Rivista Anarchica Online





Signora libertà
signorina anarchia

Intervista a Paolo Finzi di Renzo Sabatini


Tra gli intervistati nel 2005 da una radio australiana su Fabrizio De André, c'era anche un redattore di questa rivista che in Australia ci andò due volte per parlare del cantautore genovese.
E spiegò perché non si può ignorare il fatto che Fabrizio sia stato anche un anarchico, di notevole spessore, anche se a modo suo.

Anarchico, giornalista, redattore di “A”, rivista storica dell'anarchismo italiano. Cosa significa essere anarchici nel terzo millennio?
«Non è molto facile rispondere o forse è facile, nel senso che essere anarchici nel 2000, come nel 1900, significa avere determinate idee, un certo tipo di sensibilità e la volontà di applicare queste idee, che sono quelle storiche dell'anarchismo, che hanno ormai 150 anni e che sono nate, non a caso, da un filone del movimento operaio e del movimento socialista e quindi sono, se vogliamo usare una vecchia definizione, delle idee di sinistra, se per sinistra si intende la sensibilità di stare dalla parte del popolo, contro l'ingiustizia, eccetera.
Che senso ha essere anarchici oggi? Più che in positivo, per le grandi realizzazioni fatte dagli anarchici in questo periodo – perché in realtà non sono grandi – una ragione per essere anarchici è il sostanziale fallimento delle altre proposte e delle altre ideologie. Io per adesso mi fermerei qui, sapendo di non aver risposto, ma del resto è difficile rispondere perché il senso di essere anarchici è in realtà legato alla propria concezione dell'anarchismo e quindi bisognerebbe poi andare a definire bene che cosa sia stato storicamente e che cosa sia oggi l'anarchismo.»

Parlando di concezioni individuali dell'anarchismo, Fabrizio De André per tutta la vita si è detto anarchico, sostenendo però che non si trattava tanto di una posizione politica quanto di una condizione dello spirito. Però nella sua produzione artistica non ritroviamo riferimenti espliciti, diretti, all'anarchia. Allora che tipo di anarchico era De André?
«Era un anarchico di tipo particolare, come sono in realtà tutti gli anarchici. L'anarchismo è un elemento spesso presente nel mondo artistico; l'amore per la libertà, la simpatia per i diversi e per quelli un po' fuori dalle righe, il rifiuto delle regole: sono componenti storicamente molto presenti nel mondo degli artisti. Però queste componenti non presuppongono una conoscenza specifica dell'anarchismo, del movimento politico degli anarchici e spesso nemmeno una lettura dei testi. È più semplicemente un modo per definirsi.
Quello che mi preme qui sottolineare è che Fabrizio non era un anarchico di questo tipo; non era un artista anarchicheggiante perché particolarmente amante della libertà, in questa accezione un po' provocatoria, un po' strana, che fa anche “fino” in certi ambienti. Fabrizio aveva conosciuto gli anarchici sia come persone che come idee. Il suo primo tramite con l'anarchismo erano stati i dischi di George Brassens che aveva portato suo padre da Parigi e che lui aveva ascoltato da ragazzino. Brassens per un lungo periodo della sua vita si era definito anarchico e aveva collaborato con la stampa anarchica francese e così il primo tarlo dell'anarchia è arrivato a Fabrizio da Brassens. Successivamente lui, che era un grande intellettuale e un grande lettore, ha letto molti libri sulla storia del movimento operaio, sull'anarchismo, sulla storia della rivoluzione russa e di quella spagnola del 1936. Quindi conosceva bene sia le idee che la storia di questo movimento e la sua adesione all'anarchismo, seppure non portò mai ad un'azione di tipo militante nel movimento, però lo fece restare in contatto con gli anarchici, frequentare anarchici, leggere la stampa anarchica, come dimostra del resto il rapporto che ebbe con noi della redazione della rivista anarchica “A”.»

Se immaginiamo di leggere quelle canzoni per cercare in quei versi l'anarchico De André, dove lo troviamo?
«Anche qui è opportuna una premessa. Le persone dalla profonda cultura e dalla grande sensibilità e curiosità, in una parola: gli intellettuali come Fabrizio De André, non possono mai essere ridotti e catalogati con un semplice aggettivo.
Detto in altre parole, le fonti di riferimento culturale di queste persone non sono mai univoche e quindi l'anarchismo è presente nella storia e nell'opera di Fabrizio insieme, a fianco, mischiandosi con tutta un'altra serie di elementi. Per cui la sua grande sensibilità, che è un po' la cifra di tutto il suo lavoro, questa pietà e solidarietà per i dannati della terra gli deriva certamente dal suo anarchismo ma, a mio avviso, contemporaneamente anche da altri filoni culturali, penso per esempio alla sua grande attenzione al pensiero religioso, cristiano in particolare, ma non solo. Per cui, in realtà, più che andare a cercare elementi specifici di anarchismo, credo che nell'insieme si possa rispondere dicendo che la sua eccezionale sensibilità umana e culturale verso le persone più “sfortunate” contenga anche il suo anarchismo.
C'è da dire però che, avvicinandosi, mettendo a fuoco l'argomento, viene fuori che in Fabrizio non c'è solo la solidarietà, la pietà, la comprensione, la capacità di mettersi nella pelle del transessuale o del rom. C'è anche un passo successivo che è specifico dell'anarchismo, anche se forse non solo dell'anarchismo: il rifiuto, la rivolta, il contrasto contro queste situazioni. Fabrizio non si limita a mettere in luce queste figure o questi stati sociali, ma sembra indicare la via dell'affermazione concreta e attiva della loro dignità, in contrasto con il potere. E qui arriviamo forse al punto centrale di quello che si può meglio riconoscere come l'anarchismo di Fabrizio. Un anarchismo, è bene precisare, soffuso e diffuso nelle sue canzoni, nel senso che non c'è nessuna sua canzone esplicitamente dedicata alle idee anarchiche. Ma c'è questa sua critica demistificatoria del potere, che è contenuta in decine e decine di punti della sua opera poetica e che è in piena sintonia con l'anarchismo.»

Il Giornale di Napoli, martedì 24 settembre 1991

Un pensiero originale, la voce che conosciamo

De André si affianca in questo ad altri artisti che sono stati e si sono dichiarati esplicitamente anarchici. Tu hai già citato George Brassens, poi c'è Leo Ferré e tanti altri. Fra gli anarchici italiani quanto è conosciuto De André?
«Fabrizio è amatissimo dagli anarchici italiani e ovviamente non solo dagli anarchici. Fin dagli anni sessanta, in una intervista su una rivista musicale dell'epoca, Ciao 2001, si era definito anarchico e quindi c'era stato subito un interesse. Gli anarchici avevano subito colto, oltre al contenuto delle canzoni, anche questa specificità. Ma la questione interessante è che Fabrizio è stato amato non solo dagli anarchici ma in genere dai giovani di tante generazioni. La guerra di Piero, che è stata una canzone degli anni della contestazione, del sessantotto italiano, viene cantata ancora oggi nelle manifestazioni del movimento pacifista.
Quindi Fabrizio, con le sue canzoni, ha saputo interpretare in maniera profonda le istanze non solo degli anarchici e neanche solo della sinistra, intesa come movimenti politici. Perché per esempio Fabrizio è una delle voci più amate e più cantate anche nel mondo giovanile cattolico che ha trovato nell'antibellicismo, nel rifiuto della guerra e anche in altri temi di Fabrizio elementi importanti e condivisibili. Una cosa importante (e qui andiamo forse al cuore del modo di essere di Fabrizio) è che questa sua capacità di influenzare, di essere presente, di condizionare la vita delle persone, è legata alla capacità di unire un pensiero assolutamente originale alla voce che conosciamo, alla sensibilità poetica e a quella musicale. Insomma in Fabrizio c'è qualcosa di magico nell'incontro fra pensiero, poesia, musica, persino il modo di suonare la chitarra. Questi elementi fanno di Fabrizio una persona che non viene percepita come un propagandista. Queste sue poesie diventano un veicolo per delle idee e delle sensibilità che riescono a colpire nel profondo le persone.»

De André ha sempre avuto un suo pubblico importante, era già molto famoso prima di morire. Ma perché dopo la sua morte s'è scatenato questo fenomeno così enorme di passione, mitizzazione, con libri, concerti, incontri, seminari, festival, cover band, piazze, strade e scuole a lui intitolate, centri di ricerca, fondazioni, tesi universitarie… in Italia sono diventati tutti anarchici?
«No, non sono diventati tutti anarchici. Dovremmo partire da una data, quella dell'11 gennaio 1999, quando muore Fabrizio. Se andiamo a rileggere titoli e dichiarazioni sui giornali del 12 gennaio troviamo di tutto. È vero che ci fu un generale riconoscimento dell'anarchismo di Fabrizio, però ci fu al contempo un'operazione che non era studiata, non sto parlando di una congiura, però si mise in moto un meccanismo che volgeva alla sterilizzazione di questo anarchismo. Si descriveva insomma Fabrizio come il cantore delle puttane, dei carcerati e degli emarginati, però lasciando il tutto a un livello piuttosto estetizzante.
Questo spiega come mai anche esponenti della destra come Gianfranco Fini, solo per citarne uno, potessero riconoscersi nel dolore generale del popolo italiano per la morte di Fabrizio. Insomma c'era una grande ipocrisia e una grande superficialità. In tutta questa attività messa in campo per ricordare la sua figura va ricordato che Fabrizio (questo è solo un aspetto, ma è importante sottolinearlo) è uno che “vende”, cioè quando si pubblica qualcosa che lo riguarda si ottiene anche un certo successo in termini economici. Questo spiega, in parte, perché si sia scatenato intorno a lui un certo interesse.
Evidentemente, però, il fenomeno che tu sottolineavi è molto più grande e secondo me, nella sua parte più positiva, che è quella prevalente, è legato alla scoperta o alla riscoperta della profondità del messaggio di Fabrizio. Quindi credo che il merito sia sostanzialmente suo. Già in vita lui era considerato una sorta di senatore della musica italiana e, in effetti, se si prende in considerazione la profondità, la densità anche culturale del lavoro di Fabrizio, bisogna dire che non ha pari nel lavoro degli altri cantanti e cantautori italiani. In genere cerco di evitare la mitizzazione del personaggio però non è nemmeno giusto non riconoscere come Fabrizio abbia avuto questa capacità di affrontare in maniera davvero eccezionale le tematiche più profonde che riguardano l'uomo, come l'amore e la morte.
Basti osservare come, a distanza di otto anni dalla morte, si continuino ad organizzare convegni e a scrivere saggi nei quali troviamo riletture, approfondimenti, scoperte, analisi sempre nuove. Cioè il pensiero di Fabrizio è un pozzo senza fine dal quale si continua ad attingere e c'è ancora moltissimo da studiare e da scoprire. Spesso anche su un solo verso di una sua canzone si potrebbe scrivere un saggio. Questo perché lui aveva anche una grandissima capacità di controllo delle parole, che usava in maniera assolutamente appropriata e profonda.
Quindi le quasi duecento canzoni che ha scritto Fabrizio constituiscono un corpus culturale senza pari nel mondo della musica italiana. In effetti, a mio avviso, Fabrizio oltre che come cantante, deve essere visto come una fonte di riflessione. Io sostengo che Fabrizio sia anzitutto un intellettuale e questo forse può aiutarci a capire la sensibilità del suo studio, del suo lavoro, la sensibilità che metteva nel suo affrontare i problemi del mondo.»

Un propagandista dell'anarchismo

Dando uno sguardo al movimento anarchico italiano tu pensi che Fabrizio abbia contribuito in qualche misura a ingrossarne le fila?
«Certamente sì. Per parlare dell'oggi, ho appena ricevuto in redazione la lettera di una ragazzina di Nuoro che ci chiede di ricevere una copia della rivista, ringraziandoci al contempo di tutto quello che abbiamo fatto per ricordare Fabrizio. Ecco un caso di una giovane che si è avvicinata alla nostra rivista attraverso la passione per Fabrizio. Ci sono tante persone che sono arrivate a conoscere, ad apprezzare, in qualche caso anche ad aderire all'anarchismo tramite il collegamento che Fabrizio permetteva, dichiarandosi anarchico. Questo collegamento consentiva alla gente di riflettere sul fatto che, se Fabrizio faceva delle belle canzoni e allo stesso tempo diceva quelle cose e dichiarava di essere anarchico, allora forse gli anarchici erano qualcosa di interessante da conoscere. Io ho conosciuto tantissime persone che, tramite Fabrizio, sono arrivate all'anarchismo.
Quello che, però, mi sembra più interessante e da sottolineare è come, tramite Fabrizio, un grandissimo numero di persone, anche senza aderire al movimento, abbia comunque conosciuto l'anarchismo tirandolo fuori dal pozzo di negatività in cui in genere giace, come sinonimo di terrorismo, superficialità, cosa piccolo-borghese e quant'altro, e abbia saputo posizionarlo nello spazio che gli compete, che è quello di un movimento di idee e di persone, un movimento storico, con una sua dignità. In questo senso Fabrizio ha certamente contribuito in maniera forte e, anzi, io ho anche sostenuto che Fabrizio è stato uno dei più grossi propagandisti dell'anarchismo, utilizzando questa espressione un po' ottocentesca.
In realtà era lungi da lui il ruolo del propagandista, legato al movimento politico. Però, proprio per questo, in realtà, sul piano culturale, ha contribuito molto a sdoganare l'anarchismo, presentandolo come una cosa positiva, da conoscere e con la quale confrontarsi.»

Pur non essendo un militante De André, come hai raccontato tu stesso, ogni tanto metteva discretamente mano al portafoglio per aiutare la vostra rivista o altre realtà anarchiche. Come avvenivano queste donazioni?
«Anche qui vorrei fare una piccola premessa di carattere generale: Fabrizio era persona generosa, anche, ma non solo, sul piano economico. Spesso gruppi e gruppetti, fautori magari di piccole iniziative, andavano a “battere cassa”, come del resto si usava spesso negli anni settanta e ottanta con i cantanti politicamente connotati. Fabrizio ha sempre dato il suo contributo e, per quanto ne so io, l'ha fatto sempre con modestia e forse si incazzerebbe anche sapendo che ne parlo, perché lui non faceva questo per la maggior gloria ma lo faceva perché gli piaceva sostenere determinate iniziative. In questo contesto uno spazio, forse prioritario, l'hanno avuto gli anarchici e, in particolare, la stampa anarchica. Per cui lui, ogni tanto, ci chiamava, ci facevamo una bella chiacchierata e, alla fine, ci dava qualche assegno. Noi della rivista “A”, comunque, abbiamo una pagina, che si chiama: “I nostri fondi neri”, dove elenchiamo ogni mese le donazioni ricevute e in questa pagina appariva il milione di lire che ci dava Fabrizio accanto alle cinquemila lire che ci dava magari il vecchio contadino pugliese anarchico; questo non perché ce lo chiedesse Fabrizio ma perché ha sempre fatto parte di una politica di trasparenza della rivista rispetto ai sottoscrittori.
Un discorso a parte meritano invece i due concerti che fece a Carrara negli anni ottanta e a Napoli all'inizio degli anni novanta, specificamente a sostegno della stampa anarchica. In questi casi si è trattato di una posizione pubblica. Queste cose Fabrizio le ha fatte e ci ha sempre sostenuti. Certo, ogni tanto scompariva, anche per lunghi periodi, perché questa era un po' la sua personalità, in questo forse accomunato ad altri artisti. Ma in linea generale è stata una presenza costante di sostegno per noi.
Fabrizio poi frequentava molti anarchici, aveva molti amici e collaboratori anarchici. Per esempio l'allora suo tecnico delle luci, Pepi Morgia, che adesso è una delle figure principali nella realizzazioni di concerti in Italia1 è un anarchico proveniente da una famiglia con tradizioni anarchiche.»

Dori Ghezzi e Fabrizio De André ad una cena di sottoscrizione per la
rivista anarchica “A”, nella Trattoria Della Torre, a Milano negli anni '80

Il suo anarchismo, molto diverso dal nostro

Se non ti spiace vorrei provare a fare un salto indietro nel tempo: molti anni fai strappasti un appuntamento a Fabrizio De André. Tu eri un ragazzo e lui era già un mito. Poi hai scritto che il risultato di quell'incontro fu che ne uscisti con un mito in meno e un amico in più. Ci puoi dare un ricordo di quel tuo primo incontro con il cantautore genovese?
«Be', diciamo che ognuno di noi ha passato un qualche momento della vita di cui si sente particolarmente fiero ed orgoglioso. Anche se ormai sono nell'età avanzata in cui i ricordi si affievoliscono, quell'incontro con Fabrizio per me è uno dei ricordi destinati a rimanere. Forse sarà l'ultimo che dimenticherò, perché per me è stato così significativo. In realtà noi, come redazione della rivista anarchica, cercavamo da tempo un incontro con Fabrizio – sto parlando del 1973 o 1974 – perché lui era già molto famoso e si definiva anarchico, quindi ci interessava contattarlo e non solo per fini economici, anche se l'idea di fondo era comunque quella di contattare i vari cantanti e cantautori che esprimevano simpatia o vicinanza per cercare di organizzare concerti a nostro sostegno. Ovviamente il personaggio noi lo conoscevamo solo sul piano pubblico e non su quello privato.
Non era facile fissare un appuntamento con Fabrizio che, per motivi comprensibili, creava attorno a sé delle barriere che gli erano necessarie per sopravvivere. Poi lui stava anche attraversando una fase travagliata della sua vita. Comunque alla fine riuscimmo, tramite amicizie, a ottenere questo appuntamento in un albergo di Milano e salimmo in tre compagni della rivista in questa stanza, dove Fabrizio ci accolse dando l'impressione immediata di una persona timidissima.
Ci sedemmo al tavolo e lui era imbarazzatissimo. Così lasciai perdere il registratore che avevo preparato e l'intervista che avevo in mente e cominciammo invece a parlare (lui ci chiese della nostra rivista) e l'impressione umana fu ottima, nel senso che Fabrizio era molto disponibile e, come dicono i ragazzi oggi, non se la tirava assolutamente, anzi aveva lui quasi un atteggiamento di ammirazione nei nostri confronti; sembrava quasi che fosse più lui un nostro fan, per via del lavoro che facevamo, piuttosto che il contrario. Fabrizio quel giorno parlò a lungo di anarchia e colsi subito che ne aveva una conoscenza profonda e aveva letto tutti i libri che allora i militanti anarchici leggevano (perché era l'epoca in cui ancora si aderiva a un movimento solo dopo attente letture). Fabrizio conosceva le cose, conosceva alcune persone della federazione anarchica di Genova che conoscevo anch'io, e c'era soprattutto una buona conoscenza storica. Insomma, ci piacque.
Lui quel giorno spiegò il suo anarchismo, il suo modo di essere anarchico. Non ricordo con esattezza le parole ma si trattava di un anarchismo molto diverso dal nostro, nel senso che il nostro era l'anarchismo dei militanti politici mentre il suo era un anarchismo che si collocava più fra l'individuale e il sociale, con questa sua forte attenzione per gli ultimi, gli emarginati, le puttane, gli zingari, ecc, attenzione che lui collocava nel solco dell'anarchismo. In realtà, come ho avuto modo anche di scrivere, pur restando un militante politico dell'anarchia, col tempo mi sono avvicinato a quelle posizioni perché ho capito che il suo approccio all'anarchismo era molto interessante. Ho capito che quell'approccio non era solo legato alla sua personalità, ma che aveva una forte attenzione all'etica, che è quella che veramente fa la differenza, a mio parere, fra l'anarchismo e altri movimenti politici.
Il mio ricordo è, insomma, quello di una persona che subito ci parve profonda, interessante. Io, in particolare, mantenni i rapporti con Fabrizio e ci rivedemmo spesso dopo quel primo incontro ed è per quello che, descrivendo quell'incontro, ho detto che lì nacque l'amicizia e scomparve il mito. Scomparve il mito perché conobbi Fabrizio come uomo e chiaramente anche lui, come tutti gli esseri umani, era uno con pregi e difetti e quindi, frequentandolo, è stato possibile per me vederlo su un piano profondamente umano. Però vorrei anche aggiungere che l'amicizia con Fabrizio, per certi aspetti, è sempre stata un po' strana. Perché quando lo andavo a trovare e si faceva una chiacchierata parlando non solo di politica (perché con Fabrizio si parlava veramente di tutto), poi, magari, tornando a casa in macchina, mi capitava di mettere la cassetta con le sue canzoni e allora sentivo la stessa voce con cui avevo chiacchierato fino a pochi minuti prima e che ora cantava La guerra di Piero. In questi momenti, in qualche modo, il mito ripartiva.
Quindi, anche se con Fabrizio c'è stata un'amicizia profondamente umana, la sua componente artistica è sempre stata un convitato di pietra, in qualche modo sempre presente. Forse questo proprio per il fascino di quella voce, che a volte facevo fatica a identificare con la persona fisica che avevo davanti. Quindi in qualche modo il mito è scomparso ma è anche rimasto sempre.»

Nel corso di questa vostra frequentazione, a tratti anche molto intensa, vi è mai capitato di progettare assieme delle cose che riguardassero la vostra comune appartenenza anarchica?
«È difficile rispondere perché Fabrizio aveva davvero una personalità molto singolare. Per farti un esempio concreto, quando stava scrivendo le canzoni delle Nuvole, mi telefonò per dirmi che stava lavorando a un disco anarchico. Io che, probabilmente, sul piano artistico, sono piuttosto limitato, pensai ingenuamente che fosse un disco dove ci fosse in maniera esplicita il riferimento all'anarchia o magari che ci potesse stare dentro qualche canto tradizionale degli anarchici come Addio Lugano bella. Invece nulla di tutto questo. Però, in realtà, se si vanno a vedere i testi di quelle canzoni, si possono fare delle analisi profonde e viene fuori l'anarchismo, il rifiuto della società e del potere.
Cito questo esempio perché in Fabrizio la sua attività anarchica coincideva sostanzialmente con la sua produzione musicale, dove ha riversato tutto quello che aveva dentro, compreso il suo anarchismo. Del resto nel rapporto con Fabrizio non c'era una distinzione fra l'ideologico e il personale. Lui era così sia come artista che come uomo e del resto così dovrebbe essere l'anarchismo che, ancor più e ancor prima di essere una scelta politica, dovrebbe essere, alla base, una scelta di tipo esistenziale, quindi accompagnata da coerenti comportamenti personali.
Comunque la risposta alla domanda è no, nel senso che non abbiamo mai progettato di fare un convegno o una pubblicazione. Io veramente cercai anche di coinvolgerlo in alcune cose. Per esempio quando morì Brassens lo chiamai in Sardegna per chiedergli di scrivere un articolo per la rivista. Sarebbe stata una cosa culturalmente grossa per noi, un vero scoop. Ma lì agirono altri meccanismi, lui mi disse che non se la sentiva perché era troppo emotivamente coinvolto. In realtà era difficile coinvolgere Fabrizio su cose pratiche, perché aveva una sua vita per certi aspetti un po' stramba e la sua notevolissima attività intellettuale e artistica. Poi a volte scompariva, magari stava con Mauro Pagani in mezzo al Mediterraneo e ricompariva improvvisamente e si faceva vivo con delle idee nuove. Insomma una persona che ti segna la storia.»

Fabrizio, un patrimonio (ma non economico)

Dopo la morte di De André la tua rivista ha pubblicato un dossier, poi un cd, poi dei dvd. Tutti prodotti molto curati anche nella veste grafica. Forse qualcuno vi ha anche accusato di voler cavalcare l'onda dell'emozione. Perché tutti questi prodotti su De André? Motivi di mercato o volevate rimarcare la sua appartenenza anarchica?
«Noi volevamo rivendicare la sua appartenenza anarchica e mostrare la sua dimensione intellettuale. È vero che qualcuno ci ha accusato di aver cavalcato l'onda dell'emozione. Sono critiche anche legittime considerando che esisteva e tuttora esiste questo fenomeno generale per cui Fabrizio “vende”.
Ma la nostra scelta, chi ci conosce bene lo sa, è nata con un spirito completamente diverso. Il fatto che noi, seppure rimanendo assolutamente indipendenti, abbiamo sempre collaborato con la Fondazione De André e con il suo presidente Dori Ghezzi, con cui permane una profonda amicizia che dura ormai da oltre trent'anni, testimonia della nostra credibilità, perché Dori è molto attenta. Credo che anche i prodotti stessi siano testimonianza della nostra onestà intellettuale. Il dossier che pubblicammo non era che la riproposizione di articoli pubblicati nel marzo 1999, nel primo numero della rivista successivo alla morte di Fabrizio.
Quella fu anche la prima volta in cui noi dedicammo una copertina a un personaggio che non fosse un pensatore anarchico tipo Malatesta o Bakunin e persino questo suscitò dei malumori da parte di qualcuno che ci accusò di coltivare il culto della personalità. In realtà non si trattava di culto ma io, sostenitore di questa linea, colsi subito che Fabrizio era un patrimonio, ma non in senso economico.
Fabrizio era una persona che avrebbe continuato a segnare il tempo successivo alla sua scomparsa e rivendicare il suo collegamento con l'anarchismo non voleva avere un valore passatista ma serviva a tenere aperto il collegamento fra quelle idee, quelle canzoni e il nostro movimento. Solo in questo senso è stata un'operazione studiata, sentita con il cuore ma anche pensata.
Il cd che abbiamo fatto in seguito è stato un nostro grande successo, ha venduto ventimila copie, ma tutti i soldi che abbiamo guadagnato vendendo i prodotti su Fabrizio li abbiamo tutti reinvestiti in nuovi progetti, l'ultimo dei quali, uscito circa un anno fa, è un doppio dvd con libretto sullo sterminio nazista degli zingari. Un lavoro che abbiamo dedicato a Fabrizio che agli zingari aveva, a sua volta, dedicato Khorakané, una canzone di eccezionale valore non solo artistico ma proprio culturale. L'argomento era particolarmente caro a Fabrizio e, anche qui, si capisce che occuparsi di zingari con un prodotto anche costoso, chiaramente non è una scelta di mercato ma è una scelta culturale. Quindi è chiaro che a noi in questa operazione non premeva guadagnare ma, all'interno della memoria che questo Paese ha di Fabrizio, presidiare la componente libertaria e anarchica.
Non è un caso che il dvd: Ma la divisa di un altro colore, che abbiamo pubblicato nel 2003, proprio all'inizio della guerra in Iraq e che ha un titolo antimilitarista ispirato alla Guerra di Piero, fu realizzato in collaborazione con Emergency, cui veniva destinato il 50 per cento dei ricavi. Anche in questo caso non si trattava solo di una operazione politica di sostegno, perché nel libretto che accompagna il dvd c'erano le testimonianze di Teresa Sarti e Gino Strada, i fondatori di Emergency, che ricordavano il loro incontro con Fabrizio a metà degli anni novanta, i contributi economici che Fabrizio aveva dato a sostegno di Emergency2, e quindi tutto si legava. Insomma noi abbiamo sempre cercato di lavorare in sintonia con quello che, a nostro avviso, era veramente Fabrizio, per tenerlo vivo nella battaglia attuale, in questo caso la battaglia contro la guerra in Iraq e contro tutte le guerre, finanziando contemporaneamente il centro chirurgico di Emergency in Sierra Leone.
Nell'insieme io sono molto fiero dei prodotti che abbiamo pubblicato, perché sono convinto che abbiamo fatto delle cose belle, non tanto sul piano estetico quanto sul piano sostanziale. Scomodo per una volta una formula che in genere rifiuto per dire che credo che a Fabrizio, conoscendolo, queste cose sarebbero piaciute.»

Hai scritto che il pensiero anarchico di De André era un impasto originale di vari elementi e che nel vostro primo incontro ti sembrò che alcune supposizioni fossero bizzarre o ingenue ma che, però, nel corso degli anni, il vostro percorso di anarchici è andato avvicinandosi fino a che, come ci hai detto poco fa, sulla questione zingara, con Khorakané, vi siete ritrovati pienamente. Ma com'era questo pensiero anarchico originale di De André? Come si sposava con altre correnti dell'anarchismo?
«Come avevo accennato prima Fabrizio enfatizzava molto questo suo interesse per gli emarginati. All'epoca del nostro primo incontro noi eravamo impegnati in maniera più politica, come giovani anarchici, in campagne contro le stragi di stato, per l'antifascismo militante, eccetera.
Esagerando potremmo dire che eravamo inseriti nel movimento generale dell'estrema sinistra di allora. In molti di noi c'era una minore attenzione verso quegli aspetti che erano cari a Fabrizio, che pure facevano capo a un filone storico dell'anarchismo, cosiddetto “individualista”, che era un filone che non rifiutava la lotta sociale ma guardava soprattutto alle questioni legate alla vita degli individui. È un filone che sottolineava il rifiuto del potere come rifiuto dell'obbedienza, quindi enfatizzando più il concetto della rivolta che quello della rivoluzione. Si tratta di un filone di pensiero che a livello internazionale ha avuto esponenenti importanti, come ad esempio Albert Camus in Francia. Fabrizio conosceva bene questo filone, aveva letto libri come L'iniziazione individualista anarchica di Émile Armand, e il suo anarchismo era più orientato su questo versante individualistico che su quello social-socialista che invece ci caratterizzava.
In questo senso lo sviluppo poi generale della storia, per esempio il discorso del '77 sul personale e il politico, è sembrato ai miei occhi non dico di dare ragione del tutto, ma sicuramente sottolineare la validità dell'approccio di Fabrizio, che in qualche misura aveva precorso i tempi. Per esempio all'epoca una delle lotte degli anarchici era quella per l'astensionismo. Fabrizio era meno interessato a queste cose, era molto più eclettico. Quindi nell'approccio c'erano delle differenze. Però in realtà sui temi profondi dell'anarchismo ci siamo ritrovati. Lui ha continuato a seguire con attenzione il nostro lavoro e a leggere le nostre pubblicazioni, su cui spesso ci dava il suo parere, anche molto critico.»

Religiosità laica

Un aspetto che ha suscitato spesso delle perplessità è questo contrasto fra il De André anarchico e quello attento alle tematiche religiose, specie l'attenzione alla figura di Gesù che lui ha descritto come una sorta di anarchico ante litteram. Tu hai parlato di “religiosità anarchica” di De André e del resto un prete cattolico come don Gallo ama definirsi “angelicamente anarchico”. Sbrogliamo un po' questa matassa: come si incontrano il De André anarchico e quello della Buona novella?
«In realtà si incontrano facilmente. Vorrei qui fare un salto indietro sul piano storico: se andiamo all'ottocento, alla nascita del movimento socialista e anarchico, troviamo molti libri, opuscoli e altro materiale che parla di un Gesù anarchico o socialista; un Gesù usato come arma anticlericale e addirittura, a volte, antireligiosa. D'altra parte l'operazione che farà poi Fabrizio con la buona novella sarà quella di una umanizzazione di Gesù, letto tramite i Vangeli apocrifi e non tramite quelli ufficiali. In realtà con queste operazioni Fabrizio è in assoluta continuità con un filone, carsico e minoritario, ma presente nella sinistra italiana, che è quello del: “riappropriamoci di Gesù”, anche in chiave anti vaticana. L'operazione di Fabrizio è però assolutamente sincera e nasce da profonde conoscenze e convinzioni. Tanto è sincera, sentita e profonda, quanto non è capita dai movimenti della contestazione di allora.
Io sono convinto comunque che in molti casi le ragioni di fondo dell'adesione a movimenti molto diversi fra loro, come possono essere l'anarchismo e il cattolicesimo, possono essere ragioni che si incontrano, perché riguardano spesso, in entrambi i casi, il desiderio di migliorare il mondo. Anche fra coloro che aderiscono all'anarchismo, che è un movimento politico tradizionalmente ateo, anticlericale e laico, c'è sempre stata una piccola componente di anarchici cristiani, non solo tollerati ma anche apprezzati. Ci sono stati del resto anche anarchici ebrei e ho conosciuto persino un'anarchica islamica. Si tratta di persone che hanno dovuto fare i conti con le loro contraddizioni, come del resto dobbiamo fare tutti nella vita.
Fabrizio ha fatto sempre i conti con questa doppia appartenenza, che forse nel suo caso era anche una appartenenza multipla per via della complessità della sua personalità. Fabrizio era sicuramente anarchico per delle ragioni di fondo che lui ritrovava però anche nel pensiero religioso. Io ho parlato di “religiosità laica” di Fabrizio, perché sostengo che in genere si usa il termine religioso per definire anche le persone che si occupano di determinati argomenti, perché determinati argomenti, come la vita, la morte, l'esistenza, sembrano essere attinenti solo alla sfera religiosa. Ma questo non è vero perché anche l'anarchismo e probabilmente anche altre teorie del pensiero, nella loro dimensione più profonda, nella loro valenza etica, che sono la vera cifra di lettura di questi filoni del pensiero, si occupano, in maniera laica, di queste tematiche, che quindi non sono patrimonio esclusivo della religione.
Fabrizio è tutto dentro a questo contrasto. Lui è quello che, anche rispetto all'idea di Dio, in alcuni versi esprime pensieri molto vicini all'ateismo anarchico e in altri sembra essere persona profondamente religiosa. Forse è difficile dipanare questa matassa ma si può cercare di comprenderla: quando uno va a toccare i tasti veri e profondi della vita, quelli che fanno sì che la filosofia greca di migliaia di anni fa o il pensiero buddista, anche nell'era tecnologica, ci parlino ancora di cose attuali, evidentemente le etichette non bastano. Non basta la definizione di cristiano né quella di anarchico e le due cose possono, magari parzialmente, sovrapporsi.»

Sulle orme di Fabrizio. In Australia

Sei venuto in Australia nel 2004 proprio per parlare di De André. Che ricordo hai di quell'esperienza?
«È stata un'esperienza veramente eccezionale, anche per la dimensione turistica, perché era una prima volta. Ma restando a De André ho avuto la possibilità di parlarne in tre città importanti, con conferenze negli istituti italiani di cultura di Melbourne e Sydney e presso l'istituto Dante Alighieri di Brisbane. Ho avuto incontri con la stampa, interviste radiofoniche e persino due incontri con gli studenti alle università di Melbourne e Sydney, dove c'erano insegnanti che si occupano di De André nei loro corsi di lingua e cultura italiana.
È stato eccezionale scoprire che anche dall'altra parte del mondo Fabrizio era riuscito in qualche maniera ad essere presente, a influenzare, con vari filoni perché, se da una parte ho incontrato i nostri emigrati liguri, che legano il loro amore per Fabrizio al fatto che fosse genovese, dall'altra ho conosciuto studenti australiani che hanno scritto delle tesi su particolari aspetti della poetica di Fabrizio. Un dato molto significativo è che dopo il mio rientro in Italia si è anche cercato di stabilire dei rapporti fra le università australiane e quella di Siena, presso la quale si trova il centro studi su De André. Prima mi chiedevi come mai in Italia ci sia un tale fiorire di iniziative su Fabrizio. Io potrei girare la domanda chiedendo come mai in Australia, paese dove non ha mai messo piede, nel 2004, cinque anni dopo la sua scomparsa, si trovavano tracce vive di Fabrizio, che oltretutto non ha mai cantato in inglese.»

A questa osservazione potrei rispondere che la poetica di Fabrizio De André, come dimostra questa piccola trasmissione, che va avanti da molti mesi, ha una valenza veramente universale. Vorrei aggiungere anche che il filo rosso di quelle “tracce” di cui parlavi non si è ancora interrotto anzi, ci sono artisti locali che stanno cominciando a inserire canzoni di De André nei loro concerti e aumentano gli studenti e i docenti interessati. Nel 2005 la Fondazione De André ha fatto una generosa donazione di libri e materiali sonori al dipartimento di italianistica della Monash University di Melbourne, quella dove tu hai tenuto la tua “lectio magistralis” su De André. Quindi le cose stanno procedendo con molta intensità e si arriverà prima o poi a organizzare qualche concerto interamente dedicato a Fabrizio3.
Tornando a noi, nel lungo percorso di questa trasmissione abbiamo intervistato tanta gente che in qualche modo poteva sentirsi rappresentata nella poetica deandreiana: la prostituta, il transessuale, l'omosessuale, il detenuto, il rom, l'ex tossicodipendente, e così via. Volevamo indagare su quanto De André avesse colto nel segno parlando di queste persone. Questa domanda potrebbe anche sembrare provocatoria: ti sei sentito anche tu in qualche modo rappresentato o ti senti piuttosto un osservatore?
«Io sono un osservatore. Vengo da una famiglia milanese della sinistra ebraica e antifascista che non ha nulla a che vedere, in prima battuta, con il mondo del lumpenproletariat descritto da Fabrizio. Quindi sarebbe un'ipocrisia non riconoscere questa mia provenienza di classe, questa mia storia personale che, d'altronde, è molto simile a quella di Fabrizio, che non veniva certo dal mondo del sottoproletariato ma da una famiglia al confine fra la borghesia e l'aristocrazia genovese. Quindi non mi sento rappresentato, dal punto di vista sociologico, nel mondo descritto da Fabrizio, che è un mondo al quale io guardo con grande attenzione, sensibilità e passione ma pur sempre dall'esterno.
Quello che Fabrizio aveva era non solo la capacità di rappresentare, con le sue canzoni, queste persone. Ma anche, proprio grazie a questa sua sensibilità individuale, a questo suo anarchismo individualistico, la capacità di entrare sotto la pelle di queste persone. Lui, attraverso quelle canzoni, diventava veramente uno di loro. Quando Giorgio Bezzecchi, presidente dell'Opera nomadi, nel filmato Faber4 dichiara che Fabrizio era un rom a tutti gli effetti, riconosce che lui non era solo un amico ma che era diventato proprio uno di loro. Cioè Bezzecchi aveva capito che Fabrizio, nel periodo in cui aveva scritto Khorakané si era immedesimato fino al punto da diventare, in qualche modo, uno di loro. E questo non solo perché è stato probabilmente l'unico cantante al mondo che si è sognato di comporre un testo e farlo tradurre nella lingua dei rom (e teniamo presente che il 99 per cento delle persone, cantanti inclusi, non sa nemmeno che esiste una lingua dei rom). Ma anche perché si capiva che non si trattava di una operazione superficiale di tipo culturale. Si capiva che era una cosa che gli veniva spontaneamente, da dentro, che lo portava a entrare sotto la pelle dei suoi personaggi.
Quando canta delle prostitute, quando canta di Marinella, Fabrizio è Marinella, è la prostituta. Lo è nel senso che riesce a identificarsi, secondo due aspetti. Il primo è l'aspetto politico-culturale che lo portava sempre a stare dalla parte dei perdenti: zingari, tossici, suicidi. L'altro aspetto è quello di documentarsi a fondo. Proprio parlando di rom, quando ha deciso di scrivere Khorakané Fabrizio è andato alla libreria anarchica di Milano e ha chiesto tutti i testi disponibili sull'argomento. Non ha preso solo quelli che c'erano in quel momento in negozio ma ha chiesto di fare una ricerca accurata e di poterli avere tutti. Poi ha voluto conoscere Bezzecchi, non solo per farsi tradurre una poesia ma proprio per avviare una conoscenza con i rom. Insomma in Fabrizio, e qui voglio ribadire questa sua eccezionale dimensione intellettuale, non c'era solo la sensibilità di stare da una certa parte ma anche la voglia di capire veramente, di documentarsi. La stessa cosa avvenne quando parlò degli indigeni americani. Anche lì si era documentato, aveva studiato e incontrato. Quindi in Fabrizio c'era un abbinamento forte di colore, sensibilità e cervello, cultura. Questo ha permesso a Fabrizio di rappresentare con tanta precisione queste figure.
E io lo sento come un compagno di strada che avrebbe potuto fare la sua vita andando in giro su uno yacht e invece si è occupato di rivendicare la dignità di queste persone.»

Né padre Pio né immaginetta sacra

Chiudiamo questa intervista con una tua ultima riflessione: c'è qualche canzone, poesia, verso di De André che secondo te rappresenta meglio di qualunque altra l'anarchismo o comunque la sua visione anarchica?
«Io continuo ad ascoltare le sue canzoni, in maniera quasi monomaniacale. Quando ho bisogno di pensare, quando devo scrivere, ascolto le sue canzoni, sento la sua voce e invece di continuare a fare quello che sto facendo mi fermo a pensare, a riflettere su un verso sul quale magari ho già riflettuto mille altre volte. Una sorta di espressione finale sul mio rapporto con Fabrizio potrebbe essere questa: io sono largamente e sinceramente contrario ad ogni forma di mitizzazione però (invecchiando divento sempre più sincero), pur riconoscendo che siamo tutti uguali, devo dire che esistono alcune persone che, più di altre, nella poesia, nell'arte, nella vita quotidiana, sono qualche passo avanti a noi.
Secondo me Fabrizio era molti passi avanti a noi. Io ho avuto la possibilità di conoscerlo e questo mi ha dato tanto di più. Ma credo che, anche chi non l'ha conosciuto, possa capire questo. Del resto conosco tante persone che non l'hanno conosciuto personalmente eppure hanno questo rapporto individuale, profondo e inestricabile con Fabrizio. Quindi, non voglio mitizzarlo, ma penso che ci si possa riferire a lui come a un pozzo o uno scrigno da cui attingere. Vorrei aggiungere che, in alcuni momenti difficili della mia vita, Fabrizio, senza con questo volerlo trasformare in un padre Pio o in un'immaginetta sacra, mi ha aiutato a riflettere. Fabrizio aiuta a fare delle scelte perché resta una buona sponda con cui dialogare.»

Renzo Sabatini

Note

  1. Pepi Morgia, nato a Genova nel 1950, regista e tecnico delle luci di tutte le tournée di Fabrizio De André e di molti altri cantanti italiani, fondatore a Genova del Teatro della Tosse, è deceduto nel settembre 2011.
  2. Associazione nata nel 1994 con l'obiettivo di assistere dal punto di vista medico le vittime dei conflitti armati. Per approfondimenti si può consultare il sito: emergency.it.
  3. Cosa poi avvenuta grazie all'impegno di Danilo Sidari, un ligure che vive a Sydney ed è riuscito a mettere assieme un gruppo di artisti e mettere in scena due concerti di successo, a Sydney e Melbourne.
  4. Di Romano Giuffrida e Bruno Bigoni, 1999.


In direzione ostinata e contraria

Con questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A” di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche realizzate da Renzo Sabatini e andate in onda in Australia nel programma “In direzione ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna della durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al cantautore genovese.

Se proponiamo questi testi, è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio e poste alla base di una riflessione critica sul mondo e sulla società, con quello sguardo profondo e illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con una profonda sensibilità libertaria e – scusate la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.

Precedenti interviste pubblicate: a Piero Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo (“A” 374, ottobre 2012), Santino “Alexian” Spinelli (“A” 375, novembre 2012)); Paolo Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013); Gianni Mungiello, Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A” 377, febbraio 2013); Giulio Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo 2013); Sandro Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013); Luca Nulchis (“A” 380, maggio 2013); don Andrea Gallo (“A“ 381, giugno 2013).

la redazione di “A”