Rivista Anarchica Online


 

Le Br,
dalle grandi fabbriche alla sconfitta

La più duratura organizzazione della lotta armata in Italia è stata oggetto di un'ampia pubblicistica concentrata tuttavia in modo quasi esclusivo sugli eventi che hanno ruotato intorno al sequestro dell'on. Aldo Moro e non sugli “anni della formazione”. Come se le Brigate rosse, che nel 1978 operavano già da sette anni, fossero nate e si fossero strutturate solo in vista dell'obiettivo finale di rapire lo statista democristiano. Poca e superficiale attenzione è stata invece dedicata alla nascita e agli albori dell'organizzazione, intorno ai quali circolano ancora giudizi storiograficamente imprecisi e rievocazioni solo giornalistiche sganciate da qualsiasi contesto.
Il saggio di Andrea Saccoman (Le Brigate Rosse a Milano: dalle origini della lotta armata alla fine della colonna “Walter Alasia”, Unicopli, Milano 2013, pagg. 287) colma tale lacuna e rappresenta una affidabile ricerca storica basata sullo studio attento dei documenti provenienti dall'organizzazione e sull'esame di prima mano degli atti processuali e che utilizza, correttamente, solo come fonti secondarie le dichiarazioni degli appartenenti alle Br, pentiti o irriducibili che siano, per evitare rielaborazioni basate su racconti autogiustificatori o autoelogiativi.
Grazie a tale metodo la ricerca di Saccoman consente di fissare alcuni punti fermi: il luogo e la data di nascita delle Brigate rosse, l'esordio delle loro azioni, la composizione sociale e la provenienza dei suoi componenti.
Luogo di nascita è stato senza dubbio Milano, dalle cui fabbriche provenivano i primi nuclei di brigatisti, con un apporto limitato dal mondo universitario di Trento, fornito anche dall'interno del cattolicesimo del dissenso, e del collettivo “gruppo dell'appartamento” di Reggio Emilia, formato in parte da ex militanti del Pci usciti dal partito su una linea “avventurista”.
L'arrivo a Milano da Trento di Renato Curcio e di sua moglie Margherita Cagol e di Franceschini da Reggio Emilia sarebbe stato tuttavia insufficiente a creare una nuova forza e avrebbe aggiunto alla piazza solo qualche rivoluzionario di professione in più se non si fosse incontrato con nuclei radicali presenti in modo significativo all'interno delle grandi fabbriche: la Pirelli, la Sit Siemens, la Magneti Marelli, la Breda, la Falck, luoghi di lavoro dell'operaio-massa e ormai come tali praticamente scomparsi
Certa è quindi l'origine operaia delle Brigate rosse, a smentita di una percezione ancora diffusa che le vorrebbe creazione di studenti e di piccoli borghesi frustrati, ed è individuata con certezza nel saggio di Saccoman la loro data di nascita: il convegno di Pecorile, un minuscolo paese dell'Emilia, nell'agosto del 1970 che sancì il processo di uscita delle Br dal bozzolo di Sinistra proletaria, involucro destinato a estinguersi una volta terminata la sua funzione di incubazione della nuova realtà. Una realtà che teorizzava come ormai impossibile la lotta semplicemente politica e inevitabile l'unificazione con il piano militare sulla base anche della distorsione percettiva che giudicava parimente inevitabile lo scivolamento a breve dell'Italia in uno scenario autoritario e golpista.
La provenienza operaia, con l'abitudine alla disciplina del lavoro e alla frugalità, ha certamente favorito quella scelta strategica dell'organizzazione che nel saggio è descritta con grande efficacia: l'assoluta clandestinità dei militanti, applicata dalle Brigate rosse per prime dopo la fine della guerra. Quindi sparizione dai luoghi di lavoro e rottura di ogni legame familiare, assunzione di una nuova identità e contemporanea “apparizione” di un altro individuo, un “uomo senza qualità” con regole precise: abita in una casa anonima e “compartimentata”, conosciuta cioè solo dai militanti che la abitano e da un altro componente della “colonna”, si inventa una figura sociale, operaio, artigiano rappresentante e quindi esce e rientra in casa a orari precisi, gentile ma riservato con i vicini, non stringe rapporti sociali nel quartiere tanto da non comperare i giornali sempre nella stessa edicola. Una scelta obbligata per la guerra rivoluzionaria nella metropoli, che tuttavia col tempo ha separato i militanti dalla loro base sociale di riferimento e li ha distaccati dalla realtà. Un aspetto, questo, poco studiato e, aggiungiamo, l'esatto contrario dello stile di vita alternativo, della creatività rivoluzionaria, dell'attenzione al “personale” che sono stati tra i tratti salienti dei movimenti del '68.
È il 17 settembre 1970 la data della prima azione rivendicata con il simbolo della stella a cinque punte, il banale incendio della porta del garage dell'ing. Giuseppe Leoni, dirigente della Sit Siemens, azienda che, tra azioni contro uomini e cose, sarà colpita nel corso della vita delle Br per ben 30 volte.
Seguiranno i sequestri “volanti” di altri dirigenti, fotografati con un cartello appeso al collo (il primo, Idalgo Macchiarini, il 3 marzo 1972), la produzione “seriale” delle gambizzazioni (la prima vittima è l'esponente democristiano Massimo De Carolis il 15 maggio 1975) e delle uccisioni, fra cui, tra le più efferate, la strage, nel gennaio 1980, in un sottopassaggio di via Schievano, di tre agenti di polizia, che nulla avevano a che fare con l'antiterrorismo.
A metà di questa catena di delitti, tutti descritti in dettaglio nel saggio anche nei loro aspetti più curiosi (una volta fu gambizzato un dirigente d'azienda scambiato per un altro e il volantino di rivendicazione fu precipitosamente corretto) si consuma alla fine del 1980 la scissione della colonna Walter Alasia dall'esecutivo romano di Moretti e Balzerani, accusato dalla componente “autonomista” milanese di aver privilegiato un velleitario attacco al cuore dello Stato a discapito dell'origine fondante delle Br e cioè il collegamento con la classe operaia.
Per qualche tempo sono esistite dunque due Brigate rosse e poi addirittura tre con la nascita a Napoli dell'ancor più feroce Partito della guerriglia.
La fine della Walter Alasia milanese e dell'intera esperienza delle Br storiche si consuma con lo smantellamento delle ultime basi nel 1982, cui seguiranno, dopo anni di silenzio, le riedizioni, dal 1988 in poi con gli omicidi Ruffilli, Biagi e d'Antona, che tuttavia sono all'esterno del perimetro storico del saggio.
Perché le Brigate rosse, nonostante il primato di longevità come organizzazione della lotta armata in Europa, hanno fallito e si sono poi ridotte ad una variante marginale? Le ragioni sia tattiche sia strutturali indicate nella conclusione del volume sono tutte condivisibili.
In primo luogo sono scomparse le grandi fabbriche, serbatoio di militanti e di simpatizzanti. Dove vi era la concentrazione operaia della Pirelli-Bicocca sorge ora la seconda Università milanese in cui è ricercatore proprio l'autore del saggio. Sul piano generale, soprattutto dopo il sequestro di Aldo Moro, le Br si erano infilate in un vicolo cieco. Per quanto ottusa e corrotta fosse parte della classe politica, nella Dc come in altri partiti, la sua impopolarità non fu mai tale da spingere una parte significativa della popolazione italiana anche solo ad augurarsi una soluzione rivoluzionaria guidata dalle Br o da gruppi simili che mancava di una qualsiasi progettualità di ampio respiro.
Oltretutto le Br non si erano nemmeno prese cura di descrivere cosa avrebbero fatto dell'Italia se avessero vinto la loro guerra contro lo Stato. Non esisteva in pratica una parte “costruttiva” del loro progetto che facesse da specchio alla parte “distruttiva”, ritmata dalle esecuzioni e dai volantini di rivendicazione.
Era possibile solo, e in modo più che giustificato, immaginare che in caso di presa del potere avrebbero instaurato un regime, ben lontano tra l'altro dall'anima libertaria del '68, molto simile quello di Stalin e di Pol Pot: una prospettiva questa di qualche attrattiva davvero per molto pochi.
Sul piano strategico era impensabile che una guerriglia urbana, incentrata solo su azioni in alcune città, potesse avere risultati decisivi. Anche i Gap del resto, i Gruppi di azione patriottica che agivano nelle città, avevano avuto, durante la Resistenza, un semplice ruolo ausiliario. E le Br non erano mai riuscite nè avevano tentato di costruire anche solo una parvenza di esercito regolare che agisse in montagna o in altre zone non metropolitane del paese.
Sul piano tattico le azioni delle Br si erano poi disperse su molti e troppi obiettivi: dirigenti di azienda, democristiani, sindacalisti “revisionisti”, poliziotti, agenti di custodia, giornalisti. Un vasto numero di obiettivi dà certamente il vantaggio di rendere ardua l'azione di prevenzione dello Stato (più numerosi sono i potenziali obiettivi, più difficile è difenderli tutti) ma in tal modo l'organizzazione armata non era riuscita a portare veramente in profondità nessuna campagna. Anche durante le intermittenti campagne contro i dirigenti di azienda, le carceri, i giornalisti, nessuna azienda si era fermata per paura, nessun carcere aveva cessato di funzionare, nessun giornale aveva interrotto le pubblicazioni.
Infine, benché attente alla pubblicità delle loro azioni e ai mezzi di comunicazione di massa le Br si erano dimostrate incapaci di costruire messaggi di una qualche efficacia: i loro volantini e le loro risoluzioni erano monotone e ripetitive come le loro azioni. In poche parole: illeggibili. Sono state più studiate dai carabinieri che le analizzavano a fini investigativi – e questo è un ricordo personale di quando negli anni '80 ero giudice istruttore – che lette da coloro che, operai, proletari, studenti, ne sarebbero stati i naturali destinatari.
A questi fattori di sconfitta si deve unire, aggiungiamo noi, il mutamento del quadro internazionale. Le Br non erano certo dirette dall'esterno ma erano comunque nate all'interno della Guerra fredda e lo spostarsi del conflitto dall'Est\Ovest al Nord\Sud del mondo ha reso obsolete le loro analisi e la loro pratica e quasi artigianali le loro azioni: una uccisione ogni tanto, di fronte a nuove forze che con un modesto sforzo sono riuscite a far crollare le Torri gemelle.
Chiudono il volume due documenti del tutto inediti, custoditi presso la Fondazione Isec di Sesto San Giovanni e provenienti dalla Federazione milanese del Pci: una dettagliata “indagine” del partito su sospetti brigatisti presenti nelle fabbriche milanesi e una confessione-relazione di un militante del Pci della Sit Siemens, “sedotto” alla metà degli anni '70 per breve tempo dalle Br, fitta di dati su coloro che avevano cercato di reclutarlo.
A riprova del fatto che, per quante azioni di fuoco riuscissero a mettere a segno, il destino delle Br, strette tra la tenaglia delle forze dello Stato e del Pci che si muoveva dall'interno della loro base sociale, era, anche nei momenti della loro massima espansione, a lungo termine segnato.
Infine l'autore ha ricordato le difficoltà incontrate negli anni nelle sue ricerche per reperire negli archivi giudiziari, di difficile accesso e privi di una catalogazione se non per numero dei processi, le sentenze e gli atti di indagine. Fortunatamente tale ostacolo è stato da poco superato, grazie al lavoro dei responsabili dell'archivio del tribunale di Milano, che ha consentito di versare all'archivio di Stato di Milano gli originali e in più la versione digitalizzata non solo dei processi alle Br, ma anche sul terrorismo di destra, sul caso Calvi- Sindona, sulla strage di via Palestro e gli altri casi “storici”.
Un patrimonio che merita ancora di essere esplorato da studiosi come Saccoman, con metodi storiografici e senza l'intento di giudicare o di condannare ma quello di offrire ad altri gli strumenti per leggere e per riflettere.

Guido Salvini


Musica/
InCanto sulla Martesana

L'attività poliedrica del complesso corale e strumentale Martesana InCanto Ensemble (www.incanto.name) non è solamente esecutiva, ma soprattutto creativa, nella forma di un autentico laboratorio poetico e musicale, tramite la formula del concerto tematico. Ogni esperienza concertistica risulta strutturata all'interno di un contesto narrativo, costituito dall'agile e sagace intreccio tra canti, testi e immagini, al punto da connotarsi come autentica opera corale. Le musiche proposte sono rielaborazioni di brani classici (Mozart, Haydn, Clementi, Vivaldi, Brahms ecc.), oppure direttamente composte dal maestro Bruno Belli, le parole dei canti sono tratte da testi di poeti contemporanei o personalità storiche, da Martin Luther King a David Maria Turoldo, da Gandhi a Piero Calamandrei, da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a Vandana Shiva e molti altri.
Lo spettacolo dal titolo “Con lo sguardo dei bambini” spazia dalla rievocazione della storia, tramite la suggestione delle poesie dei fanciulli internati nel ghetto di Terezin, all'attualità del nostro presente, della contemporaneità, nelle zone in cui l'infanzia è negata e violata dalla guerra, dallo sfruttamento, dalla fame, dalla più atroce sopraffazione sulle fragilità e diversità infantili.
Lo spettacolo “Desiderio di pace” presenta percorsi di riflessione tramite il prisma del desiderio di fratellanza e solidarietà, annientato dal lager, dai campi di sterminio, nell'indifferenza della discriminazione, del razzismo, della segregazione, ricordando l'alto prezzo pagato in vite umane, per i diritti imprescindibili della persona sanciti dalla Costituzione. Per approdare al nobile ideale della pace, le proposte musicali spaziano attraverso gli stilemi della musica di Brahms e il sapiente andamento delle strofe di Calvino, con un grande anelito agli ideali di libertà, di lotta alla discriminazione e al razzismo, tramite la partecipazione, l'impegno e la solidarietà. Lo spettacolo “La musica non è indifferente”, in un connubio tra pensiero razionale ed elemento emotivo trasforma il contesto musicato in un potente mezzo di liberazione del pensiero e di esercizio di tolleranza antidogmatico. Attraverso le immortali parole di Martin Luther King, grazie alle quali il sogno della pace diventa aspirazione alla consonanza, alla ricerca dell'ideale di libertà, si giunge alla riflessione musicale che, con brani adeguati, parte dai processi di liberazione dall'oppressione dei regimi totalitari, per approdare all'esplorazione delle condizioni di pace da coniugare con alti ideali di giustizia, solidarietà e incontro di culture e diversità, per comprendere noi stessi e la dignità umana, lungo le strade della speranza, della progettualità, dei processi di pace, di liberazione ed emancipazione anche femminile, vissuti nell'interiorità e nella socialità. Il cuore dell'opera corale “Variazioni sulla memoria” propone un percorso di narrazione degli orrori della Shoah, tramite brani che raccolgono la dolorosa testimonianza delle vittime, che si compongono, come tessere di un mosaico di pace, con la rappresentazione di altri eventi drammatici, ma anche capaci di smuovere le coscienze e orientarle al cambiamento, nella solidarietà che sempre sconvolge ed erode il potere, tramite piccoli passi, passaggi e processi di pace che si alimentano di musica, pensieri e poesia in un impianto corale, un autentico InCanto concertistico, che vibra negli animi per far vivere l'anelito del grande sogno della pace, contro ogni razzismo, contro tutte le guerre, contro tutti i totalitarismi.

Laura Tussi



La famiglia Scarselli/
Un libro. Un mito

Correte a leggere la storia degli Scarselli, scritta da Angelo Pagliaro. Vi accorgerete che è possibile fare del male al Male. E che c'è stato chi s'è ribellato ai fascismi, senza perdere la gioia.
La letteratura sui movimenti rivoluzionari ci ha abituato ad una certa forma di schizofrenia. Da una parte i racconti aridi di una storiografia farraginosa e specialistica, riservata ad “eletti” ed “iniziati”; dall'altra i salti onirici di un'affabulazione a tratti trionfalistica. In mezzo, massacrate dall'editoria commerciale, dal carrierismo accademico e da qualche produttore cinematografico a caccia di emozioni forti, rimangono le carogne delle passioni politiche e della verità storica. Che persino quando è perseguita con strumenti certosini, si rivela diafana, inconcludente, criptica.
Grande assente, ai giorni nostri, è la mitopoiesi, la produzione di mito. Qualcosa d'interessante è stato scritto e pubblicato a ridosso del ciclo di lotte sociali del 2001. Ma poi i movimenti antagonisti che si oppongono al Potere hanno ripreso a parlare difficile. I santoni della conoscenza pickpocket, quelli che borseggiano i produttori di sapere per infilarselo in tasca e rivenderlo al miglior offerente, si parlano e si capiscono da soli. E anche quando narrano qualcosa d'interessante, finiscono per trasmettere depressione. Sembra si sia persa la voglia di raccontarsi e sentire raccontare. Del resto la rapidità con cui viaggia l'odierna comunicazione politica genera un effetto illusorio. In apparenza, disponiamo di qualsiasi strumento comunicativo. In realtà viviamo rinchiusi dentro il recinto di una democrazia drogata. Così diviene inarrestabile la deriva verso forme improbabili di partecipazione politica. E non ci si può più aggrappare all'unico argine simbolico: il piacere di sapere che è ancora possibile non solo ribellarsi, ma anche giusto e divertente, visto che in tanti, prima di noi, lo hanno già fatto. Sì, soffrendo, spesso pagando con la vita e la libertà, ma sempre muniti di una tendenza ideale alla ricerca della felicità. Da trovare qui ed ora.
Lo spiega bene Domenico Liguori, della Fai di Spezzano Albanese (Cosenza): “La storia reale è quella che va al di là dei libri di testo scolastici, la storia di personaggi cosiddetti minori”. Nell'ultimo decennio, è andato in metastasi un male antico, quello della messa a profitto dell'intelligenza sovversiva. La ricerca storica sponsorizzata dal neoliberismo, anche quando mascherata da inchiesta genuina, ha continuato a divorare miti, storie e simboli.
Potrà forse apparire retorico, quasi obsoleto, eppure a segnare il confine tra la ricerca fine a se stessa e il sincero lavoro politico c'è, come si diceva tanto tempo fa, una questione “di classe”. Dipende quindi soprattutto da chi scrive. Quando a farlo è un libertario sincero, un attivista della ricerca autonoma, che dedica tutta la propria esistenza alla ricostruzione di fatti diversamente destinati all'oblio, il risultato è quanto meno dignitoso. Nel caso de La famiglia Scarselli (edizione Coessenza, Cosenza, 2012, pp. 211, e 10,00), Angelo Pagliaro è andato al di là della semplice testimonianza, regalandoci un testo che potrebbe a pieno titolo far parte della biblioteca di ogni sovversivo, oltre che dei pochi sceneggiatori e romanzieri liberi rimasti in circolazione. Ha ragione Katia Massara, docente di Storia contemporanea presso l'Università di Arcavacata, quando dice che quello di Pagliaro è un lavoro “generoso, appassionato, ricco di umanità e dignità”. È lo specchio di un'epoca, perché – aggiunge la Massara – è solo apparentemente storia locale. È una storia che è anche la storia della grande famiglia libertaria”. E lo è ancor di più perché la struttura del racconto è stata congegnata per lasciar entrare il lettore nel laboratorio dello scrittore. “Una struttura della narrazione molto interessante che procede dall'esterno, una sorta di gioco di scatole cinesi in cui l'aspetto politico acquista una forte tonalità emotiva. Non è un caso che il testo inizia e termina con dei brani intimi e familiari”, spiega Elena Giorgiana Mirabelli, precaria della conoscenza, nonché editor della casa editrice indipendente Coessenza.
Pagliaro riporta nel volume tutta la documentazione cui ha attinto per tessere la tela di una vicenda umana e politica sinora confinata nella dimensione del banditismo, grazie a questo lavoro finalmente restituita alla sua reale natura. Gli Scarselli hanno vissuto in mezzo alle dittature fascista, staliniana e brasiliana, e sono riusciti a dare filo da torcere a tutte e tre, contribuendo a lastricare l'impervia strada dei movimenti rivoluzionari del secolo scorso. Grazie anche a loro, rimangono aperti i nostri infiniti sogni di liberazione. È un libro antidepressivo. Provare per credere, per arrabbiarsi, per sorridere.
Per ordinare il libro:
ordini.coessenza@libero.it
fax 0984/1862284

Claudio Dionesalvi


Note di lettura
su Valerio Evangelisti

Valerio Evangelisti

Valerio Evangelisti è uno scrittore da anni noto al grande pubblico ed è anzi oggetto da parte di molti lettori di grande interesse che, a volte, sconfina in una vera e propria passione. È anche uno scrittore, per molti versi innovativo e, nel contempo, capace di riprendere forme assolutamente tradizionali della narrativa.
Se si scorre l'elenco dei suoi libri si può cogliere la presenza di almeno due macrofiloni narrativi. Da una parte vi sono opere riconducibili al fantasy, in particolare, ma non solo, il ciclo di Nicolas Eymerich, un inquisitore, realmente esistito ma completamente trasformato da Evangelisti, protagonista di vicende che vedono spostamenti nel tempo e l'intervento di esseri innaturali. In questo caso la scelta, spiazzante, di un “cattivo” come personaggio principale permette di guardare in maniera allucinata e originale a una serie di eventi che si collocano alla frontiera fra la crisi culturale determinata dalla fine dell'egemonia culturale della Chiesa in Europa, sovrapporsi di diversi piani di realtà, sguardi in un “futuro” che vede spinti agli estremi gli aspetti più osceni del nostro oggi.
Dall'altra Evangelisti, almeno a mio avviso, riprende la pratica classica del romanzo storico e da vita, per ora, ad almeno tre serie di romanzi di questo tipo:
- il ciclo americano, famosissimi Noi saremo tutto e One Big Union, che tratta essenzialmente della storia del conflitto di classe e del sindacalismo radicale negli Usa fra '800 e '900;
- il ciclo messicano che tratta delle vicende, appunto, del Messico fra seconda metà dell'800 e prima metà del '900 in stretta relazione con le contemporanee vicende statunitensi;
- il ciclo dei pirati collocati fra '600 e '700 che reinterpreta la vicenda dei pirati che solcarono in quei secoli l'Atlantico come anticipazione delle rivoluzioni borghesi che nella seconda metà del '700 fecero saltare i vecchi equilibri.
Quando faccio riferimento al classico romanzo storico come modello a cui Evangelisti si tiene – in maniera peraltro innovativa –, intendo opere che ricostruiscono dettagliatamente vicende storiche collocando al loro interno personaggi letterari.
È anche vero che l'opera di Evangelisti si distingue significativamente da quella di Alessandro Manzoni o di Walter Scott, i maestri del romanzo storico, su almeno due piani, quello linguistico, caratterizzato dall'uso di uno stile secco e crudo che molto deve alla lezione di Hemingway, Steinbeck e Dos Passos e soprattutto quello del senso profondo delle sue opere.
Se infatti Manzoni e Scott descrivono punti di crisi che trovano soluzione e superiore sintesi nelle fede religiosa e nel riconoscersi in una cultura nazionale, in Evangelisti non vi è “salvezza”. Che tratti dei pirati del Mar dei Caraibi, degli Iww (Industrial workers of the world) o dei rivoluzionari messicani, le contraddizioni di cui tratta rimandano da un romanzo all'altro e non hanno alcuna soluzione.
Per Evangelisti, infatti, le contraddizioni che descrive non oppongono “buoni” e “cattivi” o, meno moralisticamente, progresso e reazione ma individui e gruppi sociali che esprimono derive storiche che sembrano attrarre l'autore essenzialmente da un punto di vista estetico, la storia come un immenso arazzo vivacemente colorato. E così, ad esempio, le vicende dei Cavalieri del Lavoro e degli Iww statunitensi vengono narrate attraverso la biografia immaginaria di un poliziotto privato infiltrato al loro interno per operare alla loro distruzione, e quelle dei pirati caraibici attraverso le vicissitudini di un ufficiale di Luigi XIV che opera come agente di collegamento fra la flotta francese e quella dei pirati che la supportano nell'assalto e nel saccheggio di Cartagena e che, col tempo, anche a causa di una singolare passione amorosa nei confronti di una nobildonna spagnola che è in realtà un “agente” dell'anziano marito governatore della città e che lo tradirà.
Nell'opera di Evangelisti, insomma, si intrecciano erudizione notevolissima verificabile nella costruzione di ognuno dei suoi cicli, rielaborazione in chiave letteraria di una passione politica che ha caratterizzato la sua formazione, notevolissime curiosità e spregiudicatezza intellettuale.
Una lettura insomma interessante e una sfida per chi, contemporaneamente, sogna universi altri rispetto all'esistente e opera con l'obiettivo di facilitarne la nascita.

Cosimo Scarinzi