Rivista Anarchica Online


pensiero

Guardando il mondo alla rovescia

di Giorgio Barberis


Una riflessione su Ivan Illich e sull'attualità del suo pensiero a dieci anni dalla morte.

La perdita dei “sensi”

Durante l'estate precedente la sua morte, avvenuta a Brema il 2 dicembre 2002, Ivan Illich ha lavorato alla revisione della sua ultima opera, intitolata La perdita dei sensi1, che si incentra sulla denuncia di una realtà sempre più astratta e dominata da regolamenti tecnici e dalle scelte di sedicenti esperti, che alienano la libertà di ciascun individuo e annullano la possibilità di scelta.
Nell'introduzione ai saggi che compongono il volume egli scrive: “Mi batto per una rinascita delle pratiche ascetiche, allo scopo di mantenere vivi i nostri sensi, nelle terre devastate dallo ”show“, in mezzo a informazioni schiaccianti, a consigli perpetui, alla diagnosi intensiva, alla gestione terapeutica, all'invasione dei consiglieri, alle cure terminali, alla velocità che toglie il respiro”.
Nell'arco di gran parte della propria riflessione teorica, come vedremo, Illich sviluppa e articola un'aspra critica al processo di istituzionalizzazione, che nato dall'esigenza di rispondere a bisogni diffusi, a poco a poco li cristallizza, perpetuando un sistema di organizzazione sociale finalizzato essenzialmente a ipostatizzare strutture di potere.
Nella sua introduzione a un altro testo illichiano, Disoccupazione creativa2, Roberto Mordacci osserva: “Nel sistema basato sulla professionalizzazione delle funzioni essenziali, il cittadino del mondo civilizzato è espropriato della propria capacità di fare da sé ciò che altrimenti saprebbe fare benissimo: costruirsi una casa, curare le patologie più semplici, istruirsi, gestire le proprie controversie giuridiche e politiche, muoversi da un luogo all'altro; tutte queste attività sono state requisite, sottratte all'abilità personale e monopolizzate da professionisti del settore”, contro i quali Illich polemizza costantemente3. Perfino la carità, principio fondante del cristianesimo, così come pure – più in generale – di ogni forma di relazione umana, si istituzionalizza, si pietrifica o si mercifica, dando luogo a un mondo capovolto, iniquo, perverso. Illuminanti le riflessioni di Illich, in conversazione con David Cayley, sul pervertimento del cristianesimo e sul processo di istituzionalizzazione che ha coinvolto anzitutto la Chiesa. Essa, a poco a poco, ha snaturato il messaggio originario – il dono incondizionato di sé e l'apertura totale all'altro da parte del fedele – e ha dato vita a un sistema gerarchico di potere e di controllo sociale. L'amore al di sopra della legge diviene esso stesso Legge, obbligo morale e poi giuridico, infine – estremo paradosso – strumento di limitazione della libertà, e dunque di oppressione di chi non vi si adegua. In pieno Medioevo, essenzialmente con il Dictatus Papae di Gregorio VII, la Chiesa, “società perfetta”, strutturata gerarchicamente e indipendente da ogni altra autorità, getta i semi dello stato moderno.
La sovranità di Dio, la sua dichiarata onnipotenza, vengono assunte come modello di dominio dell'uomo sull'uomo e sulla natura; un dominio che non ammette limiti. La logica strumentale, di cui i “sacramenti” sono un chiaro segno, non ha più alcun argine. E quando ciò che rappresenta il meglio si corrompe, si hanno le conseguenze peggiori (citando Gregorio Magno, corruptio optimi pessima), come il degrado odierno mostra impietosamente4.

Originalità di un pensiero critico

Autore straordinariamente versatile, uomo di Chiesa sempre inquieto e intellettualmente libero, Illich nelle sue opere ha tracciato percorsi innovativi per la scuola, la sanità, lo studio e la tutela dell'ambiente, la scienza, l'economia e l'analisi dei fenomeni politici, in particolare in due direzioni. Da un lato, la fondazione nel 1966 a Cuernavaca del Cidoc, un ricchissimo centro di documentazione interculturale dove vengono raccolti cospicui lavori sulle società e sulle tradizioni popolari latinoamericane e, contestualmente, documenti e materiali di approfondimento sullo sviluppo e sul funzionamento delle grandi agenzie e istituzioni globali. Dall'altro lato, l'idea di una società conviviale, che si propone come alternativa praticabile all'ideologia dello sviluppo illimitato e agli effetti perversi del capitalismo maturo, che Illich – nei suoi testi sicuramente discutibili ma sempre di grande interesse, anche nel loro approdo paradossale – ha analizzato e denunciato con mirabile lucidità e con uno stile nel contempo brillante e asciutto, un argomentare acuto e spiazzante, e la capacità – come giustamente ha scritto Filippo Trasatti5 – di “guardare il mondo alla rovescia” senza alcun timore, distruggendo certezze e dando vita ad un pensiero critico, da cui in tanti hanno potuto attingere.
Non soltanto il nascente ecologismo, gli ambienti terzomondisti e il movimento studentesco degli anni settanta del novecento, ma anche gran parte di quegli autori che, in opposizione al progetto di estendere la logica di mercato ad ogni possibile settore, compresi tutti i beni comuni disponibili in natura, propongono oggi di dare maggior spazio e concretezza a una politica economica ambientalista, a una società del dopo-sviluppo e della decrescita (volontaria, consapevole, felice), ispirata da criteri di equità, dalla comprensione della finitezza delle risorse naturali e da un forte senso di responsabilità nei confronti del proprio ambiente e delle generazioni presenti e future. Un'idea con alcuni tratti di ingenuità, e che richiederebbe un serio approfondimento anche genealogico6, ma certamente utile a decostruire almeno parzialmente un discorso pubblico che rimane ancorato al feticcio della crescita e del profitto ad ogni costo, e incapace di reagire alle devastanti criticità che segnano il nostro tempo, in cui, tra emergenze ecologiche, instabilità politica e socio-economica, atten-tati terroristici e guerra globale, predominano complessità e incertezza7.

La perversione del capitalismo maturo

Ivan Illich, come detto, ha sempre aspramente criticato l'ideologia dello sviluppo senza limiti e gli effetti perversi, controproduttivi, del sovrasviluppo industriale, dimostrando la necessità di un'austerità equilibratrice e gioiosa8. Nei suoi testi più noti egli ha implacabilmente denunciato il cortocircuito del sistema produttivo del capitalismo avanzato, in cui lo strumento industriale ha da tempo superato quella soglia critica che lo rende, appunto, contro-producente. Così, in Energy and equity (1974) si mostra come la diffusione universale dei mezzi di trasporto riduca la velocità media degli spostamenti9. In Deschooling society (1971) è argomentata la tesi secondo la quale la professionalizzazione del sapere amplifica disuguaglianze ed esclusione e lo sviluppo di un sistema scolastico obbligatorio e uniforme annulla lo spirito critico e crea consumatori di cultura docili e disciplinati10. In Medical nemesis (1976) si evidenzia come l'ipermedicalizzazione privi gli individui del controllo sulla propria salute, causando una dipendenza “patologica” da mezzi tecnici in continua evoluzione, sempre più sofisticati ma anche inefficienti11. Più in generale, le argomentazioni illichiane riescono a dimostrare come l'eccesso di produttività generi crisi economiche e il progresso tecnico isterilisca le capacità intellettuali.
Particolarmente noto il testo sulla descolarizzazione della società, che ha dato luogo a un ampio e vivace dibattito, con alcune adesioni entusiastiche ma anche con molte critiche. Convinto che il sistema educativo occidentale fosse ormai al collasso, schiacciato dal peso della burocrazia, dei dati e delle statistiche insignificanti e del culto della specializzazione, Illich si schierò contro i diplomi, i certificati, le lauree, e soprattutto contro l'istituzionalizzazione e l'omologazione dell'imparare. Egli si spinse a sostenere – forse anche riflettendo sulla propria esperienza educativa – che un adulto sarebbe in grado di apprendere i contenuti di dodici anni di scuola dell'obbligo dai programmi standardizzati in uno o due anni al massimo.
Ma ormai siamo tutti parte di un “sistema” cibernetico fuori dal nostro controllo, che ci disincarna in un'eterea virtualità e ci allontana dal reale sentire il nostro prossimo. Di qui l'importanza di ricostruire una storia della conoscenza, intesa nel senso più ampio possibile, e delle sue progressive trasformazioni. Dalla consapevolezza istintiva della “conformità” delle cose a un ordine cosmico, essa si piega via via a finalità puramente strumentali e all'idea di un progresso senza limiti del tutto chimerica, per giungere infine all'attuale crollo, ancora da decodificare compiutamente. Ecco dunque l'esigenza di “prendere le distanze”, di osservare la “tecnologia culturale occidentale” con il dovuto distacco, e di volgere lo sguardo altrove, sia dal punto di vista geografico (come avveniva al Cidoc, e come Illich cercò di fare concretamente, trascorrendo lunghi periodi in India e in Estremo Oriente) sia dal punto di vista storico12.

Per un'autentica emancipazione umana

Fondamentale per questa prospettiva critica è la capacità di guardare il mondo con gli occhi dell'altro, respingendo sia la crescente omologazione culturale e la condivisione forzata di stili di vita e di consumo imposti dal dominio commerciale, militare e ideologico dell'Occidente, sia la rivendicazione di micro-identità esclusive ed escludenti, spesso costruite in modo strumentale per sostenere un atteggiamento di chiusura, di diffidenza verso tutto ciò che è diverso. Un improbabile radicamento a luoghi, tradizioni, culti, ideologie, che risponde all'esigenza di contenere la sensazione di minaccia e disorientamento, riducendo arbitrariamente gli elementi di complessità, ma che costituisce una risposta artefatta, inefficace, deludente. Occorre, invece, interpretare correttamente la nostra epoca e comprendere che non ci sono verità assolute da difendere o da esportare con le armi in pugno, ma solo il bisogno di costruire un nuovo pensiero critico e aperto, vie originali da scoprire e per-correre insieme, spazi di discussione, condivisione, autogestione, da moltiplicare quanto più possibile. Contro il monologo dell'Occidente e contro ogni logica della purezza, la retorica dei Noi contrapposti a Loro, contro steccati e barriere, ostilità, pregiudizi e chiusure, si dovrebbe alfine comprendere che è proprio nell'incontro con l'altro, nella relazione, che si può trovare la migliore risposta al disordine globale. Una difesa del meticciato, dell'ibridazione, che diviene ancora più preziosa oggi in tempi di chiusure culturali e di mu- scolari esaltazioni del dogma, pesantemente gravati, soprattutto dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre 2001, da ossessioni paranoiche, da un persistente e onnipervasivo senso di minaccia, da manie di persecuzione diffuse su scala mondiale e da un egoriferimento ipertrofico di opposti fondamentalismi13.
Qui ci viene in soccorso ancora una volta Ivan Illich, con la sua idea di convivialità, di apertura incondizionata all'altro, che non è stata solo una proposta teorica originale, ma anche autentica pratica esistenziale. È noto, infatti, come l'aspetto conviviale fosse fortemente valorizzato da Illich, che cercava il più possibile l'incontro, lo scambio diretto con i propri interlocutori, al di fuori delle ingessate ritualità accademiche. Le conversazioni attorno alla tavola insieme a lui erano spesso il momento più alto di confronto culturale ed elaborazione teorica, in un clima di ascolto, armonia e condivisione vera, raccontato con nostalgia ed emozione da tutti coloro che ebbero la fortuna di parteciparvi14.
Conversazioni e riflessioni che ci pare abbiano come tratto comune un'idea di autentica emancipazione umana e di costruzione di una vera autonomia dell'individuo all'interno di una comunità conviviale. Illich è un autore radicalmente rivoluzionario, la cui lezione in fondo ci dice questo: bisogna imparare a gestire l'incertezza e l'assenza di punti di riferimento costanti nel tempo, senza però rinunciare all'aspirazione di trasformare in profondità l'attuale assetto sociale, sottraendosi al dominio di un sistema economico che si autorappresenta come assoluto ed eterno e di un sistema politico fragile e delegittimato, riuscendo finalmente a coniugare il pieno riconoscimento dell'individualità e della singolarità con il bisogno di inter- connessione e di ricostruzione di un saldo legame sociale, e ritrovando il gusto e il senso di una libertà che sia davvero autonomia e di relazioni autentiche ispirate ai principi di cooperazione e reciprocità.
Questa la speranza che ci deve muovere, significativamente l'unica condizione umana a non uscire subito dal vaso di Pandora insieme a tutti i mali in esso contenuti, e chiamata anzi a mitigarne i catastrofici effetti diffusi per ogni dove. La speranza è cosa ben diversa dall'aspettativa, che vive solo nel futuro: essa non lo nega, ma semplicemente non se ne cura, essendo chiamata a vivere il presente nella sua presenza e a non lasciare spazio alle ansie, alla paura, all'attesa di qualcosa che potrebbe non arrivare mai. L'uomo non è l'automa piegato dal processo di istituzionalizzazione, dalla cultura omologante e dalla comunicazione vuota e autoreferenziale, ma un soggetto vitale, creativo, libero nel proprio legame conviviale con la comunità e perfetto nella propria incompiutezza15. Il rimedio al senso di impotenza che l'epoca della complessità costantemente amplifica non è affatto quello di tornare a vivere nelle tenebre – come troppi detrattori di Illich e dei suoi epigoni hanno stigmatizzato –, bensì quello di “portare una candela nelle tenebre”, di essere una fiammella di luce e di speranza, di giustizia, amore e libero pensiero.

Giorgio Barberis

Note

  1. I. Illich, La perte des sens, Fayard, Paris 2004, tr. it., La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009.
  2. I. Illich, The Right to Useful Unemployment and its Profesional Enemies, Boyars, London 1978, tr. it., Disoccupazione creativa, Boroli, Milano 2005.
  3. Si veda ad esempio I. Illich et. al., Disabling Professions, Boyars, New York 1977, tr. it., Esperti di troppo, Ercikson, Gardolo (tn) 2008.
  4. I. Illich, The Corruption of Christianity, Canadian Broadcasting Corporation, 2000, tr. it., Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, Modernità, Quodlibet, Macerata 2008.
  5. Trasatti ha curato un approfondimento monografico su Ivan Illich nel n.294 di «A rivista anarchica» [anno 33, novembre 2003], con i contributi di Paolo Perticari, Francesco Scotti, Pietro M. Toesca.
  6. Che cosa significa e come si articola in concreto il concetto di «decrescita»? Qual è la sua origine e come si può realmente declinare? In tal senso, la lettura illichiana è un punto di riferimento imprescindibile. Serge Latouche, che della decrescita è uno dei massimi teorici contemporanei, non esita a riconoscere come tale idea «sia nata in seno alla critica dello sviluppo e della crescita condotta da una piccola internazionale di pensatori raccolti attorno a Ivan Illich; pensatori del Sud, oppure che avevano un'esperienza concreta della sconfitta dello sviluppo nei Paesi dell'Africa o dell'America latina»; S. Latouche, La planète uniforme (2000), tr. it., La fine del sogno occidentale, Elèuthera, Milano 2010, p.185.
  7. Convincente la celebre definizione di Ulrich Beck, che da decenni parla di società del rischio. Si veda ad esempio U. Beck, Risikogesellschaft: Auf dem Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986, tr. it., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000. Oggi la politica, l'economia, il mondo sociale e culturale sono accomunati da grandi trasformazioni che mettono fortemente in discussione le più diffuse categorie interpretative e riferimenti culturali a lungo condivisi. Per un'analisi specifica, seppur sintetica, di ciascuno di questi aspetti mi permetto di rimandare al volume di M. Revelli, G. Barberis, Sulla fine della politica. Tracce di un altro mondo possibile, Guerini e Associati, Milano 2005.
  8. Si veda in particolare I. Illich, Tools for Conviviality, Harper & Row, New York 1973, tr. it, La convivialità, Boroli, Milano 2005.
  9. I. Illich, Energy and Equity, Calder & Boyars, London 1974, tr. it., Energia, velocità e giustizia sociale, Feltrinelli, Milano 1974. A Illich dobbiamo anche questo inquietante calcolo: «L'americano tipo dedica più di 1500 ore all'anno alla sua automobile: ci sta seduto dentro, fermo o in moto, lavora per comprarla e mantenerla, per pagare la benzina, i pneumatici, i pedaggi, l'assicurazione, le contravvenzioni e le imposte. Dedica cioè 4 ore al giorno alla sua auto, sia che se ne serva, se ne occupi o lavori per lei. E non consideriamo tutti gli altri suoi impegni di tempo regolati dal trasporto: il tempo passato in ospedale, in garage o in tribunale, il tempo consumato a guardare la televisione e la pubblicità delle automobili, il tempo speso a guadagnare il denaro necessario per viaggiare durante le vacanze, eccetera. A questo americano occorrono dunque 1500 ore per percorrere 10.000 km di strada: 6 km gli prendono più di un'ora» [La convivialità, cit., p.25].
  10. I. Illich, Deschooling Society, Harper & Row, New York 1971, tr. it., Descolarizzare la società, Mondadori, Milano 1972, ripubblicato da Mimesis, Milano-Udine 2010.
  11. I. Illich, Medical Nemesis. The Expropriation of Health, Pantheon, New York 1976, tr. it., Nemesi medica. L'espropriazione della salute, Mondadori, Milano 1977, ripubblicato da Boroli, Milano 2005.
  12. Lo straordinario commento al Didascalicon di Ugo di San Vittore che troviamo Nella vigna del testo - libro colto e affascinante, il quale si presenta come “una storia sull'arte di leggere” nei suoi passaggi fondamentali - è un importante tassello di questo percorso; I. Illich, In the Vineyard of the Text. A Commentary to Hugh's Didascalicon, 1993, tr. it., Nella vigna del testo. Per una etologia della scrittura, Raffaello Cortina, Milano 1994.
  13. Sul rapporto complesso ma per molti aspetti innegabile tra paranoia e politica si veda la raccolta di saggi curata da Marco Revelli e Simona Forti, intitolata appunto Paranoia e politica, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
  14. Per fare solo due esempi tra i mille possibili, citiamo Giuseppina Ciuffreda che, nel necrologio pubblicato sul quotidiano «il Manifesto» [04/12/2002, Il rovescio del progresso], ricordando l'incontro con Illich ad Assisi nel novembre del 1985, scrive: «Un seminario con lui era un'esperienza totale», e Franco La Cecla, il quale ebbe a scrivere: «Il suo metodo di lavoro è più simile a una stoà dell'antica Atene che a una vita accademica: un gruppo di fedeli giovani ricercatori, di adulti studiosi e di vecchi amici lo ricordano e lo seguono» [«Libertaria», n. 4, 2001].
  15. Occorre prendere atto - sostiene Illich - dei propri limiti strutturali, rinunciando alle chimere e alle false promesse di una modernità sclerotizzata, e ritornare invece alla «conspiratio» originaria, all'amore come dono gratuito di sé, alla comunità di sentire nella gioia e nel dolore. Sul concetto di conspiratio, il bacio con cui i fedeli nelle prime comunità cristiane «mescolavano il loro spirito e suggellavano la loro reciproca comunione», si vedano in particolare I. Illich, Pervertimento del cristianesimo, cit., pp.93-96 e The Rivers North of the Future. The Testament of Ivan Illich as told to David Cayley, Toronto 2005, tr. it., I fiumi a nord del futuro. Quodlibet, Macerata 2009, pp.214-218.


Da Vienna a Brema, via New York, Cuernavaca, ecc.

Ivan Illich nacque a Vienna il 4 settembre 1926 da Ivan Peter, cattolico di nobili origini dalmate, e da Ellen Rose Regenstreif-Ortlieb, di famiglia ebrea sefardita. Cosmopolita per origine e vocazione, poliglotta, straordinariamente curioso e intellettualmente aperto, fu teologo, storico, sociologo, linguista, filosofo, antropologo, economista, e molto altro ancora (è stato anche definito un profeta fuori tempo). Nel 1941 dovette lasciare l'Austria a causa delle leggi razziali.
Fu a Firenze e poi a Roma, dove seguì i corsi alla Pontificia università gregoriana. Laureatosi nel 1951, fu ordinato sacerdote e assegnato alla diocesi di New York, divenendo viceparroco in una comunità portoricana. Ottenne qui i primi riconoscimenti, e iniziò a sviluppare e consolidare la sua vastissima rete di conoscenze e amicizie. Nel 1956 divenne prorettore dell'Universidad católica di Ponce, a Porto Rico, ma nel 1960 lasciò l'isola anche per la sua opposizione a un modello di Chiesa troppo condizionata dalle spinte imperialistiche statunitensi.
Dopo un lungo peregrinare per il continente latino-americano, scelse Cuernavaca come luogo da cui organizzare la resistenza ai processi di omologazione culturale di un Occidente completamente asservito alla logica di uno sviluppo senza limiti. In Messico fondò il Cidoc, un centro di documentazione sulle tradizioni indigene e sullo sviluppo delle grandi istituzioni mondiali nel campo dell'educazione, della salute, dell'economia. In opere divenute celebri, Illich mostrò gli effetti controproducenti e le profonde antinomie del capitalismo maturo e di una società dei consumi dominata da presunti esperti, ossia tecnocrazie non elettive ch'egli definiva senza mezzi termini “fascismo manageriale”, e delineò un modello di “società conviviale”, insieme austera e gioiosa, che diverrà punto di riferimento costante per una parte essenziale del pensiero critico novecentesco.
Negli ultimi anni di vita insegnò regolarmente a Brema e in Pennsylvania, ma continuò a viaggiare e ad avere amici e seguaci ovunque. Sempre pronto all'incontro e al dialogo, coerente con i propri alti ideali, intellettualmente vivacissimo e spiazzante nella sua genialità, Illich si spense a Brema il 2 dicembre 2002, non a causa del tumore al volto che gli tormentò il nervo trigemino per quasi vent'anni, ma in conseguenza di un arresto cardiaco.

 

Illich dixit

Rivoluzionare le istituzioni

Da Celebration of Awareness (1970), tr. it., Rivoluzionare le istituzioni, Mimesis, Milano - Udine 2012,

p.11: «Ciascun capitolo di questo volume è il segno d'un mio tentativo di mettere in discussione la natura di qualche certezza acquisita. Ognuno di essi, quindi, denuncia un inganno, l'inganno insito in questa o in quella istituzione. Sono le istituzioni che creano certezza e quando vengono prese sul serio queste certezze rendono il cuore insensibile e imprigionano l'immaginazione. Ho sempre sperato e ancora spero che i miei giudizi, frutto di rabbia o di passione, razionalmente costruiti o spontanei, possano anche riuscire a far sorridere qualcuno e, con questo sorriso, portare una nuova libertà, sebbene la libertà non giunga mai senza un prezzo doloroso».


La convivialità
Da Tools for Conviviality (1973), tr. it, La convivialità, Boroli, Milano 2005,

p.13: «La società, una volta raggiunto lo stadio avanzato della produzione di massa, produce la propria distruzione. La natura viene snaturata. Sradicato, castrato nella sua creatività, l'uomo è rinserrato nella propria capsula individuale. La collettività è governata dal gioco combinato di una polverizzazione estrema e di una specializzazione a oltranza. L'affannosa ricerca di modelli e prodotti sempre nuovi, cancro del tessuto sociale, accelera a tal punto il mutamento da escludere ogni ricorso ai precedenti come guida per l'azione. Il monopolio del modo di produzione industriale riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti. E tutto questo in misura non più tollerabile. Poco importa che si tratti di un monopolio privato o pubblico: la disgregazione della natura, la distruzione dei legami sociali, la disintegrazione dell'uomo non potranno mai servire a uno scopo sociale».
p.30: «Alla minaccia di un'apocalisse tecnocratica, io oppongo la visione di una società conviviale. La società conviviale riposerà su contratti sociali che garantiscano a ognuno il più ampio e libero accesso agli strumenti della comunità, alla sola condizione di non ledere l'eguale libertà altrui».
p.67: «La popolazione è educata meglio, curata meglio, trasportata meglio, divertita e spesso nutrita meglio, ma a condizione che, per ogni unità di misura di questo meglio, si accettino docilmente sia i criteri sia gli obiettivi fissati dagli esperti. Una società conviviale può instaurarsi solo se riconosce il carattere arbitrario di queste misure e la distruttività dell'imperialismo politico, economico e tecnico che si nasconde dietro di esse».
p.130: «L'avvento del fascismo tecnoburocratico non è scritto negli astri. Esiste un'altra possibilità: un processo politico che permetta alla popolazione di stabilire il massimo che ciascuno può esigere, in un mondo dalle risorse manifestamente limitate; un processo che porti a concordare entro quali limiti va tenuta la crescita degli strumenti; un processo che incoraggi la ricerca radicale intesa a far sì che un numero crescente di persone possa fare di più con sempre meno. Un programma del genere può ancora apparire utopistico al punto in cui siamo: se si lascia aggravare la crisi, lo si troverà ben presto di un realismo estremo».


Nemesi medica
Da Medical Nemesis (1976), tr. it., Nemesi medica. L'espropriazione della salute, Boroli, Milano 2005,

p.20: «Studiando l'evoluzione della struttura della morbosità si ha la prova che durante l'ultimo secolo i medici hanno influito sulle epidemie in misura non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche precedenti. Le epidemie venivano e se ne andavano, esorcizzate da entrambi ma non impressionate né dagli uni né dagli altri. Esse non vengono modificate dai riti celebrati nelle cliniche mediche più di quanto lo fossero dai tradizionali scongiuri ai piedi degli altari. Una discussione sul futuro dell'istituzione sanitaria potrebbe utilmente partire dal riconoscimento di questo fatto».


Nello specchio del passato
Da In the Mirror of the Past (1992), tr. it., Nello specchio del passato, Boroli, Milano 2005,

p.35: «Il tema che intendo affrontare è quello delle “benedizioni” di cui tuttora godiamo, nonostante la crescita economica; della riscoperta del presente quando si allontana dall'ombra che il futuro vi ha proiettato sopra nel corso di tre decenni all'insegna dello sviluppo. Penso sia giunto il momento di promuovere la ricerca del dono non economico, che possiamo maggiormente apprezzare se nutriamo la speranza in ulteriori riduzioni del cosiddetto sviluppo.
Parlo intenzionalmente di benedizioni e doni quando mi riferisco alla riscoperta del camminare e pedalare in alternativa all'essere trasportarti; dell'abitare in spazi autogenerati in luogo della rivendicazione del diritto all'alloggio; del coltivare pomodori sul balcone e incontrarsi in bar privi di radio e televisione; della capacità di far fronte al dolore senza terapie e del preferire l'attività intransitiva del morire al medicidio monitorizzato.
Non intendo usare la parola “valore”: questo termine economico ha subito recentemente uno slittamento di senso nei nostri discorsi, così da rimpiazzare il “bene”. Tuttavia, riconosco il pericolo insito nel tentativo di mantenere la nozione di bene: oggi il termine designa specificamente delle forme di Management, il professionale “per il vostro bene” sulle labbra di insegnanti, medici e ideologi.
Proprio per questo tento di recuperare le vecchie idee di benedizione e dono per parlare della riscoperta dell'arte di gioire di affrontare il dolore, che ho potuto osservare, nei Paesi ricchi come in quelli poveri, allorché è crollata l'aspettativa di vantaggi e sicurezze garantiti dal mercato».

Ivan Illich