Rivista Anarchica Online


letture

Il pane e l'arsenico

Intervista ad Alberto Prunetti di Giuseppe Ciarallo


Lo scrittore toscano Alberto Prunetti parla del suo ultimo romanzo: una storia operaia ma anche un diario familiare. Lotte di classe e ricordi di infanzia in “un grumo ribollente di acciaio, incazzatura e ironia devastante”.


Alberto Prunetti, nato a Piombino (Li) nel 1973 e cresciuto in provincia di Grosseto, è scrittore, traduttore, fotografo e insegnante di italiano per lavoratori immigrati. Per Stampa Alternativa ha pubblicato i romanzi Potassa (2004) e Il fioraio di Perón (2009); per la stessa casa editrice ha curato l'antologia L'arte della fuga (2005); ha poi curato e tradotto due “classici” di Osvaldo Bayer: Patagonia rebelde (Elèuthera, 2009) e Severino Di Giovanni (Agenzia X, 2011). Ha scritto per il Manifesto, Carta, A rivista, Nuova rivista letteraria e al momento è redattore di Carmilla. È uscito a fine 2012 il suo ultimo lavoro Amianto – Una storia operaia (Agenzia X), racconto a metà strada tra il reportage sulle fabbriche della morte nel nostro paese e il diario intimo, nel quale narra le vicende di Renato (padre dell'autore), operaio saldatore tubista deceduto in seguito al prolungato contatto con la micidiale sostanza che dà titolo al libro.

Dunque Alberto, raccontaci come nasce l'idea di narrare la storia di tuo padre Renato, operaio saldatore tubista, morto a 59 anni dopo aver lavorato una vita intera a contatto con l'amianto. Immagino che la scintilla sia scoppiata nel rovistare tra i suoi tanti documenti, spesso citati nel libro...
«La scintilla è stata piuttosto la scelta di mia madre di continuare una pratica iniziata da mio padre nel 1992 per ottenere il riconoscimento professionale all'amianto e poter andare in pensione con alcuni anni di anticipo. Il prepensionamento – chissà – forse gli avrebbe salvato la vita: dopo anni passati nei peggiori cantieri italiani, come saldatore e tubista, tra acciaierie e raffinerie, aveva davvero il fiato corto. Siamo riusciti a sapere solo nel 2011 che Renato aveva diritto di andare in pensione con sette anni e mezzo di anticipo. Gliel'hanno detto sette anni dopo che era morto per un tumore ai polmoni. Purtroppo sono questi i tempi della giustizia.»

Qual è la difficoltà che hai incontrato nel far sì che una storia così personale, privata, finisse per diventare qualcosa di interessante non solo per te stesso, ma per il potenziale lettore?
«La scommessa è stata quella di fare di Renato lo specchio dei tanti Renati, dei figli dell'officina che hanno mangiato pane e arsenico. Che hanno lavorato sull'onda di riflusso del boom economico. La crisi che respiriamo oggi, per gli operai comincia nel 1973 con la crisi petrolifera, quando i salari reggono solo grazie alla forza delle tutele sindacali. Poi, negli anni ottanta, arriva la vera ristrutturazione del capitale: i sindacati sono più deboli, arriva la cassa integrazione, poi falliscono le raffinerie e iniziano i licenziamenti. Nel frattempo la fabbrica ha dato da mangiare a tante famiglie, ma era un pane avvelenato. Lo stipendio dei nostri padri ha permesso a noi di studiare, di laurearci, per poi rimanere disoccupati al primo ciclo di ricambio generazionale della manodopera nel mondo del lavoro. Da qui il precariato e la disoccupazione a lungo termine.»

In un momento storico come quello che stiamo vivendo, con il lavoro percepito più come un “problema sociale” che come motore di un'intera nazione (problema di cui tutte le forze politiche dicono di volersi occupare, ma che nella realtà perde di giorno in giorno di valore e peso), non pensi che l'arte, e la letteratura in particolare, dovrebbero ricominciare a trattare questa nodale tematica? Mi sembra che oltre al tuo Amianto e a pochi altri esempi, quello del lavoro non pare essere ultimamente un argomento ritenuto degno di nota. Non senti un po' di nostalgia per la cosiddetta “letteratura industriale” degli anni '60 e '70?
«Le librerie classificano Amianto - una storia operaia proprio come letteratura industriale. A Renato sarebbe piaciuto. Io sono rimasto preso in contropiede, da questo libro, dalle risposte di lettori e recensori, dai tentativi di catalogarlo. In realtà ero così immerso in quel mondo – avendo fatto le scuole in una ferriera dell'Ilva dismessa, in cui ho trascorso sia i miei pomeriggi di calcio che le giornate di studio in biblioteca, tutto dentro all'ex Ilva – che non potevo che raccontarlo così. Ma non pensavo né a Levi né a Volponi, mentre scrivevo. Quelle vicende erano sangue del mio sangue. C'era più industria che letteratura, nel mio dna. Ho mescolato le parole saldando giunti come mio padre giuntava tubazioni e saldava tondini. Ho raccordato un pezzo di storia industriale italiana con i ricordi d'infanzia, con l'eclisse che Renato mi fece vedere attraverso le lenti di una maschera da saldatore. Il risultato è la storia operaia che ho raccontato. Me ne accorgo solo adesso che in certo modo è letteratura industriale. Ma è prima di tutto la mia storia.»

Di recente ho riletto Vogliamo tutto di Nanni Balestrini. In quelle pagine la fabbrica pulsa di energia, l'arroganza dell'azienda è efficacemente controbilanciata da una presenza operaia forte e agguerrita, e forse, allora, sarebbe stata impensabile una figura come quella di Marchionne, paradossalmente ritenuto da tutti un innovatore pur utilizzando metodi più da padronato capitalista dell'ottocento che da manager d'industria moderno, incapace com'è di vedere nel lavoratore una risorsa insostituibile dell'azienda – e soprattutto un essere umano con una propria vita e propri bisogni – e non un mero costo da tagliare...
«Lo dico anche nel libro, che gli anni settanta... altro che anni di piombo, sono stati anni felici di alta conflittualità e quindi di alti salari... i problemi iniziano sì allora, con la crisi petrolifera, ma la classe operaia li percepisce negli anni ottanta, quando la conflittualità diminuisce e il capitale, che non è in crisi ma è la crisi, è la crisi permanente, fa i conti con gli operai e fa pagare loro tutto e caro... la guerra di classe non l'hanno mai interrotta, i padroni del capitalismo fallimentare. Vedi quel che sta facendo Marchionne, appunto, che usa la chiusura delle fabbriche come arma di ricatto verso gli operai.»

A mio avviso, un altro grande merito di Amianto, oltre quello di aver messo il dito nella piaga sempre aperta della nocività e della mortalità nel mondo del lavoro, è quello di aver sfatato o quantomeno correttamente inquadrato il mito italiano del boom economico, come a dire: sì, negli anni '60 c'è stata indubbiamente una ripresa e una crescita sull'onda della ricostruzione post-bellica, ma queste si sono potute realizzare solo a costo di immani sacrifici da parte dei lavoratori (emigrazione, sradicamento e lontananza dagli affetti, condizioni abitative precarie, salari appena sufficienti alla sopravvivenza, scarsa attenzione alla sicurezza, cioè infortuni, malattia e a volte morte, ecc.), i quali spesso non potevano permettersi i beni che producevano. Ricordo mio padre, ad esempio, operaio dell'Innocenti dove si producevano le famose Lambrette, il quale dovette comperarne una a rate, dall'azienda stessa, da lui utilizzata esclusivamente per andare in fabbrica per i turni di notte, quando i mezzi pubblici non effettuavano servizio...
«Certo. Direi che già Bianciardi aveva raccontato ne La vita agra il lato oscuro del miracolo economico e della “dolce vita”. Io racconto il seguito: finisce il miracolo mentre Nada canta Ma che freddo fa e comincia il tracollo... l'inizio di una crisi che viene percepita solo adesso dai ceti medio alti, mentre il proletariato, che viene investito dal primo colpo molti anni fa, regge per la forza di contrapposizione dei movimenti e dei sindacati per quasi un decennio e poi crolla negli anni ottanta. Gli strascichi di tutto questo sono adesso sotto gli occhi di tutti, ma c'è chi già da lungo tempo li subisce. Tutto questo, io non lo racconto in chiave sociologica o saggistica, ma con i ricordi d'infanzia e le buste paga di mio padre. O meglio: metto assieme i ricordi, la trama narrativa della finzione, l'indagine sociologica, l'investigazione giornalistica... tutto saldato assieme. Pare che tenga.»

Mi è piaciuta molto la franchezza con cui nomini cose e persone. Non pensi che la manipolazione linguistica (il chiamare “imprenditore” il padrone, “forza lavoro” l'operaio) sia un imbroglio teso a spersonalizzare le parti in causa e dunque deresponsabilizzare chi invece dovrebbe rispondere personalmente degli errori e delle proprie colpe? Come quando si parla del fantomatico “mercato”, nel nome del quale si compiono i peggiori misfatti...
«Guai a dire padrone invece che imprenditore, vero? In anni di finto interclassismo, Amianto è anche un romanzo di classe, che racconta dal basso la realtà. Chi dice che le classi non esistono, camuffa pro domo sua la società. La cosa buffa è che il libro non è un ponderoso saggio veteromarxista ma un racconto a tratti divertente e quasi fiabesco che, mi dicono i lettori, ti fa però venir voglia di prendere a morsi il libro. Io le cose le racconto come le ho percepite e vissute, e quel grumo ribollente di acciaio, incazzatura e ironia devastante era l'aria che si respirava in casa quando babbo si toglieva la tuta verde del metalmeccanico.»

Per concludere, oltre alla bellissima (in senso letterario) storia che sei riuscito a raccontare in perfetto equilibrio tra forza narrativa e ironia, nonostante la tragicità dei fatti, cosa ha lasciato dentro di te l'esperienza straordinaria di Renato, ennesima vittima di un capitalismo sempre più spietato e vorace?
«Ogni tanto Renato mi portava al cimitero di Rosignano Marittimo. Mia madre andava a visitare la tomba di mio nonno. Siccome nell'epica operaia del periodo un uomo non poteva versare lacrime o pregare, mentre mamma sistemava i fiori lui mi portava a giro per le tombe passeggiando come fanno i contadini a luglio in mezzo ai filari della vigna: si guardano attorno, sistemano qualcosa, strappano due foglie, hanno l'aria di tenere tutto sotto controllo, no? Facevamo “manutenzione”. Poi si arrivava alla zona delle tombe vecchie, quelle dei “vecchi comunisti”, come li chiamavamo noi, vecchi rosignanini che non volevano la croce sul marmo ma avevano preferito la falce e il martello. Alla fine inevitabilmente si arrivava davanti a una tomba monumentale in marmo con la statua di un uomo dall'aria vissuta, con dei virili baffoni a incorniciargli il viso. In basso c'era scritto: “l'apuana operaia dedicò”. Babbo mi diceva ogni volta: “boiadé, che pezzo d'omo...”. Era Pietro Gori. Ecco cosa m'è rimasto.»

Giuseppe Ciarallo