Rivista Anarchica Online


cultura


Crisi di Gaia
e della soggettività

Pubblicato solo come e-book negli Usa (primavera 2012), con il laconico titolo Declaration, è uscito in italiano, ma in versione anche cartacea, il nuovo saggio di Antonio Negri e Michael Hardt, con diversa titolazione: Questo non è un manifesto (Feltrinelli, 2012, pp.112, e 10,00). Titolo curioso. Per un verso rimanda a un celebre quadro del surrealista Magritte in cui viene raffigurata una pipa, seguita dalla dicitura Ceci n'est pas une pipe. (L'intento dell'autore era di sottolineare la differenza tra l'oggetto reale e la sua rappresentazione: mettendo in risalto la differenza fra il mondo della realtà e quello dei segni, il dipinto invita alla riflessione sulla comunicazione umana e i suoi codici, verbali e non). Per altri versi il nuovo saggio di Negri e Hardt non può non richiamare alla memoria un altro manifesto, quello di Marx ed Engels, commissionato dalla Lega dei Comunisti e pubblicato nel 1848.
In fondo, se facciamo interagire lo sguardo straniante surrealista con il pensiero critico marxiano forse possiamo cogliere la prospettiva di questo agile volumetto, il verso dove intende volgersi. Il libro non vuole presentarsi come un manifesto perché viene dichiarata finita l'epopea dei produttori di manifesti con la separatezza che, volenti o nolenti, essi producono; oggi siffatta presenza non è indispensabile, peggio, diviene ostacolo da oltrepassare, poiché ogni tentativo di elaborazione teorica rivendica la sua internità genetica rispetto alla prassi del movimento, alla sua espressività: “I manifesti offrono lo squarcio di un mondo a venire chiamando in vita un soggetto che, sebbene fantasma, deve materializzarsi e diventare agente del cambiamento. I manifesti fanno le veci degli antichi profeti che con il potere della loro visione creano un popolo. Gli attuali movimenti sociali hanno invertito questo ordine rendendo obsoleti manifesti e profeti”.

Figure soggettive della crisi
Il libro prende le mosse dai movimenti che, nella stagione trascorsa, hanno incendiato le piazze di tutto il mondo: Madrid, Atene, Il Cairo, New York, per ricordare le più note. Le pagine più interessanti sono quelle che provano a descrivere le forme di soggettività prodotte dalle attuali crisi sociali e politiche: sono l'indebitato, il mediatizzato, il securizzato e il rappresentato. Si tratta di figure impoverite, il cui potenziale di azione si trova sempre più dissimulato e mistificato. Vediamole da vicino, come spunto per alcune osservazioni critiche, nella consapevolezza che il libro dispiega comunque anche altre tematiche che qui non vengono toccate.
Aggiungiamo solo che l'approdo finale del volume intende tratteggiare le nuove forme che potrà assumere il potere costituente dispiegato dai movimenti, i quali imporranno una radicale socializzazione dell'interpretazione costituzionale (motivo, questo, assai caro a Negri, fin dagli scritti contenuti ne La forma stato, volume del '77 e oggi riproposto, in cui la costituzione italiana del '48 veniva – a partire dalle lotte operaie e dalla modificazione della composizione di classe – sottoposta a critica; ciò va ascritto a merito di Negri, dinanzi a una sinistra – anche alternativa – tutt'oggi saldamente ancorata all'applicazione del dettato costituzionale).
Ma veniamo alle figure nate dall'odierna crisi. L'indebitato è l'esito antropologico dell'egemonia della finanza. Il dominio non viene più esercitato esclusivamente sul luogo di lavoro e dentro l'orario della giornata lavorativa, ma si dispiega sull'intero arco del tempo di vita e attraverso una coercizione morale che si esplicita, in primis, insinuando senso di colpa nella coscienza del soggetto. “L'indebitato è coscienza infelice che rende la colpa una forma di vita”. (Per una genealogia del debito non si può non rimandare al ponderoso saggio di David Graeber, Debito. I primi 5000 anni, edito dal Saggiatore l'anno passato).
Il mediatizzato è colui che si trova sottoposto a un surplus di informazione, attraverso canali televisivi, web, telefoni cellulari. Questa invasione mediatizzata anziché arricchire e divenire strumento di liberazione, passivizza il soggetto, giocando il ruolo di Big Brother che – attraverso l'esercizio di una servitù volontaria (La Boétie è un autore da rileggere in questi tempi, insieme a Orwell!) – rende sempre più indistinta la separazione tra controllo sociale, lavoro e vita.
Il securizzato è la persona che vive in un costante stato d'eccezione, dove la paura signoreggia e in cui le consuetudini legali sono sospese da un potere totale, panottico, che richiede all'attore sociale di saper recitare, in un vero e proprio teatro dell'assurdo quotidiano, sia il ruolo di guardia che quello di recluso. Con le parole di Foucault, citato nel libro, “La prigione comincia ben prima delle sue porte”.
Il rappresentato esprime la crisi irreversibile in cui versa il sistema politico fondato sul principio di rappresentanza, laddove quest'ultima non è agente di pratiche democratiche ma il suo contrario. Non basta: la rappresentanza rivela ancor più oggi, con la presenza di sistemi di potere a livello planetario che ne erodono l'esercizio, la mistificazione che la fonda: l'essere, per definizione, un dispositivo volto a separare l'elettore dall'eletto, il controllore dal controllato.

Da dove ripartire?
Da questa fotografia dello stato di cose Negri e Hardt si indirizzano verso un rovesciamento di prospettiva, non come esito dialettico, ma come l'irruzione di un kairos soggettivo in grado di infrangere il presente.
Ma – domandiamoci – queste figure raccontano davvero tutto quello che c'è da sapere sull'attuale crisi o sono descrizioni parziali? Dico ciò perché colpisce, proseguendo la lettura, il modesto rilievo volto alla questione cosiddetta ambientale. Ancor più strano, dato che in un passaggio del libro si parla del degrado e della distruzione di piante e specie animali, della contaminazione della terra e del mare, giungendo a questa conclusione: “Sembra che l'umanità sia completamente impotente davanti alla distruzione del pianeta e delle condizioni necessarie alla propria vita”. Dopodiché il discorso vira e prende altra direzione. Strano. Delle due l'una: o non si crede a una simile affermazione (la si fa perché politically correct) o se le si dà il dovuto credito non può essere congedata sbrigativamente.
Ancora: le figure dell'indebitato, mediatizzato, securizzato e rappresentato sono esaurienti nel comprendere tale crisi o c'è dell'altro che può aiutarci a capire perché siamo nello stato in cui siamo? Prima delle figure sopra ricordate, anzi, condizione necessaria perché queste potessero affermarsi ce n'è un'altra: il soggetto scisso da ogni relazione con la natura, fuori e dentro di lui. Tali interrogativi non li troveremo nel libro di Negri e Hardt. C'è, al contrario, in tutta la produzione di Negri un'enfasi posta verso la società metropolitana, il lavoro astratto, il cognitariato, le nuove tecnologie, ecc. Il fatto che oggi l'economia finanziaria – la produzione di denaro per mezzo di denaro – sopravanzi gli altri settori economici, indica il prevalere dell'astrazione da ogni relazione vitale. Il capitalismo, nella sua corsa verso un profitto sempre maggiore, sta intaccando la sostanza naturale della vita, mettendola a repentaglio.
Non si tratta di coltivare fantasie utopistiche o, peggio ancora, regressive (come certe posizioni di Zerzan che rischiano di invalidare la portata critica del suo stesso pensiero). Lo sappiamo bene, bisogna guardare avanti, ma facendo i conti con la propria storia (qui l'aggettivo possessivo “propria” si riferisce alla storia della specie umana), domandandosi: come è iniziato tutto ciò? da dove ripartire? (Ad esempio, da anni, in solitudine, Jacques Camatte va riflettendo su tale ordine di questioni, a partire dall'erranza millenaria dell'umanità).
Ancora: se guardiamo a casa nostra, notiamo che un punto di snodo fondamentale delle lotte in corso si trova in Valsusa e non in qualche megalopoli à la Blade runner. Questo vorrà pur dir qualcosa. Intorno alla difesa del territorio e della comunità che vi risiede si stanno davvero ricomponendo reti multitudinarie (ambientalisti, centri sociali, precari, studenti, cittadinanza attiva, ecc.). Sarebbe opportuno partire dalla concretezza di queste esperienze, anziché inseguire una qualche centralità (di volta in volta: l'operaio-massa, l'operaio-sociale, il lavoratore cognitivo), vero e proprio pensiero ossessivo dell'operaismo. Per fare un esempio, Luca Abbà, che è stato – suo malgrado – simbolo della lotta No Tav, fa l'agricoltore biologico e il giardiniere, non ha certo la fisionomia del lavoratore cognitivo, semmai è più vicino ai temi riguardanti real work e reinhabitation di cui parlano Gary Snyder e i bioregionalisti americani.
Da qui dobbiamo allora iniziare, con l'intelligenza di saper costruire ponti fra gli uomini e le donne che protestano nelle piazze delle città in fiamme e la costruzione di una relazione vitale tra il mondo umano, animale, vegetale e minerale, ciò che gli antichi chiamavano Gaia, l'organismo vivente di cui facciamo parte. In questa direzione piacerebbe incontrare anche Negri e Hardt.

Federico Battistutta




Piazza Fontana/
La ricostruzione che ancora manca

Piazza Fontana 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno, a cura di Stefano Cardini (Milano-Udine, Mimemis Edizioni, 2012, pp. 287, euro 20,00) è un libro nato su iniziativa del Centro di ricerca in Fenomenologia e Scienze della persona dell'Università Vita-Salute San Raffaele. Gli autori devolvono il ricavato dei diritti d'autore all'Associazione delle vittime della strage.
Il libro è composto da dieci interventi di autori diversi. L'impulso a scriverlo è derivato dal dibattito suscitato dal film Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana.
In questo libro si parla ben poco della strage di Piazza Fontana, della morte di Giuseppe Pinelli, dell'omicidio del commissario Calabresi e delle altre vicende legate a questi eventi. Tranne Luciano Lanza, Sul filo della memoria. Un racconto di parte ma non partigiano, e Guido Salvini, 12 dicembre 1969. Una storia incompiuta, tutti gli altri autori più che riflettere su quei fatti cercano di rispondere al quesito filosofico: «La verità esiste?», come nota Roberta De Monticelli nell'intervento conclusivo.
Si ragiona quindi sul rapporto tra verità e finzione nel mondo d'oggi e sul rapporto tra verità e ricerca storica, ci si interroga a fondo sul rapporto che tanto lo storico quanto il comune cittadino ha con la storia più recente di questo Paese e, più in generale, con la Storia tout court. Vien da pensare che forse sono venute meno le condizioni che hanno permesso per lungo tempo agli esseri umani di percepire la propria esistenza come uno svolgimento nel tempo, cioè dotata di senso storico.
Si arriva così a domandarsi se sia possibile arrivare a una conoscenza autentica del passato, o ci si debba accontentare di «rappresentazioni» e «narrazioni», magari arbitrarie, visto che in molti casi la storia sembra diventata una procedura di assemblaggio più o meno creativo di materiali del passato senza alcun rapporto con la ricerca di qualsivoglia «verità». Perciò un libro come questo offre molti necessari spunti di riflessione sulla filosofia della storia che però, non sostanziati da una puntuale ricostruzione dei fatti, in Piazza Fontana 43 anni dopo data per scontata e acquisita, rischiano di apparire dotte disquisizioni sul sesso degli angeli.
Nell'introduzione il curatore scrive che questo libro «è anche un ragionato elogio della storiografia» e tuttavia l'unico intervento ascrivibile a uno storico è quello di David Bidussa, La storia degli anni inquieti. Il dovere e il problema di scriverla. Bidussa è uno studioso profondo e intelligente, ma è uno «storico sociale delle idee»: anche lui, quindi, più filosofo che storico.
Ciò che ancora manca, nella letteratura sulla strage di Piazza Fontana, è però proprio una ricostruzione compiutamente storiografica, cioè scevra, nei limiti del possibile, da contaminazioni ideologiche, filosofiche, sociologiche, politologiche, giornalistiche.
L'abuso pubblico, il vero e proprio stupro della storia che è stato condotto in tempi recenti, ha fatto sì che oggi sia sempre più difficile comunicare l'importanza della conoscenza storica per il progresso civile di un paese ma anche per il progresso intellettuale dei singoli individui.
Questo libro, pur dotato di innegabili pregi, funziona come accorato appello contro tale degenerazione ma, sul piano della conoscenza storica, nulla aggiunge a quanto già sappiamo. Semmai cagiona la disperante sensazione che niente di più riusciremo mai a sapere e che sia oramai impossibile scrivere la storia dei fatti del 12 dicembre 1969 e dell'epoca che li ha generati.

Andrea Saccoman



La notte in cui
nacque Frankenstein

È un libro anonimo. Vedendo la copertina, leggendo solo il titolo, questo libro non dice nulla. Ma proprio l'anonimato sembra la sua forza. Su uno sfondo nero, tetro, che richiama alla mente l'oscurità e l'ignoto, campeggia l'immagine di un pipistrello con le ali aperte, che si confonde con lo sfondo descritto. O meglio, si tratta di un vampiro! Molto originale, la copertina. Che a prima vista sembra non avere alcuna relazione con il titolo del libro. D'altronde, quando il titolo e la copertina di un libro ci svelano ogni cosa, la delusione è assicurata. Non è questo il caso.
Il libro che stiamo recensendo – Shelley, Byron, Polidori, La notte di Villa Diodati, a cura e con un saggio introduttivo di Danilo Arona, (Nova Delphi, Roma, 2011, pp. 350, € 12,00) – contiene tre capolavori della letteratura inglese della prima metà del XIX secolo, ed è un libro che merita la nostra attenzione. Chi oggi non conosce Frankenstein di Mary Shelley? Eppure il celebre romanzo gotico è ancora in grado di stupirci. Dopo tante pubblicazioni in lingua italiana, esce ora, con una nuova traduzione e per I tipi delle edizioni romane di Nova Delphi, una nuova edizione, in cui l'opera è raccolta insieme ad altri tre testi della letteratura inglese firmati da Lord Byron (La sepoltura) e da John Polidori (Il vampiro): non un'antologia, ma un lavoro curato e unitario, di cui ci aiuta a tracciare le fila il prezioso saggio introduttivo di Arona, notevole per intelligenza e sensibilità, che ci fornisce un ausilio per contestualizzare le opere in questione.
La notte del titolo, fredda e molto piovosa, è quella del 16 giugno 1816. Un gruppo di intellettuali e letterati si incontra a Villa Diodati, sulle rive del lago di Ginevra; ispirati dalla lettura di un vecchio volume di novelle fantastiche, Phantasmagoria, alcuni di loro, tra cui Byron, Shelley e Polidori, si cimentano in una sorta di scommessa letteraria: ognuno avrebbe scritto un racconto fantastico da leggere e confrontare con gli altri nelle notti successive. Nascono così La sepoltura, Il vampiro e il celebre Frankenstein. Non meno originale di quest'ultimo è il racconto di Polidori, il primo della lunga serie di romanzi sui vampiri (da Dracula a Twilight), molti dei quali portati anche sul grande schermo.
Il saggio introduttivo di Danilo Arona analizza e descrive tutta una serie di dinamiche sociali e umane dei vari personaggi di fantasia, collegandoli con le esperienze personali dei loro autori e in qualche modo giustifica la nascita di questi mostri tracciando una biografia molto ben riuscita dei loro autori e creatori, restituiti alla loro vita quotidiana. Una tale ricostruzione storico-letteraria non esisteva, se non parzialmente nell'introduzione di Mary Shelley al suo Frankenstein. Merito di Arona l'aver presentato e fatto conoscere questa storia, ben oltre la leggenda, e completato la ricostruzione di Shelley, fatta di poche, scarne e soggettive righe.
Ne viene fuori un libro stupendo, che restituisce le tre opere, per la prima volta riunite, al loro naturale contesto e alla propria curiosa genesi: quella suggestiva notte di letture e storie di fantasmi a villa Diodati, nel lontano 1816.

Franco Di Sabantonio




Dietro le ultime
elezioni americane

Spinto dalla macchina della comunicazione mediatica, eletto per ben due volte alla presidenza degli Stati Uniti, il fenomeno Obama risulta in parte incomprensibile se non si va a riconsiderare un passato quarantennale durante il quale ben tre candidati di colore scesero in campo per la presidenza. Di questi tre candidati il pubblico forse ricorda solo Jesse Jackson, immemore di Dick Gregory e di Shirley Chisholm.
Matteo Ceschi, autore di Tutti i colori di Obama. L'altra storia delle elezioni americane (Franco Angeli, Milano 2012, pp. 151, euro 22.00) ricerca le origini del successo di Obama nell'America politica e sociale profonda, caratterizzata dalla lotta per i diritti civile dei neri e contro ogni pregiudiziale razziale. Lo fa ripercorrendo il dibattito culturale e politico che ha attraversato la comunità nera circa la possibilità, non affatto scontata, fin dall'inizio, di giungere a una visione post-razziale (post-racial) che, secondo l'autore, si è affermata tra mille difficoltà, superando il pregiudizio razzista così diffuso in quel paese e non solo, al fine di abbattere le divisioni etniche. Si consideri che la comunità afro-americana aveva costruito e difeso la propria identità sulla netta contrapposizione fra “noi e loro”, per rivendicare e rivalutare le lontane origini africane in nome di un nazionalismo nero, una sorta di separatismo rispetto all'identità nazionale americana.
L'analisi è condotta con una dettagliata disamina di come i mezzi di comunicazione, stampa e televisione, diedero o non diedero spazio e commenti alla discesa in campo dei candidati neri alla presidenza del paese. Al pubblico genericamente disattento, compresa quella parte critica verso il sistema americano, si ripropongono le battaglie intraprese dai precedenti candidati neri, a cominciare da Dick Gregory che nel 1968 annunciò la sua candidatura in nome del Peace and Freedom Party, una formazione politica californiana nata l'anno prima su posizioni marxiste libertarie. Due i suoi intenti sintetizzati in uno slogan: «Per prima cosa farei dipingere la Casa Bianca di nero. Per seconda riporterei a casa tutti i ragazzi dal Vietnam». Nel dettaglio poi il suo programma evidenziava la centralità della post-racial politicis a partire dalla difesa dei diritti di tutte le minoranze e la chiamata a una lotta comune per una serie di obiettivi politici e riformisti radicali.
Negli anni settanta il disegno post razziale riscontrò un certo credito all'interno del movimento femminista anche se incontrò la resistenza di una visione impostata sul binomio genere-razza e l'idea di una liberazione delle donne di colore che escludeva dal dibattito le femministe bianche americane e europee. Il messaggio fu invece recepito diversamente dal movimento delle lesbiche e in alcuni settori di orientamento marxista libertario. Le lesbiche videro nel discorso post- razziale un modo per superare definitivamente quella che consideravano la prigione del gender in cui si era impantanato il movimento femminista. In questo contesto emerse la candidatura, all'interno del partito democratico, di Shirley Chisholm, una donna afroamericana prima a essere eletta alla camera dei deputati. Il fatto che questa volta ad incarnare lo spirito post-razziale fosse una donna afro-americana con una rispettabile carriera istituzionale diede valore a una scelta non affatto scontata. Ma non tutta la comunità politica nera l'appoggiò. Una parte continuò a indicare nel separatismo nero il modo di agire della comunità al fine di avviare una politica “nera” indipendente a uso e consumo della popolazione nera: il concetto di Blak nation era così contrapposto a quello di American people della candidata.
Pur ottenendo una certa risonanza nella campagna elettorale delle primarie dei democratici, naturalmente Shirley Chisholm non la vinse, ma contribuì a rafforzare l'dea del post-racial come soluzione all'interno della quale tutte le componenti etnico-sociali avrebbero potuto trovare i canali più adatti per esprimersi e partecipare alla vita politica. Dei precedenti due aspiranti alla presidenza, solo Jesse Jackson, candidatosi due volte (1984 e 1988) alle primarie del partito democratico poté godere di una certa visibilità presso i media. Animatore della comunità afro-americana fin dai tempi delle marce per i diritti civili, si ritagliò uno spazio sulla stampa e nella televisione e si guadagnò stima e simpatia in una parte della comunità culturale di massa: giornalisti, scienziati, ecologisti, il magnate di Playboy, star della società dello spettacolo, musicisti come Aretha Franklin, Michael Jackson e il regista Spike Lee. Le sue conoscenze e l'abilità oratoria in pubblico, l'autorevolezza conseguita in patria e all'estero con posizioni politiche coraggiose, consentirono al reverendo si mantenere la scena anche dopo i due consecutivi tentativi di conquistare la nomination democratica.
Fin dalle sue origini, essendo figlio di una famiglia meticcia, Obama impersonò la versione post-razziale. Si può infatti dire che la “portava nel sangue”. La sua visione contribuì alla destabilizzazione delle linee del colore e delle identità etniche, tanto che si è parlato di post-etnic, una concezione che si oppone all'assunto che le persone siano vincolate per una sorta di ordine naturale delle cose, a fare causa comune con altri che hanno la pelle dello stesso colore, gli stessi tratti somatici, la stessa discendenza. Il suo fu ed è un approccio ecumenico alla questione razziale che cammina su una fune da equilibrista. Dà voce alle minoranze che si sentono emarginate e disprezzate, con un tono conciliante che non fa sentire minacciati i bianchi e dà ai conservatori l'impressione di essere disposto ad ascoltare i loro punti di vista.

Diego Giachetti




Taranto/
inquinamento, malapolitica e passione calcistica

L'Eroe dei due mari (Altrainformazione e PeaceLink editori, 2012, pp. 100, € 10,00): un libro a fumetti, tratto da un romanzo di Giuliano Pavone, che narra una storia di sport e passione calcistica quale sogno di riscatto sociale per una città come Taranto, simbolo e paradigma di tutti i sud del mondo impegnati a difendere la propria dignità contro lo strapotere capitalista e iperliberista, e che vuole rappresentare un importante parallelismo con l'esistenza sociale di una popolazione privata del proprio diritto alla vita, alla salute e alla dignità del lavoro. La visione moderna dello sport del calcio, non quello professionistico e legato alle bieche logiche di mercato, ma quello di provincia, incarnato da persone che vivono in una città dove le problematiche occupazionali, economiche e sociali mordono con forza le basi della dignità umana, rappresenta un valore nella lotta quotidiana dei cittadini di Taranto per rivendicare il diritto alla salute e al lavoro in forma degna e conforme alla Costituzione, ossia “lavorare per vivere e non per morire”. Originale è la modalità rappresentativa del libro che tratta, tramite il fumetto, e illustra, in forma visiva, un parallelismo che, scritto in termini testuali, non espliciterebbe quel senso di dinamicità e vicinanza alle tecniche di comunicazione molto affini ai giovani.
Tramite l'animazione visiva del fumetto, sapientemente tracciata dai giovani autori, viene alleggerita la componente comunicativa, per focalizzare lo scottante e drammatico contenuto delle vicende tarantine. L'eroe dei due mari porta al riscatto la squadra calcistica del Taranto, così come i movimenti ambientalisti conducono una città alla riappropriazione di diritti imprescindibili: la salvezza di una Taranto che vive il dramma del proprio declino, della trasformazione ambientale, attraverso il degrado e il dissesto ecologico, a causa dell'inquinamento industriale. “L'Eroe dei due mari” fa vivere un sogno di riscatto alla squadra del Taranto. Attualmente tale riscatto invece permane, non viene arrestato, ma riesce a dare la massima espressione di sé tramite un forte movimento associazionistico, di democrazia partecipata e attivismo dal basso, volto alla realizzazione di una città ecosostenibile, a misura di persona.
Fra classe operaia e quanti si occupano di problemi ambientali ed ecologici esistono molti punti di contatto. Sarebbe un grave errore scinderli. È giusto quindi che le esperienze si confrontino, perché la crisi ambientale non potrà essere risolta se non si vince la lotta per attuare condizioni lavorative accettabili, con adeguati interventi sanitari e di bonifica e con la realizzazione di opportune misure di sicurezza nei luoghi di lavoro, per il rilancio culturale, morale, umanistico e ambientale della città di Taranto.
In appendice il libro è corredato da venti pagine di cronologia, scritte da Giuliano Pavone, in cui si ricostruisce la storia del rapporto fra Taranto e l'Ilva, ricche di dati sull'inquinamento ambientale.

Laura Tussi




Non soltanto
Gaetano Bresci

È uscito recentemente il libro di Alessandro Affortunati Fedeli alle libere idee. Il movimento anarchico pratese dalle origini alla Resistenza (Zero in condotta, 2012, pp. 192, Ä 12,00). Ne pubblichiamo la prefazione di Giorgio Sacchetti.

Anarchico di Prato, ovvero, regicidio di Monza: quelle tre palle che il 29 luglio del 1900 cambiano il corso della storia italiana fissano, in un'immagine tragica e memorabile, un evento destinato a proiettarsi, con effetti condizionanti, su tutto il nuovo secolo. L'anarchismo militante, dopo l'era delle cospirazioni e degli attentati, abbandona quelle prassi organizzative di derivazione post-risorgimentale per trovare una sua nuova dimensione, popolare e di massa, specie in Toscana. Complici di tutto questo il progetto giolittiano di allargare le basi dello stato e la conseguente apertura di nuovi inediti spazi per la politica e la socialità. Le narrazioni tardo novecentesche, la stessa storiografia, hanno però pregiudizialmente inchiodato, per così dire, Prato alla figura di Gaetano Bresci.
Occorrevano allora studi pregevoli come questo di Affortunati per restituire ad un movimento i suoi connotati effettivi e veritieri, dentro un ambito territoriale molto interessante dai punti di vista socioeconomico e antropologico culturale.
La ricerca ha inizio dai prodromi internazionalisti libertari, ossia dalla fase in cui si esplicita anche localmente la tendenza antiautoritaria del socialismo, per approdare alla Resistenza. È una presenza certo minoritaria, ma vivace e significativa, quella che emerge. Le cesure temporali racchiudono settant'anni con i vari snodi cruciali, politici e sociali: dalla crisi di fine secolo (culminata con quell'episodio che ha reso Prato “famosa”) fino alla guerra europea, dalla Rivoluzione d'ottobre al fascismo, dalla guerra di Spagna alla lotta partigiana. Sono eventi di grande impatto che si rivelano come traumi anche esistenziali, capaci di mutare psicologia e orizzonti mentali, oltreché la quotidianità di milioni di uomini e donne, e che ridefiniscono le modalità stesse della militanza operaia.
Il libro, che prende le mosse da una bibliografia di base non copiosa, si caratterizza principalmente per l'utilizzo di un ricco repertorio di documenti, carte di polizia ma anche fonti soggettive, e per la centralità assegnata alle storie di vita dei militanti. Inoltre è ben presente la visuale sul peculiare contesto sociale ed economico territoriale, non tanto come mera descrizione ambientale, ma come nesso fra identità del lavoro e formazione delle culture politiche sul territorio.
Le commistioni con la vecchia Sinistra risorgimentale e la sociabilità legata ai mestieri tessili connotano gli esordi dell'anarchismo pratese. Affortunati ci fornisce una mappa ragionata, assai pregevole, del sovversivismo locale, di quell'humus popolare ribelle che cova nei tuguri abitati dal popolino, fra le botteghe di artigiani ed i magazzini di cenciaioli indipendenti.
Quando, negli anni ottanta dell'ottocento, si esaurisce il ciclo virtuoso dell'internazionalismo si apre una lunga fase di ripensamento teorico ed organizzativo. La questione sociale di Firenze lancia nel 1884 il nuovo Programma per il comunismo anarchico, redatto da Errico Malatesta. Nel decennio successivo si giungerà ad una vera e propria revisione dell'originario progetto cospirativo (lascito peraltro di prassi ereditate da Mazzini, Garibaldi e Pisacane). Ma “la rivoluzione non si fa in quattro gatti...”. La crisi di fine secolo impone un diverso protagonismo delle masse popolari. La medesima esigenza palesata a suo tempo dalla “svolta” di Andrea Costa trovava una possibile soluzione, sebbene di segno opposto: “... la rivoluzione non si fa che quando il popolo scende in piazza...”. E la piazza rimarrà, per gli anarchici, il luogo topico per l'agognata insurrezione, almeno fino alla “settimana rossa” del 1914.
Su questo lungo periodo di transizione il libro ci fornisce spunti di eccezionale interesse: sulla pubblicistica libertaria edita a Prato (ad esempio la Tribuna dell'operaio del 1892), sulla presenza in città di un influente quanto discusso personaggio come Giovanni Domanico, sul rapporto conflittuale e dialettico che si instaura con il nuovo partito appena fondato a Genova. “Il confine fra anarchismo e socialismo rimaneva in città molto sfumato...” scrive Affortunati.
Nel centro tessile nasce, sotto l'iniziale egida libertaria, la Camera del lavoro. È la fase in cui l'anarchismo italiano “incontra” il sindacato. Con i tumulti del pane del Novantotto, che in Toscana hanno il loro epicentro a Figline Valdarno e a Prato, la questione sociale si fa questione nazionale. Le fortune francesi delle teorie sindacaliste rivoluzionarie si replicheranno in Italia. Organizzazione anarchica, anticlericalismo e antimilitarismo saranno poi gli altri fronti di impegno degli anarchici pratesi. Infine la guerra civile e la lunga lotta antifascista.
Una preziosa appendice sugli schedati del Casellario politico centrale suggella il volume. Ne emergono figure epiche di militanti (un nome per tutti: Anchise Ciulli), storie di vita avventurose. Sui connotati proletari di questo movimento a Prato, affatto trascurabile, non vi sono dubbi. I mestieri esercitati nella statistica riportata vedono al primo posto quello di tessitore, al secondo: classificatore di stracci...

Giorgio Sacchetti




Mendace
come un eroe

Underground, the Julian Assange story nasce come film per la tv australiana Channel Ten. Girato nel 2012 dall'australiano Robert Connolly, è un adattamento del libro del 1997 Underground: Tales of hacking, madness and obsession on the electronic frontier scritto dalla ricercatrice e giornalista Suelette Dreyfus, con la collaborazione di Julian Assange.
Il film, ambientato a Melbourne alla fine degli anni '80, ricostruisce le vicende dell'adolescente Julian (nome in codice “Mendax”), patito del computer, in particolare quando, con due amici altrettanto appassionati, trova il modo di accedere alla rete riservata Milnet, il network militare degli Stati Uniti d'America. Julian scopre documenti riservati che rivelano l'uccisione deliberata di civili da parte del governo Usa durante il conflitto in Iraq, nell'Operazione Desert Storm. Il ritmo si fa incalzante con la polizia sulle tracce dei ragazzi (alias “International Subversives”). L'incoscienza della gioventù si mischia allora al senso civico, alla determinazione e all'urgenza di fare la differenza, condividendo la conoscenza con la collettività, in un percorso di coerenza e attivismo che oggi conosciamo, di militanza nei fatti e nella prassi.
Scorrono i titoli di coda al British Film Institute. La ricercatrice Suelette Dreyfus sale sul palco per una sessione di domande e risposte. Ci parla di un importante progetto sul “whistleblowing” un concetto che purtroppo in Italia fa ancora fatica a entrare nell'uso quotidiano. Il whistleblowing (da “blow the whistle”, soffiare il fischietto), è quell'attività rischiosa, eroica e coraggiosa che consiste nel denunciare dal suo interno le malefatte di un'organizzazione, un'impresa privata, l'esercito, il governo. In questo senso WikiLeaks è un'organizzazione whistleblower, in quanto dà voce a documenti riservati di interesse pubblico, ricevuti in forma anonima, garantendo un impatto globale e al contempo proteggendo la fonte. Suelette e altri ricercatori dell'università di Melbourne hanno lanciato il World Online Whistleblowing Survey, il primo sondaggio internazionale sul whistleblowing, a cui chiunque può partecipare rispondendo a domande sulla propria attitudine rispetto a questa pratica, e alle condizioni necessarie perché la “soffiata” possa avvenire.
E “whistleblower” è una parola chiave in tutta la vicenda WikiLeaks. Oltre ad Assange, il whistleblower che sta pagando duramente per aver voluto mostrare al mondo intero le menzogne e i crimini commessi dal governo statunitense e non solo, è Bradley Manning. Il soldato, in carcere militare dal maggio 2010 (più di 900 giorni), è sospettato di aver passato a WikiLeaks migliaia di documenti segreti e cablogrammi diplomatici tra cui il video Collateral Murder che mostra in diretta l'uccisione di dodici civili iracheni da parte di elicotteri Usa nel 2007. Il capo d'accusa più scioccante che pende sul destino di Manning è quello di aver “aiutato il nemico”, crimine punito con la pena capitale nella più potente “democrazia” del mondo. La domanda chiave che si sono posti in tanti è: “Chi è il nemico?” La risposta più probabile è che il nemico siamo noi, la collettività stessa, l'opinione pubblica, WikiLeaks.
Infatti, esporre crimini di guerra e menzogne perpetrati dai governi è un atto che la stampa mainstream di tutto il mondo è stata pronta a condannare, crogiolandosi nell'autocensura, nella diffamazione, nella viltà. Sui contenuti del “leak” ovviamente, è un muro di silenzio. Peccato che tra i “giornalisti” protagonisti di questa operazione, siano in tanti a ignorare l'essenza del mestiere di chi fa inchiesta e indaga su crimini politici. No, non lo possono sapere gli scribacchini che passano il tempo a scopiazzare articolacci di bassa qualità sulla frequenza delle docce di Assange. Tutti i possibili mezzi sono stati dispiegati in questi due anni con l'intento di zittire e censurare questo giornalista che in pochi hanno il coraggio di chiamar tale: da quello economico a quello mediatico della propaganda, fino a quello legale. È la famosa trappola della legalità. Lo sanno le libere pensatrici, gli anarchici, le attiviste, i giornalisti scomodi che devono affrontare sulla loro pelle la repressione, le intimidazioni, i controlli, le schedature: queste sono le armi con cui lo stato punisce la resistenza civile. Chi viola il segreto di stato infrange la legge perché la collettività non può sapere. In fondo qual è lo scopo ultimo di un governo se non quello di esistere? Qualunque pazzo intenda smascherarne le malefatte o abbia il coraggio di opporsi e metterne in discussione la legittimità dev'essere zittito e sottoposto a pena esemplare. Una macchina propagandistica di autoconservazione si attiva immediatamente, con un'efficacia collaudata e scientifica, per isolare il colpevole e infamarlo. Grandi ideali di patria e onore saltano fuori sbandierati con orgoglio ed ecco che il concetto di legalità assume contorni inquietanti. La legalità tanto sbandierata dai governi (ricordiamo le parole di Obama su Manning: “He broke the law”, “Ha infranto la legge”), è la legalità di torturare, massacrare, lanciare bombe sui civili, assassinare “criminali”, buttarli in mare. Il tutto impunemente.
E in questa farsa di ideali sbandierati e proclamati in pubblico, mentre dietro le quinte si spiano i liberi cittadini del libero mercato, Underground è un film più attuale che mai, dall'intrinseca coscienza politica, realizzato in un momento in cui anonimato e sorveglianza sul web sono questioni essenziali per chiunque faccia uso della rete, non solo per gli attivisti di mezzo mondo coinvolti nella campagna per la libertà di stampa che ruota attorno a WikiLeaks e Assange.
Un appunto finale per gli appassionati del Commodore 64 e di un'era in cui la tecnologia muoveva i primi passi: sono brividi di piacere. L'hacker, questa creatura sconosciuta, misteriosa, deformata e infame, aggeggia con plasticoni enormi, stacca e riattacca fili furtivamente, con la maestria incosciente di una gioventù che anela al cambiamento. Ed ecco che l'hacker altro non è che un attivista, o meglio un attore all'interno di una società addormentata e annichilita dalla propaganda. Un essere fluido che si muove tra codici e password mendaci, in continua sfida con gli altri e con se stesso, che finisce per esporre le schifezze dei governi per il bene di cittadini ingrati e colpevoli di apatia e disinteresse, egoismo e conformismo, per poi prendere tutta ma proprio tutta la colpa. Se quel qualcuno è un giovane australiano che a distanza di vent'anni ha poi cambiato per sempre l'essenza stessa del giornalismo, ben venga.

Serena Zanzu

Per saperne di più

Christine Assange on Underground, the film about son Julian, Herald Sun (2012)
http://www.heraldsun.com.au/entertainment/christine-assange-on-underground-the-film-about-son-julian/story-e6frf96f-1226489467079

Collateral Murder (2010)
http://www.collateralmurder.com/

Dreyfus, S (1997) Underground: Tales of Hacking, Madness and Obsession on the Electronic Frontier
http://suelette.home.xs4all.nl/underground/Underground.pdf

World Online Whistleblowing Survey
https://whistleblowingsurvey.org





Retrospettive/
Pasolini l'eretico

Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

Disilluso? Dillo senza timori!
Marina Cvetaeva

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922/Roma, 2 novembre 1975) oggi avrebbe novant'anni. Forse. Senza la tragica morte su commissione all'Idroscalo di Ostia. Forse sarebbe ancora vivo. È arduo immaginarlo nel nostro tempo, cittadino di una società, collettività integralmente omologata che, insieme al cinismo, alla disillusione, alla televisione – creatura atroce –, all'indifferenza civile e morale, coltiva tuttavia il personale, congenito e strutturale disimpegno politico/sociale in una spettacolare apatia culturale.
Vivrebbe in un paese che ha corrisposto perfettamente alle sue analisi sulla mutazione e il degrado antropologici, ovvero il “genocidio culturale”. Chissà cosa avrebbe detto – ma soprattutto scritto – della caduta di tutte le ideologie, dei mass-media, della giustizia, del Vaticano, della cultura, dei giovani, di tutti i politici-clown-clan, del potere economico, del capitalismo, della sinistra... Sicuramente – come sempre – avrebbe avuto più intuito di tanti pseudo intellettuali; ci sarebbe stato d'aiuto per leggere poeticamente e antropologicamente una società degenerata e imbarbarita.
Ancora oggi c'è una ricorrente attitudine a sminuire il valore teorico degli scritti pasoliniani e ancora si sente ribadire il concetto secondo cui la sua Weltanschauung è unicamente poetica. Proprio come scrive Pasolini nel '66: “È un modo per esorcizzarmi. [...] È quindi anche un modo per escludermi e di mettermi a tacere”. Un intellettuale puro che precorre i tempi delle inchieste. A mo' d'esempio si legga il suo libro postumo Petrolio in cui egli comprende in tempi non sospetti la funzione-cardine di Eugenio Cefis (successore di Enrico Mattei all'indomani della sua non accidentale morte) nell'indicare un mutamento autoritario non più basato sulle stragi ma sulla limitazione della democrazia e sul totalitarismo del sistema economico globale. Le identiche tematiche contro cui ci scontriamo in questo momento storico.
Alberto Moravia sosteneva che “Pasolini è morto in una maniera intonata non già alla sua vita ma ai pregiudizi e alle convinzioni della società italiana; ossia non per colpa sua ma per colpa degli altri. In altri termini e per dirla con chiarezza definitiva: Pelosi e gli altri come lui sono stati il braccio che ha ucciso Pasolini; ma i mandanti del delitto sono una legione, in pratica l'intera società italiana. [...] E cioè: la borghesia italiana che è secondo noi, tutta o quasi conservatrice quando non è addirittura fascista. [...] Questo suo dovere di perire per mano assassina lo circondava come una nube funesta fin dai tempi del suo processo in Friuli. [...] Pasolini era del tutto indifeso e non si appoggiava a nulla come tutti i veri intellettuali. [...] Donde l'insopprimibile sua tendenza a scandalizzare. [...] Ignorava il pericolo mortale che correva scandalizzando una classe come la borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d'Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.
Negli anni in cui Pasolini osserva la società come poeta, scrittore, drammaturgo, linguista, saggista, giornalista, sceneggiatore e regista, già intuisce i tempi, l'epoca, “il progresso come falso progresso”. Sul Corriere della Sera del 29 ottobre '75 scrive: “I giovani sottoproletari romani hanno perduto (devo ripeterlo per l'ennesima volta?) la loro 'cultura', cioè il loro modo di essere, di comportarsi, di parlare, di giudicare la realtà: a loro è stato fornito un modello di vita borghese (consumistico): essi sono stati cioè, classicamente, distrutti e borghesizzati”. Non si può sorvolare sul suo coraggio e sulla sua forza.
“Io sono una forza del Passato. [...] Giro per la Tuscolana come un pazzo, / per l'Appia come un cane senza padrone. [...] E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno d'ogni moderno / a cercare i fratelli che non sono più”.
La “disperata vitalità” spinge Pasolini a concepire e pianificare la propria morte violenta quale “montaggio del film della sua vita”, come asserisce Giuseppe Zigaina, “la morte-montaggio”.
La straordinarietà del montaggio di Salò o le 120 giornate di Sodoma sta nel far coincidere il tempo della morte reale con il tempo del montaggio del film postumo in cui si è rivelato l'estremo gesto formativo del Poeta. Analogia tra montaggio reale e montaggio metaforico della sua opera-vita. “Una cosa – scrive Pasolini – è essere martirizzati in camera e una cosa è essere martirizzati in piazza, in una 'morte spettacolare' – ma la cosa essenziale è restare in vita”. In cui “restare in vita” indica restare nella vita del dopo, ossia nella gloria e nell'eternità.
Pasolini intuisce anzitempo i rischi insiti nel neocapitalismo italiano, un modello fondato sull'accumulazione di beni superflui più che su uno sviluppo etico-culturale. Dice appunto: “E io ritardatario sulla morte, in anticipo sulla vita vera, bevo l'incubo della luce come un vino smagliante”. Addita in primo luogo la televisione, atta a sovvertire il tessuto sociale e ad alterare in profondità l'individuo e i suoi comportamenti psichici, culturali e umani. Oggi il suo coraggio intellettuale sarebbe essenziale: dire ciò che è, sempre e dovunque. Questa è la dimensione antropologica, culturale e politica in cui collocare Pasolini oggi per rileggerlo e farlo rivivere in chiave marxista e libertaria, in un presente sempre più omologato, globalizzato e conformista e in un futuro le cui premesse presagiscono un deserto culturale apocalittico.

Domenico Sabino




Londra
Incendiata la storica libreria Freedom

I locali della storica libreria anarchica Freedom di Londra hanno subito un pesante attacco incendiario nella notte tra giovedì 31 gennaio e venerdì 1 febbraio. Nonostante l'intervento dei pompieri, che hanno lavorato fino alle 7 di mattina per spegnere le fiamme, una parte del piano terra dell'edificio ha subito considerevoli danni. Fortunatamente nessuno è rimasto ferito.
Secondo le ricostruzioni dei compagni, è stata forzata una finestra e poi versato del liquido infiammabile all'interno. L'attacco non è stato rivendicato ma è assai probabile che esso sia da attribuirsi all'estrema destra, che già nel 1993 si era resa responsabile di un atto simile.

Freedom non è solo una libreria: è un editore di movimento dal 1886, quando Charlotte Wilson e Pëtr Kropotkin cominciarono a pubblicare l'omonimo giornale, che continua a uscire mensilmente. Freedom edita libri e ospita le attività di diversi gruppi tra cui Solidarity Federation, Anarchist Federation, Advisory Service for Squatters, Corporate Watch e London Coalition Against Poverty.
Dal giorno dopo l'incendio la risposta solidale di tante e tanti è stata tangibile, tanto che lunedì 4 febbraio Freedom ha riaperto i battenti, anche se il magazzino, che contava circa ottomila volumi, si è ridotto non di poco.

Chi voglia aiutare per la ricostruzione può farlo con una donazione o acquistando dei libri dal sito:

www.freedompress.org.uk
E-mail: shop@freedompress.org.uk
Freedom Press 84b Whitechapel High Street, London, E1 /QX, Regno Unito.

(grazie per la collaborazione ad Antonio Senta)