Rivista Anarchica Online


scuola

Galleggiare sugli abissi oscuri

di Philippe Godard


Utopia, pedagogia e rassegnazione: la “Miscredenza passiva” al centro della crisi della scuola.


“Miscredenza passiva” (Mécréance, ndr): l'espressione è di Fernand Deligny, e con essa egli intendeva riferirsi a quei medici, infermieri e altre persone che ricoprivano un ruolo in un ospedale psichiatrico, molti dei quali non credevano a ciò che stavano facendo e mantenevano un atteggiamento passivo nei riguardi della situazione. Probabilmente, di notte, disfacevano con il pensiero ciò che di giorno si erano sentiti costretti a fare, dandosi ottime e multiformi giustificazioni, dalla tradizionale ingiunzione, interiorizzata: “Devi guadagnare soldi per nutrire i tuoi figli”, fino a visioni più ciniche sugli emarginati, i pazzi, i figli perduti per la società, che bisogna “raddrizzare”.
Eppure è indubbio che la maggior parte viveva molto male quell'ospedale psichiatrico in cui prestava servizio, e si vergognava di impersonare fino a quel punto la schiavitù volontaria, che facciamo nostra, come ha perfettamente dimostrato La Boétie.
L'ospedale psichiatrico è una forma esacerbata del Malencontre (“cattivo incontro”) – ancora La Boétie –, che è il Potere, ottenuto e perpetuato grazie alla partecipazione di ciascuno alla propria oppressione. Il Potere contraccambia, permettendo a noi di opprimere gli altri, quelli che stanno più in basso, poiché oppressione significa prima di tutto partecipazione a questa specie che persiste nel credersi umana: tutti uniti grazie a questa schiavitù che costruiamo e condividiamo. Che diffondiamo e modelliamo con le nostre mani, con il nostro linguaggio. Ma non soltanto in questi modi. Perché noi operiamo anche mediante il nostro gusto acquisito per la passività.
La differenza tra attivo e passivo è sfumata: la passività ha la meglio sulla volontà attiva. Noi siamo diretti dal Sistema, dal Potere, fino a diventarne dei rifiuti non appena non corrispondiamo più alla norma sociale. La domanda è: senza Potere, il nostro “noi” non avrebbe maggiori probabilità di emergere, di farsi parte attiva e di rifiutare la passività nei confronti di situazioni ingiuste e distruttive?
È un interrogativo al quale sarebbe vano tentare semplicemente di dare una risposta. Perché non è da un linguaggio, in una teoria fumosa – fumisteria? –, che proverrà la risposta. Bensì e solamente da un agire.

Zattere alla deriva

Agire a partire da quelle “zattere” di cui parlava Deligny, remando qua e là sull'oceano del Malencontre e permettendo a individui emarginati, asociali o desocializzati di aggrapparsi per non sprofondare? Zattere sufficientemente lasche e allentate per lasciar passare le ondate di un mare vessatorio, ma dalle assi talmente saldate tra loro da riemergere in continuazione, galleggiare e andare alla deriva. Ma, in tutto ciò, che fa la pedagogia, e la scuola?
La scuola non è di quelle zattere alla deriva – e quant'è difficile, ma così bello, andare alla deriva sull'oceano del Malencontre! La scuola è nave ammiraglia, vivaio di talenti, dove tutti i giovani allievi devono recarsi per inspirare la propria schiavitù volontaria, per il Sistema, senza soffrirne. Volere davvero la propria schiavitù a un prezzo infimo, al prezzo di niente, quel niente che, nel tempo del digitale, riempie la prodigiosa infinità degli schermi. Aspirare a un vuoto che assomiglia incredibilmente a quel tedio così diffuso ai nostri tempi, tedio per la vita del mondo, che spinge a smettere di desiderare, di farla finita con il ciclo delle rinascite. Smettere di desiderare = abbandonare la lotta = sconfitta di ciò che restava della zattera di fortuna, sconfitta del battello di quei patrimoni che sono e rimangono gli esseri umani esenti dalla Miscredenza.
A questa miscredenza passiva, vorremmo contrapporre una pedagogia della Via: diventiamo Zattera. Imbarchiamoci sugli abissi oscuri, e per non inabissarci, la cosa migliore è galleggiare senza agire eccessivamente. Ma galleggiare.
Di che agire si tratta? Un agire che assomigli al Tao dei taoisti, quel “wuwei” che si traduce anche “non agire”. Che assomiglia anche alla rivolta collettiva di Camus (“Io mi ribello, quindi siamo”), alla società in lotta contro lo Stato di Pierre Clastres, o a quella zattera di Deligny che recupera ovunque i resti di cui l'ospedale psichiatrico non sapeva che fare, se non abbrutirli di farmaci. Le parole agire, non agire, zattera, resto, lo stesso ospedale psichiatrico proliferano in questo oceano di Miscredenza soltanto per giocarci insieme: lasciamoci andare alla deriva verso il margine per liberarcene. Non lasciamoci rinchiudere in un vocabolario: “Le parole ci dividono, le azioni ci uniscono”, dicevano i Tupamaros uruguayani. Utilizziamole semplicemente per avviare discussioni, dibattiti, problematiche. Non agiamo a vantaggio di ciò che ci opprime. Non salviamo il Sistema che ci stritola. Non siamo né scettici né passivi.
Dove sta il margine? Si può ancora essere nel Margine? È all'intersezione tra la realtà e l'utopia, il Sistema e il Margine che interviene la pedagogia, fondata su un'etica del non-dominio.
Infatti, per il fatto stesso di collocarci al Margine, eccoci nel cuore della Miscredenza. Il Sistema non ha bisogno di gatte da pelare. Atene ha immolato la sua gatta-Socrate. La Cina ha fagocitato la gatta-Tao. Al capitalismo piacerebbe veder sprofondare la pedagogia utopica negli abissi del consenso.
Così, a scuola, in questa nave ammiraglia, perché è lì che si trova, è costretto a essere, il futuro del mondo, grazie al succedersi di generazioni, cui si cerca di togliere ogni possibilità di essere in conflitto, vale a dire, semplicemente, di essere, a scuola si trova un terreno di lotta in cui l'utopia – il Margine, la Società contro lo Stato – esiste, soprattutto non in quanto avanguardia. L'avanguardia è potere, dunque partecipazione alla Miscredenza. L'Utopia è allo stato latente, persino del tutto nota. Essa è espressa, pensata, discussa a volte. Ma è agita?
Non sta forse qui il nucleo fondamentale della crisi della scuola? I bei progetti teorici sono legioni; vengono discussi, a volte con asprezza e cattiveria; i testi ufficiali organizzano “progressioni” o tengono conto dei dibattiti teorici per snaturarli nel momento stesso in cui sono trasformati in riforme pratiche e concrete. Così, le pedagogie realizzate da trenta o quarant'anni a questa parte sono per lo più risposte mal tradotte a problematiche che permangono relegate nella pura astrazione. È sufficiente un gruppo di studenti fuori norma, malamente condizionati dall'Istituzione, per far esplodere, in una classe, in una scuola, tutte le migliori volontà del mondo.

L'importanza di credere

Non abbiamo la pretesa di uscire da questa situazione mediante un qualche colpo di bacchetta magica. Ma soprattutto non cadiamo in quella “Miscredenza passiva” che, ovunque, estende sulle scuole la sua ombra sinistra. Non credere più a ciò che si fa e non fare niente per cambiare la situazione: non c'è niente di peggio per i ragazzi, per coloro che lavorano e soffrono a scuola, e purtroppo anche per il mondo futuro, perché i ragazzi di oggi, in futuro, saranno condizionati dalla scuola che avranno avuto o subito nella loro giovinezza.
Come non credere in un'Istituzione come la scuola? Questa è l'espressione della Miscredenza: resa incondizionata, schiavitù volontaria quasi teorizzata e accettata, negazione di sé – e degli altri al contempo, ma a più lungo termine e secondo processi individuali che avvertiamo, ma che non riusciamo mai a spiegare. Eppure: se non ci si crede, che cosa possiamo sperare di indicare ai giovani, se non il fatto drammatico che si può vivere senza credere in niente, neppure in ciò che si fa e in ciò che si vive insieme ad altri esseri umani, che sarebbe certamente una delle più belle vite che si possano immaginare?
Ebbene, qualsiasi riforma della scuola implicherebbe alla base il fatto che coloro che dovranno realizzarla debbano almeno crederci un po'... In un contesto del tutto differente, Guevara si chiedeva come fare a costruire il socialismo se gli unici incentivi erano economici. A suo avviso, esisteva un'etica della costruzione dell'uomo nuovo; quel processo utopico non poteva accontentarsi unicamente degli incentivi economici, che dovevano essere soltanto transitori. Ma l'etica ha senso soltanto se gli individui coinvolti hanno la volontà di riuscire a trasformare il mondo. Se, a scuola, l'immensa maggioranza si arrende e ci va come altri si recano alla catena di montaggio o al patibolo, consapevoli della loro oppressione, che speranza ci resta di cambiare?
Questa dimensione viene sempre lasciata da parte, perché è proprio lei a porre il vero problema di fondo della scuola. Questo problema non è quello della scuola. È il sintomo di una società che non crede più in se stessa come un tutto dotato di senso, e si limita a un elenco delle sue componenti dissociate le une dalle altre, tra le quali scegliere. Allora, si appartiene a questa o a quella tribù, in attesa di essere, un giorno, contro le altre tribù. La società capitalista è più che mai una lotta di tutti contro tutti in un quadro unico, che regge ancora grazie ad alcuni pilastri. Il primo è il denaro: e se non avessimo conti in banca, se dunque tutti dovessimo sopravvivere grazie al baratto, è certo che questa (assenza di) società scomparirebbe, dando vita forse a una autentica società di scambi tra gli esseri umani. Il secondo è la paura: di non avere più soldi, e anche la paura dell'altro, il desiderio di far paura per imporsi, la paura della gerarchia e l'uso della paura per garantirsi una posizione di dominio, la paura di non essere al top, di avere l'alito cattivo o le ascelle sudate, la paura di non pensare in modo omologato, la paura di non aver paura e di essere diversi, di essere tentati da quel Margine che, invece, non ha paura.
La paura e il denaro sono connessi tra loro. Anche a scuola la paura e il denaro sono costantemente presenti. La paura del professore, dell'amministrazione, dell'errore, del brutto voto, della reazione dei genitori alla pagella. Il denaro come scopo supremo, quella profusione di denaro che si conquisterà se si avrà successo negli studi, ma, prima di ciò, il denaro necessario per pagar(si) gli studi, la scuola come investimento per il futuro.
È l'intera società a mostrarsi scettica e passiva quando si aspetta di superare la propria paura soltanto mediante l'accumulo di denaro, cosa che si verifica soltanto per i più “fortunati” – i più alienati – di noi. Ma il Margine vive ancora e parla ancora, e noi sappiamo che certi eventi possono ribaltare una situazione. E, questa volta, è il Sistema ad avere paura. Cerchiamo di essere un creativo Margine all'attacco.

Philippe Godard
traduzione di Luisa Cortese