni che potrebbero aver spinto gli uomini a riflettere su se stessi, ma non credo a prendere coscienza di una repressione di genere o del fatto che si possa avere un punto di vista diverso, da parte femminile, sulla realtà. Del resto è un'idea che ancora proprio non esisteva nel contesto in cui sono state scritte quelle canzoni».

Sicuramente ti sarai imbattuta in tante canzoni, romanzi e poesie scritte da uomini che parlano delle donne in un modo che non hai apprezzato. Ti è capitato di imbatterti in artisti maschi che hanno lasciato invece una traccia positiva parlando o cantando di donne?
«Chico Barque5, che è brasiliano, ha scritto molte canzoni, che parlano di donne, che mi piacciono molto. Per esempio c'è una canzone in cui parla dell'esempio delle donne di Atene6, in cui mette bene a fuoco la loro oppressione. È una canzone ben fatta sia dal punto di vista del testo che musicale, tanto che quando lavoravo in Brasile l'abbiamo utilizzata molto con vari gruppi di donne a livello popolare. La facevamo ascoltare e serviva per iniziare una discussione sulla condizione femminile. Alcune donne, che magari erano anche molto, molto ingenue, recepivano quella canzone come un invito a identificarsi con quel modello delle donne di Atene e si arrabbiavano moltissimo perché, attraverso quelle immagini, veniva fuori molto chiaramente la condizione di oppressione che loro vivevano quotidianamente. Il testo era già fatto in modo da facilitare questo tipo di reazione. Quindi una donna si arrabbiava moltissimo perché si sentiva invitata a immedesimarsi in quell'esempio, oppure capiva che era ironico e da lì cominciava a esprimere tutto quello che aveva riconosciuto della sua esperienza».

Be', se vuoi la puoi utilizzare anche nel tuo lavoro con le donne dei quartieri popolari della cintura milanese, perché quella canzone è stata ricantata in italiano, non so se con la stessa efficacia, proprio da un cantautore milanese, Eugenio Finardi.7
Nella tournée del 1993 De André dedicava tutto il primo tempo del suo spettacolo ai personaggi femminili delle sue canzoni. Ho un ricordo personale, perché andai a vederlo in teatro: in quel concerto De André raccontava della difficoltà, per un artista maschio, di entrare nell'universo femminile, della sensibilità necessaria per capirlo fino in fondo. Ammetteva insomma la propria difficoltà oggettiva.8 Visto da una prospettiva femminista questo fatto di un artista uomo che cerca comunque di entrare nell'universo femminile ma non ci riesce fino in fondo e lo ammette, come lo vedi? È comunque un nobile tentativo oppure ci vedi una negatività o addirittura una forma di autocompiacimento dell'artista?

«No, il tentativo di guardare al mondo da una prospettiva diversa va comunque sempre incoraggiato. È legittimo cercare di farlo e comunque è da apprezzare anche un risultato parziale. Quindi lo considero un atteggiamento assolutamente positivo».

Il mondo della canzone d'autore è prevalentemente maschile. Secondo te perché ci sono poche donne cantautrici? Anche in questo campo le donne fanno fatica ad entrare?
«Evidentemente sì. Non è un ambiente che conosco, ma è una questione che riguarda tutti i campi. Anche nella letteratura e nelle altre arti è così, quindi non mi stupirei se fosse lo stesso nel mondo della canzone. Ci sono tanti condizionamenti a monte, dei limiti che le donne in genere già si pongono a causa dell'istruzione ricevuta, non parlo soltanto dell'educazione personale ma proprio anche dello sviluppo stesso della storia che condiziona, per cui ci si pongono dei limiti, l'autostima non è molto forte, la fiducia nelle proprie capacità creative non è tale da spingere a impegnare grandi energie per cercare il successo in questi ambienti. Si aggiungono poi le difficoltà esterne, oggettive, che chiudono le strade e rendono tutto molto più difficile. Questo lo dico per come è organizzato il mercato culturale in tutti i suoi settori e quindi non sarei stupita se il mercato discografico presentasse le stesse caratteristiche».

Visto che hai parlato di queste difficoltà, avviandoci verso la conclusione dell'intervista vorrei tornare a parlare un po' di te. Dopo tutti questi anni di impegno sociale, di esperienze femministe e di lavoro concreto con le donne, te la senti di provare a tracciare un piccolo bilancio? Ti sembra di poter essere ottimista sul futuro oppure siamo ancora molto indietro sulla condizione femminile e sul rapporto uomo/donna?
«C'è sicuramente ancora moltissima strada da fare. Il dato positivo di questi ultimi anni è il fatto che è molto più facile comunicare, anche a livello internazionale, attraverso le nuove tecnologie e questo sta accelerando molti processi, perché anche la costituzione di reti, l'organizzazione di eventi, la collaborazione continuativa fra diverse organizzazioni è oggi molto facilitata, grazie a questa facilità e velocità di comunicazione di informazioni. Questo può senz'altro facilitare degli sviluppi. Però dal punto di vista delle condizioni materiali delle donne a livello planetario, basta leggere anche solo i rapporti ufficiali degli ultimi anni delle agenzie internazionali: il quadro che ne emerge, i dati statistici, dimostrano oggettivamente che la situazione è ancora estremamente difficile, una situazione di repressione molto forte e di grande discriminazione. Quindi resta ancora da percorrere moltissima strada».

Renzo Sabatini

Note

  1. Al momento il sito non è più attivo, ma il progetto è di riattivarlo nei prossimi anni.
  2. Dai tempi dell'intervista il comitato ha allargato il suo sostegno ad una serie di altre associazioni e movimenti ed è stato ribattezzato Cisda, Comitato Italiano di Sostegno alle Donne Afgane (osservatorioafghanistan.org).
  3. Revolutionary Association of Women of Afghanistan. Per approfondimenti si consiglia di visitare il sito dell'organizzazione (rawa.org), di grande interesse sia per una miglior comprensione della metodologia di lavoro e di lotta delle donne afgane, sia per approfondire la conoscenza della situazione nel paese, in relazione a tematiche che la stampa nazionale generalmente ignora o tratta in maniera approssimativa e disinformata.
  4. Vedi “A” n. 371, maggio 2012.
  5. Chico Barque de Hollanda (nato a Rio de Janeiro nel 1944) è un cantante, compositore e scrittore brasiliano, noto autore e interprete della Bossanova. Arrestato durante gli anni della dittatura militare, nel 1969 si rifugiò per un breve periodo in Italia.
  6. Mulheres de Atenas, pubblicata nel 1976.
  7. Il testo, nella bella traduzione di Eugenio Finardi, si trova facilmente sul web, per esempio sul sito angolotesti.it.
  8. Il concerto della tournée teatrale del 1993 è stato pubblicato nel 2012 in un cofanetto con libro e 16 cd (Sony Music, Tutti i tour di Fabrizio De André). Le tracce contengono anche questo parlato di De André.
(intervista realizzata via telefono il 3 maggio 2006. Registrata presso gli studi di Rete Italia-Melbourne. Andata in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: “In direzione ostinata e contraria”, dedicata ai personaggi delle canzoni di Fabrizio De André).



In direzione ostinata e contraria

Con questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A” di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche realizzate da Renzo Sabatini e andate in onda in Australia nel programma “In direzione ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna della durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al cantautore genovese.

Se proponiamo questi testi, è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio e poste alla base di una riflessione critica sul mondo e sulla società, con quello sguardo profondo e illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con una profonda sensibilità libertaria e – scusate la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.

Precedenti interviste pubblicate: a Piero Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo (“A” 374, ottobre 2012), Santino “Alexian” Spinelli (“A” 375, novembre 2012)); Paolo Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013); Gianni Mungiello, Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A” 377, febbraio 2013); Giulio Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo 2013); Sandro Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013); Luca Nulchis (“A” 380, maggio 2013); don Andrea Gallo (“A“ 381, giugno 2013; Paolo Finzi (“A” 382, estate 2013)).

la redazione di “A”


Dalla parte delle donne afgane

Il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane è nato su iniziativa di alcune realtà italiane che da anni lavorano sui temi dei diritti delle donne, contro i fondamentalismi e le guerre e che hanno deciso di costituirsi in associazione per far conoscere in Italia la difficile situazione in cui tuttora versa l'Afghanistan e far conoscere il lavoro di alcune organizzazioni afgane:

Rawa (Revolutionary Association of Women of Afghanistan. www.rawa.org);
Hawca (Humanitarian Association of Women and Children of Afghanistan. www.hawca.org);
Opawc (Organization Promoting Afghan Women Capabilities. http://opacw.org);
Saajs (Social Afghan Association of Justice Seekers. http://saajs.blogsky.com);
Afceco (Afghan Child Education and Care Organization. www.afceco.org).

Il Cisda lavora a fianco di queste Associazioni sostenendo i loro progetti, affiancandole politicamente nelle loro scelte. È un movimento di promozione e sostegno dei diritti femminili, opera in questa situazione di conflitto e di fondamentalismo sostenendo una cultura di pace e di costruzione dei diritti attraverso un lavoro capillare per alfabetizzare donne e bambini e far nascere una coscienza civica e di pace che parta proprio dalle donne.

Il Cisda ha sede a Milano, promuove azioni politico-sociali a livello nazionale e internazionale sulle condizioni delle donne afgane; raccoglie fondi, sostiene progetti a favore delle donne e dei bambini negli orfanotrofi in Pakistan e in Afghanistan; organizza momenti pubblici e realizza materiali informativi.

Può scrivere al Cisda, all'indirizzo email cisdaonlus@gmail.com chi sia interessato a:
- avere maggiori informazioni sulle attività dell'associazione;
- sostenere uno dei tanti progetti in Afghanistan e in Pakistan (scuole, orfanotrofi, team medici mobili);
- promuovere un'iniziativa nella propria zona.