Rivista Anarchica Online


dibattito
Un gioco da ragazze?

di Sandra D'Alessandro

Dall'ingresso delle donne in politica alla manifestazione delle sciarpe bianche, passando per le opinioni di scrittrici, filosofe e intellettuali: la centralità del rapporto tra donne e politica.

Foto: AFA


Lprima a dirlo credo sia stata Valerie Solanas nel suo S.C.U.M. (Manifesto per l'eliminazione dei maschi, Ortica editrice, 2010), nel lontano 1967. Partendo da una considerazione genetica – il maschio è “un incidente biologico, una femmina mancata” (su questo punto cfr con Il cervello delle donne, di Louise Brizendine, Rizzoli, 2007), “un morto vivente, un vibratore ambulante”, che ha seminato distruzione e morte per millenni – Valerie propone di disfarcene, e di lasciare il governo del mondo in mano alle donne. Certo, milioni di loro hanno subito un lavaggio del cervello, ma “eliminate gli uomini e le donne prenderanno forma”. Il nuovo ordine sarà basato sull'automazione che abolirà tutti i lavori non creativi, e lascerà il tempo per la ricerca della felicità, che può trovarsi solo nella relazione con gli altri; ogni donna, infatti, sa per istinto che l'unico male è nuocere agli altri, e che il significato della vita è l'amore.
Oggi lo dicono tutti. Oggi che la nave sta affondando, ci vogliono tutti ai posti di comando: la situazione è disperata, dicono, solo voi potete salvarci. E noi? Eccoci qua, pronte come sempre a venire in vostro soccorso, a rimediare gli irreparabili danni che avete combinato. Crocerossine nel tempo, a curare le ferite del corpo e dell'anima che voi stessi procurate, sotto le bombe che voi lanciate, rifugiate in ruderi che una volta erano le nostre case che voi avevate demolito, in città e campagne dove seminate distruzione e morte. Vi diamo la vita, vi accudiamo, vi immettiamo adulti nel mondo e voi, dopo averne combinate di tutti i colori, tornate a piangere dalla mamma. E noi sempre a dire di sì. E che altro fare, se vogliamo continuare a vivere? Sembra che lo vogliano proprio tutte, con le stesse motivazioni e gli stessi obiettivi: siamo più brave, più esperte, la cura degli altri e l'amore per la vita e per la bellezza sono il nostro pane, stanno nel nostro DNA, peccato l'abbiate capito così tardi!
Ma. Ma c'è un problema: si può portare un cambiamento dentro questo sistema con gli strumenti attualmente a disposizione nel mondo occidentale, quelli della democrazia parlamentare? 45 anni fa Valerie Solanas diceva che no, non è possibile. Oggi la poeta afroamericana Audre Lorde dice “Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”. Mi piace questa frase, perché dice pane al pane e vino al vino: siete e siete sempre stati i nostri padroni, non riuscite a fare a meno di esserlo, perfino voi che siete i nostri padri, i nostri fratelli, i nostri compagni, di viaggio e di vita; e quando non ci riuscite ci punite umiliandoci, costringendoci a negare il nostro valore, il nostro successo in cambio del vostro affetto e della vostra attenzione. (Chiedo scusa a quanti non si riconoscono in queste parole. Qualcuno si arrabbierà, ma la letteratura in sostegno alla mia affermazione è ampia e documentata; ho trovato particolarmente interessante Malamore, di Concita De Gregorio, Mondadori, 2008, dove si narra tra l'altro l'omicidio dell'attrice Marie Trintignant ad opera del suo compagno, anarchico, musicista trasgressivo amato dai giovani di sinistra).
Gli attrezzi del comando, si diceva, sono stati pensati e praticati per opprimere, umiliare, giustificare e perpetrare ingiustizie, quindi non vanno bene. Bisogna cambiarli.

Scindere la politica dai partiti

Simone Weil, nel suo Manifesto per la soppressione dei partiti politici (Castelvecchi 2008), afferma che “ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni, e il suo unico fine è la propria crescita”, e che “tutti i partiti sono ufficialmente costituiti per uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia”.
Anche per Hannah Arendt la politica va scissa dai partiti: essa non è governo o rappresentanza, rapporto tra governanti e governati, men che meno rapporto di dominio, ma lo spazio pubblico dello stare insieme in quanto uguali e diversi, dove sperimentare la possibilità di essere protagonisti e la felicità pubblica che deriva dall'agire con gli altri, lo spirito pubblico che fa sì che ogni individuo possa essere visto, approvato, considerato e rispettato da coloro con cui vive e che lo conoscono. All'interno di questo spazio la sovranità è limitata dalla dialettica delle relazioni tra i molti e l'unico, e dalla distanza che impedisce il dominio dell'uno sull'altro. (Vedi Che cos'è la politica?, Edizioni comunità 1997, e Sulla rivoluzione, Milano 1983).
La necessità della distanza è ribadita da Luce Irigaray, la teorica della differenza sessuale, per cui autonomia e limite, libertà e responsabilità vanno insieme in quella che Luce chiama “etica della libertà”; la sovranità non è mai assoluta ma è limitata dalle relazioni nelle quali siamo immersi. Ed è questa la conditio sine qua non di una vera democrazia. La novità introdotta da Luce è che alla base di ogni relazione umana, e dunque anche quella politica, c'è il rapporto uomo donna, dove solo il riconoscimento e l'accettazione della diversità dell'altro possono avviare un dialogo costruttivo, senza il quale non solo non c'è amore, non c'è proprio nessuna relazione (La democrazia comincia a due, Bollati Boringhieri 1994).
C'è in Valerie, Simone, Hannah e Luce una forte matrice antiautoritaria e libertaria, che esclude gli strumenti della democrazia occidentale, attrezzi non ossidati dal tempo e dal cattivo uso, ma intrinsecamente oppressivi e autoritari.
Un interessante contributo è venuto recentemente da Luisa Muraro con Dio è violent (Nottetempo 2012, recensito sul numero 375 della rivista), che ha scatenato un putiferio tra le femministe, in quanto punta il dito contro quello che sembrava un punto fermo inossidabile e inattaccabile: la non violenza come scelta nel cammino della propria liberazione: “Che la violenza sia un mezzo (della politica o della giustizia) che si può usare così o colà, pro o contro il sistema di potere, questa è una presunzione errata e deleteria. La violenza non è a nostra disposizione, piuttosto viceversa. Vedere nella violenza il manifestarsi di una potenza che gli umani non governano, per lo più cieca e distruttiva, che talvolta però, a sprazzi, prende senso e si impone in chi ha il senso della giustizia, diventando violenza giusta, questa è una veduta più profonda”. E, riferendosi alla distinzione tra potere e politica elaborata in un libro della comunità filosofica di Diotima pubblicato nel 2009, afferma: “Politica è guadagnare esistenza libera e benessere condivisi, sottraendoci, donne e uomini, con astuzia e ingegno, in caso combattendo, allo schiacciamento dei rapporti di forza. C'è politica quando c'è movimento libero dell'anima e dei corpi, dove prima c'era cieca sottomissione ai più forti e al caso”.

Breve excursus storico

L'ingresso delle donne nel mondo della politica è tutto sommato molto recente, se pensiamo che ancora nella seconda metà dell'800 si ragionava (si fa per dire!) se le donne avessero o meno l'anima.
In Italia la posizione della donna è sempre stata particolarmente difficile, diciamo pure umiliante: il fascismo la declassò a “fattrice”, sottomessa a tutti i maschi della famiglia in quanto priva di capacità e intelligenza. Durante la guerra le “fattrici stupide e inette” presero in mano la produzione e sostituirono gli uomini in tutte le mansioni civili, e fecero la loro parte anche durante la Resistenza, dimostrandosi determinate e coraggiose.
Si illusero con questo di essersi guadagnate la parità con gli uomini, ma restarono profondamente deluse: vuoi per il maschilismo trasversale a tutti i partiti, vuoi per le interferenze della chiesa, dovettero ricominciare tutto da capo. All'Assemblea Costituente erano 21 su 556 membri; al loro ingresso in aula furono accolte dai commenti pesanti e volgari dei loro colleghi maschi, ai quali una di loro ripose con un lapidario “Peggio di voi non potremo fare”.
Verso la fine degli anni '40 ci furono molti suicidi di donne che non sopportarono l'enorme passo indietro che fu tornare ad essere considerate inferiori e sottomesse ai maschi; ricordo che vigeva ancora il delitto d'onore, l'autorizzazione al marito di usare “mezzi di correzione” con le mogli, il carcere per la moglie adulterina, e molto altro ancora. Il tutto in un ambito in cui le donne tornavano ad essere “l'angelo del focolare”, sottopagate se lavoravano, escluse dalle cariche pubbliche, estromesse anche dal mondo della cultura, specie dagli incarichi più prestigiosi: insegnanti sì (è ancora considerato fare un po' le mamme), direttori di giornali o rettori universitari mai. Eppure continuarono a lottare, nelle campagne e nelle industrie tessili, dove la loro presenza era molto forte, e nel Parlamento, le pochissime che riuscirono ad essere elette, strappando faticosamente una parità che oggi, almeno sulla carta, esiste. Fondamentali furono anche le lotte dei lavoratori e degli studenti negli anni sessanta e settanta e, quando le questioni di genere irruppero con la loro urgenza spaccando in due i movimenti, quelle delle donne.
Se in passato può avere avuto qualche senso – almeno alla nascita della Repubblica, quando si nutrivano grandi speranze – praticare le strade della rappresentanza, soprattutto per le donne che ne erano state sempre escluse, oggi nessuno può più illudersi di cambiare le cose e di salvare il salvabile. Forse qualcosa si può fare nei comuni; a Milano la piccola rivoluzione yin della giunta Pisapia qualche buon risultato lo sta producendo; ma le decisioni fondamentali, quelle che determinano la nostra vita, si prendono altrove. E allora, come suggerisce Luisa Muraro, bisogna voltare le spalle a tutto questo, non nel senso della fuga, ma di volgersi ad altro. Pensiamo alle otto R per la decrescita suggerite da Serge Latouche, che sono un modo di aggirare il sistema vigente, contrapponendogli comportamenti e nuovi modi di autogovernarsi e sostenersi economicamente, che un po' per volta gli tolgano spazio. Pensiamo a Occupy Wall Street e movimenti analoghi, nati un po' ovunque con lo scopo di delegittimare il sistema finanziario.

Foto: Roberto Gimmi

Rivolgersi ad altro

Non è poi così improbabile che ci si riesca; in fondo il capitalismo, le banche, sono costruzioni umane e quindi soggette a decadenza e morte. Il fatto è che nelle sinistre c'è, oltre all'illusione di poter cambiare le cose dall'interno, una vocazione alla sconfitta, una lamentela poco costruttiva che induce a pensare che niente cambierà mai. Anche molte donne hanno una tendenza a lamentarsi; eppure hanno sempre fatto tutto bene: negli anni del femminismo hanno costruito case di accoglienza per le donne maltrattate, centri antiviolenza, consultori e asili autogestiti. E poi hanno studiato se stesse e la propria storia, fondando riviste, librerie, case editrici, università, elaborando un pensiero di grande valore e di contenuti nuovi. E, a detta degli stessi uomini, sono professionalmente più brave. E allora perché si devono prestare a rimediare ai danni combinati dagli altri, incorrendo tra l'altro in patologie quali la sindrome glass cliff (precipizio di cristallo), che affligge le donne manager chiamate a salvare le imprese quando ormai sono alla bancarotta, per salvare un sistema che, appena ripresosi, le butterà fuori a calci, come ha sempre fatto? C'è una frase molto bella di Clarice Lispector, che dice: “Il mondo è indipendente da me; questo non potere coincide con la liberazione e con la libera azione... puoi fare tutto, una volta che sai questo, sei libera di trasformare ciò che è dato in un nuovo provvisto di senso” (i corsivi sono miei; da La passione secondo GH, citato da Marina Terragni in Un gioco da ragazze. Come le donne rifaranno l'Italia. Rizzoli 2012).
Nel febbraio 2011 le donne sono scese in piazza in tutt'Italia con lo slogan Se non ora quando?, per riprendersi la propria dignità, calpestata e vilipesa da una classe dirigente che ha portato nel Parlamento e nelle Regioni signorine che di fatto si sono prostituite per accedere a cariche prestigiose e redditizie e ha ridotto la figura delle donne a poco più che bambole gonfiabili. Un bel passo indietro, ma anche una riscossa: alle successive elezioni amministrative si sono presentate in tante, e molte sono state elette. Mai avuto tanti sindaci donna, soprattutto della Lega Nord, il che sembra strano (rimando chi volesse approfondire all'inchiesta di Cristina Giudici Leghiste, Marsilio 2011, che riserva non poche sorprese). Trovo un po' preoccupante questa convergenza, anche se alla base ci sta una questione di genere che include tutte le donne. Mi sembra che questo voler entrare in massa nelle istituzioni e nei posti di comando non conservi nulla del pensiero femminile e femminista cui ho fatto un breve accenno sopra, e che la discriminante della cura e del fare le cose bene (comune anche a molti uomini, aliena a molte donne) non sia sufficiente a evitare il rischio di essere fagocitate e diventare oggetto dell'italico trasformismo: changer pour conserver. Staremo a vedere.

Sandra D'Alessandro