Rivista Anarchica Online


teatro in Bolivia 4

Teatro di confine

di Federica Rigliani


In una Bolivia frammentata, attraversata da lingue ed etnie diverse, un'esperienza teatrale in bilico tra le tecniche occidentali e la ricchezza della tradizione andina. La storia di César Brie e del Teatro de los Andes.


Il Teatro de los Andes è un gruppo di teatro che attualmente vive e lavora in Bolivia, a Sucre. La sua è la storia singolare di alcune persone che si sono ritrovate e riconosciute in quelle motivazioni che le hanno avvicinate e fuse in una comunità di vita e di lavoro. Il loro scopo era quello di fare teatro, l'obiettivo quello di vivere del proprio lavoro. Ho vissuto e lavorato con loro circa tre anni e ho riportato con me un'esperienza unica che mi ha permesso di conoscere un gruppo deciso a intraprendere un progetto teatrale in una Bolivia internamente frammentata, vissuta e attraversata da diverse etnie, lingue, religioni e culture che rappresentano la sua grande ricchezza, ma che continuano ad occupare un posto marginale e discriminato all'interno del paese. Ciò che segue è la storia del Teatro de los Andes dal 1991, anno in cui il regista argentino César Brie lo fondò, e dei primi dieci anni di lavoro e attività realizzate in Bolivia, salutati con un festival organizzato proprio per quell'occasione dopo il quale sono rientrata in Italia.
L'idea di costituire un gruppo di teatro in Sudamerica venne a César Brie quando, dopo il 1989, decise di riavvicinarsi alla sua cultura, alla terra delle sue origini e alla sua lingua. Aveva lasciato l'Argentina durante la dittatura di Lanusse in una sorta di esilio volontario: allora aveva 17 anni, viveva a Buenos Aires e lavorava con la Comuna Baires. Nel 1973, appena diciannovenne, approdò in Italia con la Comuna Nucleo di Horacio Czertok e Cora Herrendorf ma presto fondò il gruppo Tupac Amaru al Centro sociale Isola di Milano, dove lavorò per lo più da solo, spesso ai limiti della sopravvivenza, organizzando corsi di teatro nei centri sociali: “Riconosco quegli anni come fondamentali nella mia formazione umana ed artistica. Facevo teatro, un laboratorio [...] ossessionato col teatro e le ricerche, ma ancora incapace di esprimere niente di importante”.
Insieme a Danio Manfredini, Giampaolo Nalli e Dolly Albertin lavorò con il Teatro di Base fino al 1980, quando un seminario di lunga durata lo portò a Fara Sabina. Lì conobbe Farfa, il gruppo teatrale diretto da Iben Nagel Rasmussen, la grande attrice dell'Odin Teatret che per lui “incarnava ciò che Barba diceva sull'attore, sull'etica, sull'idea di gruppo”. Fu così che arrivò in Danimarca, all'Odin Teatret di Eugenio Barba, dove rimase fino al 1989.
Chissà quanto incisero su di lui e sulla sua scelta di tornare in Sudamerica i numerosi viaggi di scambio e baratto interetnico dell'Odin Teatret – che lo riportarono spesso nel suo continente mettendolo di fronte all'evidente dimenticanza dell'uso della sua propria lingua – fatto sta che abbandonò quella strada per lui ormai solo in salita e affrontò il ritorno per essere di nuovo uno straniero. Non scelse, infatti, l'Argentina, ma la Bolivia.
Arrivò nell'agosto del 1991 con Giampaolo Nalli e, ironia della sorte, Naira Gonzáles, il cui esordio in teatro risaliva a quando aveva solo cinque anni e percorreva in lungo e in largo il territorio boliviano con il padre Edgar Darío Gonzáles e i suoi burattini. A Brie per primo sembrava difficile, quasi impossibile, realizzare il suo progetto in una terra dove non esisteva un teatro professionale e dove era difficilissimo incontrare un pubblico interessato, ma solo lì trovò quella motivazione che spiegò fino in fondo la sua scelta di fermarsi, di stabilirsi per vivere e fare teatro. Questa fu la sua sfida.
Imparare a vivere in Bolivia, guardarsi intorno, osservare, prendere in prestito parti della magia locale, delle forme, dei colori e delle musiche che li prevalevano fu il primo passo, cominciare a pensare in che modo usarli con l'intenzione di trovare una formula teatrale in grado di comunicare con tutte le tipologie del pubblico boliviano divenne prioritario. Compito, questo, estremamente difficile. Per poter parlare a tutte le diversità sociali, ai creoli, ai meticci e agli indigeni bisognava, infatti, creare un ponte tra quelle che erano le tecniche occidentali da loro conosciute e praticate e la ricchezza infinita della tradizione andina che abitava questa parte del mondo. Proprio le tradizioni locali e la storia del paese furono la forza di cui piano piano si alimentarono, un'energia che risiede nei gesti ancestrali di questo popolo e che entra, lentamente ma a pieno diritto, nella drammaturgia dei Los Andes.

Teatro de los Andes, La Ilíada

Tra due mondi

In questo viaggio nella cultura boliviana stava tutto il tentativo di realizzare “un teatro nuovo e allo stesso tempo antico”, i cui elementi formali interrogassero quelli rurali e indigeni. Con questi presupposti inizia l'avventura del Teatro de los Andes all'interno di una cultura, di un paese e di un popolo, perché proprio nella convivenza tra questi due mondi, l'occidentale e l'andino, esisteva un luogo per il teatro che César Brie aveva in mente: “un teatro che accogliesse forme e colori, che raccogliesse voci e diversità”. La ricerca sui materiali formali e scenici è senza dubbio l'elemento che ha permesso di guardare e di assorbire le forme tipiche di questa cultura per poi fissarle in quei punti/ponti di unione e di scambio che volevano costruire. La volontà di avvicinarsi alla metafisica andina e al suo sentire, passaggio indispensabile per comunicare con la realtà dei meticci, dei contadini e degli autoctoni, muove dal profondo il progetto teatrale dei Los Andes e la sua produzione drammaturgica apre le porte a riflessioni artistico-analitiche evidenti soprattutto negli spettacoli che consideriamo espressione di unione e connubio tra mondi e culture diverse. Ogni elemento locale diventa materiale formale da interrogare, ma guardare la realtà significa paradossalmente allontanarsi da essa: “Il teatro, la scena, sta nella vita ma non è la vita, è a fianco della vita, è un luogo autonomo che forma parte della vita”.1 Secondo il regista, infatti: “[...] le opere d'arte devono porsi il problema di superare l'imitazione della realtà. Devono essere opere indipendenti, creazioni vive [...] sistemi [...] liberi dal realismo aneddotico della vita quotidiana”2 per risolversi nella convenzione coerente in cui essa stessa si trasforma, considerando tutte le ricerche fatte nel tentativo di rappresentarla e partendo “dalla lezione di Mejerchol'd, [...] un teatro reale nell'evento non nella realtà, ma nell'idea di assumere un'eterna convenzione al cui interno tutto può succedere”.
L'esperienza europea accumulata dal regista fa sì che in questa ricerca trovino posto tutte le avanguardie di questo secolo che, in un modo o nell'altro, hanno influenzato il suo lavoro: “Le ricerche delle avanguardie, i colori dell'America latina, le diverse forme di pensare, ciò che la geografia provoca nelle persone, i problemi sociali che qui esistono... tutto questo deve costruire una parte nella nostra estetica”. Un'estetica di una semplicità commovente. Prescindendo volontariamente dal superfluo, l'estetica del Teatro de Los Andes prende vita dalla consapevolezza della forza e della potenza proprie della scena, dei suoi elementi e dei suoi oggetti. Questa ricerca è guidata dallo studio di forme semplici, per un teatro popolare comprensibile e immediato. E la vera essenza di un “teatro popolare” sta, per l'autore, nell'espressione di una ricerca teatrale che sia comprensibile a più livelli, ma che sia contemporaneamente universale e colta. Quello della semplicità è un concetto che racchiude in sé una enorme difficoltà, perché ciò che è semplice non è facile e, soprattutto, non è facile da costruire: “Dal punto di vista della costruzione, (le nostre opere) possono essere molto complesse [...] però cerchiamo di far sì che ciò che è complesso diventi semplice [...] il semplice è il complesso che assume una forma immediata”3. Non a caso, nell'esaminare la semplicità delle forme sceniche con cui i Los Andes si presentano, Lupe Cajías fa un bellissimo paragone tra la loro estetica e le immagini che predominano la cultura andina nella quotidianità: “l'unione della parola e della musica, l'uso delle maschere, l'uso dei colori forti. Elementi molto importanti nella cultura andina. Inoltre il ballo, il gioco permanente, le azioni molto semplici. Come la montagna. La montagna non è complessa, la puoi vedere, non è la selva. Non ci sono rumori, c'è semplicità nella musica delle Ande, nella coreografia, nel cibo frugale, nel lavoro che si relaziona molto direttamente con la natura.”4.
Secondo Brie sono due le spinte motrici che regolano la forza della scena e che esistono solo nel momento in cui vanno nella direzione degli spettatori per tornare poi al teatro, e viceversa: la rap/presentazione ed il ri/conoscimento. Per l'attore rap/presentare risponde all'esigenza di presentare forme della vita che nella vita non si percepiscono, per lo spettatore ri/conoscersi risponde all'esigenza di conoscere di nuovo quelle stesse forme, brutte e dolorose nella vita, per ritrovarle belle sulla scena “Se ciò che è orribile nella vita diventa bello nell'arte, questo significa che la vita, così com'è, è irrappresentabile e che l'arte si alimenta della vita ma mostra sempre una metafora, non una riproduzione”.5

Forma organica nello spazio

La semplicità si confronta quindi con la bellezza, con le sue forme e la sua essenzialità, prescindendo da canoni estetici o modelli costituiti: “ogni cosa che facciamo, deve essere bella. [...] Non mi riferisco al bello di una tendenza estetica, ma alla bellezza nella sua accezione originale: possedere forma organica in rapporto allo spazio e agli elementi che in esso agiscono”6. Lo scopo è quello di aprire al pubblico le porte della percezione per introdurlo nelle emozioni metafisiche e arrivare nella parte più intima e profonda della sua anima. Ma semplicità e bellezza devono poter commuovere lo spettatore e solo attraverso la poesia propria di un testo teatrale, delle immagini e delle metafore sceniche si può arrivare a scuotere ciò che di più intimo e profondo alberga dentro di noi. In questo senso il lavoro degli attori del Teatro de los Andes è dare voce e immagine alla poesia che ciascuno di loro sente dentro: ascoltare la propria sensibilità permette all'attore-poeta di scoprire la propria abilità di creare immagini poetiche e la capacità di dargli forma attraverso metafore visive e sceniche.
Gli ultimi spettacoli preparati in Europa, Il mare in tasca, monologo autobiografico del 1989 e Romeo y Julieta, trasposizione del testo di Shakespeare, scritto e interpretato da Brie-González nel 1991, furono i primi ad essere rappresentati in Sudamerica e segnarono l'inizio dell'attività del Teatro de Los Andes. Brie si presenta con un monologo personale di grande componente biografica, dominante in questa fase della sua produzione artistica e presente anche in alcuni monologhi successivi. L'artista ripercorre le tappe della sua esistenza: il suo esilio, gli amori perduti, la scoperta del sesso, momenti importanti che hanno segnato il suo percorso umano ed artistico. Temi di gioia e di sofferenza cari all'uomo, che lasciano la dimensione biografica dell'autore per universalizzarsi, come parte esistente in tutti i percorsi umani, per questo la sua biografia non diventa autocelebrazione, ma colpisce lo spettatore nel fondo della sua propria storia e universalizza la comunicazione teatrale “Il teatro è universale quando, parlando di qualcosa di molto particolare o di un luogo o di una persona, dici qualcosa a tutti. [...] Quando ciò che mi riguarda riguarda tutti, e quando ciò che riguarda gli altri riguarda anche me. In quel momento il teatro è universale. Non sono molti i temi dell'uomo, e ogni teatro universale affronta questi temi e li fa riconoscere all'uomo in forme particolari.” Coincidenza volle che proprio il Centro de Portales di Cochabamba, lo stesso che aveva permesso a Chango di iniziare, finanziò un progetto di pochi mesi durante i quali furono presentate queste prime due opere. Ma per poter cominciare a lavorare davvero divenne fondamentale cercare una sede e a Yotala, un piccolo paese di duemila abitanti a 15 Km da Sucre, trovarono un vecchio podere abbastanza grande che si prestava bene ad ospitare il teatro. Intanto gli attori Emilio Martínez dalla Spagna, Maria Teresa Dal Pero e Filippo Plancher dall'Italia, e i boliviani Gonzalo Callejas e Lucas Achirico si erano uniti al gruppo, tutti insieme ristrutturarono la casa, costruirono la sala teatro e lavoravano al loro primo spettacolo: “Il Teatro de los Andes inizia il suo lavoro in Bolivia nell'agosto del 1991. Ma il gruppo si formò soltanto nel luglio del '92, quando cominciammo a costruire il nostro primo spettacolo, Colón, ed abitare nella nostra casa di Yotala.”7
Il successo con cui fu accolto Colón e l'ultimazione della casa-teatro permisero la professionalizzazione dell'attività teatrale del gruppo e il lavoro dell'attore divenne un vero e proprio mestiere a cui dedicarsi totalmente, con indipendenza e assoluta libertà di espressione artistica, per una nuova ricerca formale ed estetica. La casa si aprì subito all'esterno grazie all'organizzazione di numerosi seminari, secondo il regista punti di incontro rivolti soprattutto ai giovani: “bambini, giovani, educatori e cultori del teatro: loro saranno il punto di partenza di questo progetto”, ma anche di scambio e confronto con le realtà sociali e con tutti coloro interessati alla ricerca e allo sviluppo del linguaggio teatrale, dentro e fuori la Bolivia.

Teatro de los Andes, Odisea

Attraversamenti e frontiere

La convivenza delle diversità all'interno del nucleo dei Los Andes è già rappresentativa di quell'esigenza di incontro e di rispetto per l'altro che trova fusione nell'espressione di un'arte come punto di arrivo collettivo. Le differenze vengono assorbite ed elaborate con lo scopo di creare un linguaggio comune, all'interno e all'esterno del gruppo, che non ne limiti in alcun modo la ricerca espressiva. Costruire un teatro portavoce di pluralità significa rispettare anche la radice da cui questo stesso teatro proviene, perché ognuno partendo dalla propria formazione all'interno delle diverse culture di appartenenza esprime singolari maniere di sentire e di conoscere il mondo: “Per esempio qui in Bolivia la gente indigena ha un modo di fare che crea inevitabilmente un modo di essere attori differente. È difficile che Lucas, che è un ragazzo aymara, alzi la voce [...] certi sentimenti non ci sono, per cui la voce per esprimerli in quel modo non esce [...] e la rabbia si traduce in sofferenza, in dolore, non in furia. Tutte queste cose sono da scoprire.”
Il carattere interetnico è il primo di tre distinti piani della zona di frontiera su cui si posiziona il gruppo, gli altri riguardano la frontiera relativa ai due campi, quello rurale e quello urbano, e la frontiera della doppia presenza, relativa alla strategia della presenza nei luoghi del teatro istituzionale.
Per capire la seconda frontiera, zona di confine tra culture, usanze, lingue e tradizioni del territorio in cui il Teatro de los Andes agisce, è necessario proiettare la sua realtà interna verso la realtà sociale boliviana, contraddittoria e piena di differenze, che determina una difficile identificazione culturale delle diverse classi sociali. L'aspetto andino e quello occidentale coesistono in Bolivia come due culture diverse e non come aspetti diversi di una stessa cultura, realtà che mostra gli scarsi punti di contatto tra due mondi socialmente lontani: da una parte una società urbana, minoritaria e concentrata nelle città, economicamente influente e impegnata culturalmente nell'imitazione del sapere occidentale; dall'altra un vasto mondo rurale, povero e marginale, appartato e isolato dalla cultura moderna ma intimamente legato alle sue lontane radici e alle sue divinità. Per entrare in contatto con il pubblico indigeno, e con la sua ancestrale tradizione, il gruppo doveva raggiungere i senza teatro, i contadini, gli indigeni, i minatori, i lavoratori, coloro che non vanno al teatro perché non si vedono rappresentati. Arrivare fisicamente a questo pubblico significava, per Brie, abbattere la frontiera tra i due campi: “Perché non togliere il teatro dai suoi antiquati edifici e non portarlo, come è stato già fatto, nei luoghi di lavoro, nei carnevali, nelle sale parrocchiali, nelle piazze? Ci renderemo conto di quanto questo arricchirà il nostro teatro, di quanti pregiudizi cadranno, di quanto è molto più facile di quello che crediamo comunicare con gli altri”.8
L'ultima frontiera, invece, è il corridoio che il Teatro de los Andes percorre tra i luoghi istituzionali del teatro e quelli non convenzionali. Nei primi è importante esserci per diverse ragioni. Da un lato permettono la conoscenza di altri gruppi e il confronto con i loro metodi e il loro studio: “nei festival hai la possibilità di capire verso dove stanno andando le loro ricerche, cos'è quello che loro vogliono esprimere e cosa stanno cercando”. Dall'altro concretizzano una totale indipendenza economica, quindi creativa: “Si tratta di incontrare un equilibrio. La cosa più concreta è pensare di fare qualcosa che ti dia denaro per fare altro... venire a La Paz e lavorare nel (Teatro) Municipal tre giorni, ci permette di andare a El Alto, conoscere Chulumani e dopo andare ad Oruro”9.
Questo avvicinamento, come forma comunicativa del fare teatrale, è stato teorizzato dal gruppo nell'idea di un triplice attraversamento: geografico, drammaturgico e etnico-antropologico.
L'attraversamento geografico e sociale consiste nell'andare ovunque, “nell'attraversare questo paese in ogni suo luogo” raggiungendo villaggi isolati e piccoli pueblos. Un proposito che diventa ogni volta un'impresa perché viaggiare in Bolivia non è semplice e far viaggiare un gruppo di teatro che trasporti, oltre ai componenti, tutto ciò di cui ha bisogno, diventa molto difficile quando le strade si trovano a oltre 3000 metri di altezza, sono poco percorribili e difficilmente accessibili. Ma ridurre le distanze e rompere con l'isolamento tra una città e l'altra, tra un villaggio e l'altro, significa dialogare con le diverse culture di questo paese, conoscere e farsi conoscere. L'attraversamento drammaturgico, invece, impone al gruppo un confronto diretto con la tradizione culturale e storica, come dimostrano gli spettacoli Ubu in Bolivia (1994) e per alcuni aspetti Las abarcas del tiempo (1995): il primo rappresentativo del potere dittatoriale presentato come storia circolare tanto della Bolivia quanto del continente latinoamericano; il secondo come penetrazione più orizzontale della realtà del campo e dell'incontro con i campesinos. Studiare la storia di questo popolo, presentare scene che abbiano i colori di queste terre, i costumi, gli odori caratteristici e le immagini familiari che caratterizzano la vita delle Ande, significa per César Brie toccare le forme con le quali il gruppo si incontra ogni giorno, “è l'asse su cui noi costruiamo il nostro lavoro [...], in questa ricerca si trovano gli studi, il vissuto, gli interessi, il nostro pensiero estetico, la nostra sensibilità, le musiche, la ricerca cromatica...”
L'ultimo, l'attraversamento etnico, pur legato strettamente all'attraversamento geografico comporta problemi differenti. Sólo los giles mueren de amor (1993) è il primo tentativo di attraversamento etnico, è il monologo con il quale entrano prepotentemente in scena nuovi elementi. Il protagonista viaggia verso l'oltretomba in un clima di forte spiritualità, tipicamente andina più che boliviana, che permea la cosmovisione delle popolazioni indigene. L'autore sceglie di utilizzare simboli del mondo autoctono e rurale attraverso la messa in scena di una veglia funebre: è la misa chica, scena funeraria allestita nelle case delle campagne delle comunità rurali andine il 2 Novembre, giorno dei morti. La scena si apre con un velorio, luogo della veglia in cui sono disposti, in maniera ordinata, tutti gli elementi che nel Dia de Difuntos si usano tra la gente del campo. Guardare la tradizione non significa, per Brie, trasportare sulla scena rituali e feste popolari, molto forti e molto concrete in Bolivia, ma capire la sensibilità delle popolazioni andine e la percezione che hanno del mondo che le circonda, solo così è possibile la trasposizione teatrale di quei temi ai quali loro credono e nei quali possano riconoscersi una volta diventati spettatori. Gabriel Martínez aveva capito l'importanza di questo aspetto per la realizzazione di un Teatro Campesino Indigeno: le tematiche che poteva affrontare con più facilità erano tutte contenute nei sogni di quei contadini e nel mito regionale; qualcosa di molto sentito e di molto profondo, sia dal punto di vista intimo, sia spirituale. Toccare questi settori è estremamente difficile, non richiede solo ricerca e studio ma una profonda conoscenza della spiritualità delle popolazioni che si vogliono raggiungere e delle loro lingue. Solo dopo nove anni dalla sua permanenza il Teatro de los Andes è arrivato in una comunità con uno spettacolo in lingua autoctona: lo spettacolo era En la cueva del lobo, la comunità indigena quella di Potolo, la lingua usata, il quechua.

Teatro de los Andes, Colón

La poetica del grottesco

La necessità di essere compresi con immediatezza e facilità ha dato vita ad una forma teatrale che, in un primo momento, è stata espressa dal Teatro de los Andes con la poetica del grottesco, attraverso gli spettacoli satirici Colón e Ubu in Bolivia. I Los Andes irrompono nello scenario boliviano con la forza della novità estetica e drammaturgica e creano nuove forme teatrali, che guardano alla tradizione e respirano la forza che da essa emana.
Colón è il racconto del viaggio di Cristoforo Colombo e della scoperta dell'America, presentato in una versione libera e adulterata in cui i conquistatori interrogano i conquistati. Il Teatro de los Andes schernisce il pubblico con la malizia e l'aspetto dissacrante di una satira acida fortissima. L'umorismo sottolinea “che stai criticando qualche cosa, che stai facendo ridere con l'intenzione di sfuggire battute semplici e risa facili”. Ubu in Bolivia, l'adattamento della realtà boliviana dell'Ubu Rey di Alfred Jarry, è lo spettacolo che affronta il tema del potere e delle dittature, così presenti per ciclicità nella storia sudamericana, con la parodia ironica e grottesca del tiranno che sempre prende il potere uccidendo, rubando e sottomettendo le libertà degli uomini.
Il testo prende spunto dalla storia nazionale, da eventi accaduti e da alcuni personaggi realmente esistiti, quelli che hanno fatto 'e disfatto' la storia di questo paese, quelli che hanno sempre deciso in nome della 'salvaguardia del bene nazionale' ma che nella realtà hanno poi garantito solo privilegi e ricchezze personali, relegando troppi uomini e troppe donne a una condizione di impoverimento e miseria assoluta. Ubu in Bolivia mette lo spettatore di fronte ad alcune crudeltà normali, gliele fa osservare con affanno e lo fa sorridere amaramente per la loro storica continuità. Ma non parla solo ai boliviani: aperto alla violenza che costringe l'intera umanità alla sofferenza diventa metatesto capace di usare forme così tipiche di un luogo e di uno spazio per cantare i grandi temi dell'uomo ed evidenziare più in generale la nostra impotenza come esseri umani.

Il volgare e il sublime

La satira diventa il mezzo che distorce i fatti storici, ed i temi di questi due spettacoli si prestano molto, poiché il viaggio di Cristoforo Colombo verso la conquista dell'America e la ciclicità della tirannide nelle amministrazioni locali sono eventi universali, grandi ed epopeici e ”più grande è il modello o l'evento, maggiori sono le possibilità di satirizzarlo. Il grottesco fa ridere e si esprime tramite un linguaggio mal parlato che crea “una specie di contrappunto tra ciò che è volgare e ciò che è sublime”10, mettendo in ridicolo avvenimenti e personaggi attraverso la tensione, tenuta costantemente viva, dal punto di equilibrio tra perfezione e grossolanità, consegnando allo spettatore una visione ridanciana della realtà: “Il nostro teatro deve divertire, però anche dividere, provocare, scandalizzare. Consideriamo il teatro un gioco, però un gioco serio e divertente come la vita. Ci proponiamo di commuovere, però tagliando la testa alla commozione attraverso il riso. È un ridere che rimbalza, come una pietra lanciata nello stagno, affinché lo spettatore scorga nel fondo il suo volto deformato. E il suo ghigno possa interrogarlo”.11 Questa è la formula con cui il Teatro de los Andes arriva al grande pubblico, andando oltre l'aspetto del teatro realista e presentando un teatro diretto, immediato, di facile comprensione e divertente. Lo stesso regista sembra convinto di questo quando afferma “credo che con il grottesco siamo partiti con il piede giusto...”
Dopo Ubu in Bolivia, però, la poetica del grottesco non sarà più un aspetto totalitario nella loro produzione drammaturgica, poiché se da una parte permetteva di sviluppare alcune possibilità, dall'altra imponeva dei limiti al loro agire teatrale: “per esempio non ci permetteva di affrontare la tragedia, cosa che poi abbiamo fatto con Las Abarcas del Tiempo”.
Proprio con la tragedia il gruppo indaga un nuovo linguaggio in cui ironia e sguardo beffardo rimangono elementi fondamentali, ma non più così caratterizzanti. Ancora una volta lo studio permette di attingere il materiale per l'opera ma, a differenza di Ubu, la ricerca non è prettamente storica: si studiano miti e rituali, ma soprattutto si approfondiscono le ricerche sociologiche e antropologiche, la cosmovisione andina e la concezione della morte, già iniziata con Solo los giles mueren de amor, i costumi, le usanze e le leggende.
In Las abarcas del tiempo (1995) prendono la voce i campesinos minatori, quelli che per poter costruire una piccola casa lasciano tutto, scendono nella profondità delle miniere, si ammalano di silicosi e muoiono soli. Sono i contadini snaturati, i minatori improvvisati. Il mondo minerario diventa il punto di contatto tra la realtà urbana e quella rurale: “la miniera in Bolivia è uno dei luoghi dove città e campagna si toccano in un modo drammatico ed intenso. Dove anche l'occulto e il visibile si riconoscono e si confrontano”.12 La scelta del viaggio nell'Ukhupacha, l'oltretomba, ha lo scopo di aiutare i vivi a trovare una nuova relazione, prima di tutto, con i vivi stessi. La memoria ha qui la stessa funzione che in Ubu: ricordare per capire, per non dimenticare. Cantare la morte per parlare della vita quindi, in una sorta di Divina Commedia andina che ci mostra una galleria di biografie locali segnate da morte violenta: Tomás Katari, Ismael Sotomayor e padre Espinal tra gli altri. Sono proprio loro a dare dimensioni diverse della morte, non solo morte fisica, ma morte della giustizia, morte della cultura, morte della dignità, morte della poesia. E ogni personaggio racconta la propria morte con voce delicata e poetica: “Il breve testo di quest'opera sintetizza studi di mesi, però non è un testo teorico, ma poetico, come è proprio di una scena teatrale. Abbiamo imparato molto da quest'opera. Ma soprattutto abbiamo imparato a conoscere l'enorme mole di cose che dobbiamo studiare e filtrare per poter continuare ad andare avanti”13.
E se fino a questo momento lo studio per una nuova drammaturgia partiva dalla Bolivia, nel 2000 La Ilíada segue il percorso contrario: una delle più antiche opere greche parte dall'Europa per arrivare nelle città boliviane, nei villaggi e nelle comunità rurali. Attraverso questo spettacolo il gruppo riafferma il suo sguardo etico e responsabile, il suo impegno costante e attento. La tragedia dell'umanità porta il Teatro de los Andes a percorrere la storia delle guerre, delle madri senza più figli, degli orfani, delle vedove, delle donne schiave, degli affetti squarciati, della brutalità che semina morte e distruzione. Tutto questo prende forma ne La Ilíada, non una Iliade andina, ma una guerra eterna e universale, dove un'attualità sconcertante sembra passeggiare dentro e fuori le mura di Troia, all'ombra delle violente dittature sudamericane, sullo sfondo dei campi di concentramento di Dachau e Auschwitz, mentre gli stadi vengono riempiti di profughi, mentre le bombe cadono su Grozny e sull'Afghanistan, mentre l'Agamennone di turno sferra il suo feroce attacco all'umanità inerme. E la comprensione del testo è ancora immediata per tutti.
Un teatro popolare e universale, quindi, possibile quando il testo drammaturgico diventa un metatesto capace di riunire tutte le differenze in un ponte che comunica e dialoga con la coscienza più intima degli spettatori; quando parla a più voci attraverso vari linguaggi che convivono; quando permette a chi lo guarda di ritrovarsi in contenuti diversi. Per restituire al teatro il suo ruolo comunicativo: “Ci interessa comunicare attraverso il teatro, e teatro per noi è un evento realizzato da attori di fronte a un pubblico, mediato dalle azioni, dal testo, dalle immagini, dai suoni, dal racconto e dalla musica. Questo intreccio, se arriva agli spettatori, se crea commozione, se scuote, diverte, è teatro. O almeno, è il teatro che noi vogliamo”14.
Allora non è più il boliviano o l'europeo a riconoscersi, ma l'uomo. Questo rende universale il teatro.

Teatro de los Andes,
En un Sol Amarillo

...ognuno il proprio cammino

Il Teatro de los Andes, caparbio e risoluto nell'intenzione di seguire i propri obiettivi, è riuscito a firmare una teatrografia vasta e varia attraverso spettacoli che viaggiano sulle note di canzoni di ogni parte del mondo, che decollano dai 4200 metri dell'aeroporto di La Paz per arrivare in tutto il continente sudamericano, ma anche in Italia, Spagna, e Francia. Non è stato solo il Teatro de los Andes ad incontrare gli altri, sono stati anche gli altri ad incontrarlo, ad amarlo, ad apprezzarlo. Lo dimostra il favore che ha riscosso dalla critica e dal pubblico, ma ancor di più l'essere diventato punto di riferimento per i giovani boliviani e sudamericani che vogliono approfondire la loro ricerca teatrale. Portatore di un esempio utopico e fautore di una vera e propria scuola di teatro, ha dimostrato la possibilità di professionalizzare il mestiere dell'attore e ha determinato un livello di crescita dell'intero movimento teatrale boliviano oltre ogni ottimistica previsione. E forse è proprio questa la dimostrazione di quanto i loro sforzi siano riusciti ad andare nella giusta direzione.
Il Teatro de los Andes ha voluto vedere, toccare, sperimentare e scoprire tutto questo, perché era sua intenzione realizzare un teatro indigeno campesino insieme a questa gente, con loro, non attraverso di loro. Gabriel e Verónica, Chango, e ancor prima Liber, cercavano qualcosa che desse un diverso valore al loro teatro. E per questo nella rivista El Tonto del Pueblo che il Teatro de los Andes ha editato in questi anni, il regista parla di loro come di altri tonti che hanno considerato il teatro un luogo dove spendere la vita. Arrivarono e si innamorarono di questa terra dopo averla conosciuta, si occuparono di questa Bolivia nascosta, tentarono di dialogare con i poveri, i marginali, i dimenticati. Cercarono di conoscere e di amare le forme espressive e culturali dell'ancestrale tradizione di cui si facevano portavoce. Gabriel e Verónica Martínez, Edgar Darío González, Liber Forti e il suo Conjunto, tutti loro riuscirono a trovare dei punti di incontro con un territorio, geografico e sociale, nascosto agli occhi e al cuore degli intellettuali boliviani, con proposte nuove e diverse che hanno portato, in ogni singolo caso, a un teatro boliviano, perché fatto con boliviani e portatore di quella cultura, dei suoi valori, dei suoi caratteri e dei suoi contenuti.
Ma si sa che la vita spesso divide e allontana, questo è valso anche per il Teatro de los Andes, che nei suoi lunghi anni di attività vede arrivare e partire molti attori e che il 24 febbraio 2010 si separa ufficialmente con queste poche righe alla stampa: “Il Teatro de los Andes e César Brie, regista e fondatore del gruppo, dopo 18 anni di attività hanno deciso di separarsi per continuare a crescere nel proprio lavoro. Entrambi continueranno a sviluppare la propria attività artistica seguendo ognuno il proprio cammino nel maggior rispetto e nella maggiore considerazione per il lavoro dell'altro”. Il nome resta in Bolivia con Giampaolo Nalli, uno dei cofondatori, Lucas Achirico e Gonzalo Callejas, i due attori che lavorarono con il gruppo fin dall'inizio, e l'attrice brasiliana Alice Guimaraes. Il gruppo, che collabora con diversi registi e sperimenta metodi di lavoro confrontandosi con altre esperienze, pur consolidando all'interno una propria esperienza di regia ha realizzato Hamlet (2012) e sta lavorando al suo nuovo spettacolo. César Brie, invece, vive e lavora in Italia dove, oltre ai suoi monologhi, ha messo in scena: Karamazov, Albero senza ombra, Il Vecchio Principe.

Federica Rigliani

Gli ultimi spettacoli

Teatrografia del Teatro de los Andes dopo La Ilíada e prima della separazione ufficiale di César Brie dal gruppo
2002: El Ciclope
2002: Fragil
2003: La mujer de anteojos
2004: En un Sol amarillo, memorias de un temblor
2005: Otra vez Marcelo
2006: 120 kilos de jazz
2007: ¿Te Duele?
2009: Odisea

Note

  1. Le parti tra virgolette senza nota e citazione sono tratte da un intervista a César Brie, Yotala, Sucre, maggio 1997. Le informazioni sul Teatro de los Andes dopo il 2010 sono frutto di una mail- intervista a Giampaolo Nalli.
    C. Brie, Appunti Autobiografici, archivio César Brie, pag. 4.
  2. C. Brie, Por un teatro necesario, 'El tonto del Pueblo' Revista de artes escenicas, N. 0, Agosto 1995, pag. 70.
  3. ***, Por un teatro inmediato, donde lo complejo se ve sencillo, in 'Cultura hoy', La Paz, 9 maggio 1995.
  4. Intervista a Lupe Cajías, Yotala, Sucre, marzo 1997.
  5. C. Brie, Insegnare a pensare il teatro, 'Teatro e Storia', n° 20-21, annale 1998-1999.
  6. C. Brie, Pensieri, 'Società di pensieri', N° 4, dicembre, edizioni: Riflessi-Società di Pensieri, Bologna, 1996, pp. 27-28.
  7. C. Brie, Appunti autobiografici. Cit. pag. 8.
  8. César Brie, Por un teatro necesario, Cit. pag. 67.
  9. G. Arauz Crespo, Teatro de los Andes: cómo crear un teatro profesional, in 'La Razón', 1° novembre 1992, La Paz. [Intervista a César Brie].
  10. ***, 'Colón': una mirada de corte grotesco sobre la historia, in 'La Razón', La Paz, 18 ottobre 1992.
  11. C. Brie, Por un teatro necesario, Cit. pag. 71.
  12. C. Brie, Appunti autobiografici, Cit. pag. 14.
  13. C. Brie, Algunas reflexiones sobre “Las abarcas del tiempo”, archivio C. Brie.
  14. César Brie, Insegnare a pensare il teatro. Cit.

Il teatro sulle Ande

Con questa quarta puntata si chiude la serie di quattro scritti curati da Federica Rigliani e dedicati ad alcune significative esperienze teatrali nella Bolivia della seconda metà del '900. Il primo contributo, dedicato a Liber Forti e al Conjunto Teatral Nuevos Horizontes, è stato pubblicato sul numero di 376 di “A” (dicembre 2012-gennaio2013); il secondo, che racconta l'esperienza del teatro Kollasuyo, è apparso sul numero 377 (febbraio 2013); infine il terzo, dedicato a Chango e al suo Teatro Runa, è stato pubblicato su “A” 378 (aprile 2013).