Rivista Anarchica Online


in direzione ostinata e contraria 7

Tirai una freccia al cielo per farlo respirare

Intervista a Paolo Solari
di Renzo Sabatini

Nel disco Fabrizio De Andrè (1981), meglio conosciuto come L'indiano, si intrecciano due fili conduttori: la Sardegna e i nativi americani.
A colloquio con uno studioso, appassionato di cultura indigena del Nord America.



Giornalista, esperto di storia americana, ricercatore, con una passione particolare per i popoli indigeni del Nord America. Da dove nasce questa passione?

Nasce dall'infanzia, da una scelta di simpatia verso quelli che una volta venivano chiamati “selvaggi”. E questa simpatia non mi ha mai lasciato, per cui ha costituito anche il bagaglio dei miei studi universitari, del mio lavoro di ricerca e dell'impegno sociale e anche culturale, attraverso un'associazione che si chiama Hunkapi1 e che pubblica una rivista dove io intervengo sia come storico che come redattore per la cronaca dei fatti più recenti. Questa cosa me la porterò dietro anche nella vecchiaia, sperando di continuare ad arricchirmi sempre di più con la cultura dei nativi americani.

Hunkapi è nata nel 1996 a Genova. Quali sono gli obiettivi e l'attività?

Genova è una città molto critica, nonostante possa vantare come cittadino (anche se a me non è molto simpatico) il presunto scopritore dell'America. L'associazione quindi è nata sull'onda di alcune iniziative molto critiche nei confronti delle celebrazioni del 1992, del cinquecentesimo anniversario della scoperta. È nata da semplici cittadini, da questa voglia di stare assieme e riscoprire la cultura e la storia dei nativi americani, proprio a partire da un humus cittadino molto ricco, tanto che al momento in cui si è deciso di costituire l'associazione c'erano già duecento iscritti. Oggi superiamo il migliaio di adesioni in tutta Italia e anche in Germania e Francia, abbiamo rapporti diretti con quasi tutte le nazioni di nativi americani e, oltre a raccontare la loro realtà, cerchiamo di sostenere concretamente la loro causa. Per esempio lavoriamo molto con le scuole, non solo di Genova: facciamo un lavoro immenso con le scuole per far conoscere ai bambini la realtà dei nativi americani.

Nel 1979 De André e Dori Ghezzi vengono rapiti in Sardegna e restano nelle mani dei sequestratori per quattro mesi. Da questa esperienza nasce l'album conosciuto come “L'indiano”, scritto con Massimo Bubola, in cui si parla di nativi americani e di sardi. Lei come ha reagito quando è stato pubblicato questo lavoro?

Ne sono rimasto entusiasta. Ho avuto la fortuna di essere in contatto con il gruppo di musicisti che avrebbero poi suonato nell'album, quindi sapevo già che Fabrizio voleva fare questo lavoro sui nativi americani e anche che voleva collegare la sua esperienza sarda, mettendo assieme queste culture. Mi ha particolarmente colpito la canzone Fiume Sand Creek, perché ricorda un massacro efferato2, un avvenimento tra i più tragici della storia dei nativi americani.

L'album affianca il popolo sardo ai nativi americani. La canzone d'avvio, Quello che non ho, evoca le grandi praterie ma, secondo il racconto dello stesso De André, rappresenta la psicologia dei pastori sardi che erano stati i suoi carcerieri. La canzone è un elenco di cose che il protagonista decisamente rifiuta della cultura arrogante del colonizzatore, dal conto in banca alle pistole. Lei pensa che qui il cantautore abbia colto bene il punto di vista dei nativi americani, la loro sensibilità? O rischiamo di trovarci nel campo dello stereotipo?

Sicuramente Fabrizio è riuscito a mettere assieme in una sola canzone alcune caratteristiche particolari, proprie dei nativi americani. Caratteristiche che però oggi ritroviamo soprattutto nei nativi che noi chiamiamo tradizionalisti, che non è un termine utilizzato in senso negativo. Definiamo tradizionalisti quelli che sono rimasti ancora oggi legati alle loro tradizioni e così conservano la storia e la cultura dei nativi americani.
Al giorno d'oggi però il quadro è complesso: le nazioni o alcune loro componenti sono molto diverse fra loro, alcune hanno quotazioni in borsa, altre sono molto povere. Ecco, forse quelle più povere sono quelle che sono rimaste più tradizionaliste e quindi sono più vicine al quadro tracciato da De André.

Manifesto della Festa Madre Terra
promossa annualmente da Hunkapi,
associazione culturale per la divulgazione
delle tradizioni dei Nativi Americani


Fu un generale di vent'anni...

Lei ha già citato Fiume Sand Creek, che senza dubbio è la canzone simbolo di questo lavoro ed è rimasta nelle scalette di tutti i concerti di De André. Personalmente la ritengo una canzone simbolo anche di tutte le violenze subite dai popoli indigeni non solo americani, tanto che la utilizziamo spesso, qui in Australia, per parlare dei massacri subiti dagli aborigeni. Parliamo allora di questa canzone, dal punto di vista di uno appassionato ed esperto della tematica come è lei.

Mi ha colpito subito e mi ha colpito anche il ritmo della musica così legata al testo, perché rende bene la sensazione di quei momenti tragici in cui è stato compiuto questo massacro, che è diventato uno dei simboli di tutti i massacri che hanno subito nella storia le nazioni americane e anche altri popoli, inclusi gli aborigeni australiani. Quello di Sand Creek è uno dei massacri più efferati della storia americana: donne e bambini vennero mutilati, parti di corpi vennero esposte e portate nei teatri come trofei.
La canzone ha questo ritmo tragico ma finisce comunque in una speranza, che è una speranza che dura ancora oggi, perché si parla di quelli che sono conosciuti come cheyenne, che oggi sono una nazione molto piccola e molto sofferente. Però è una nazione che non è ancora morta, che non si è arresa. È una di quelle che più di ogni altra sta lottando, per esempio per la conservazione della lingua. E questo secondo me è un bel paragone, se vogliamo tornare al confronto con la Sardegna, perché la Sardegna è uno dei posti dove si conserva meglio l'eredità culturale, anche attraverso la lingua.

Nel concerto del 1991 De André, presentando questa canzone, polemizzava con le celebrazioni del cinquecentenario della scoperta dell'America. Aveva proposto ai suoi concittadini di armare due caravelle per andare a chiedere scusa agli indiani e diceva che la sera del 12 ottobre 1992 sarebbe stato vicino a loro per ricordare quello che loro considerano il più grande lutto nazionale. Invitato alle “Colombiadi” assieme a Bob Dylan rifiutò di partecipare. Qual è stata la sua reazione?

Quando Fabrizio se n'è andato noi lo abbiamo salutato pubblicando sulla rivista un mio editoriale, nel quale abbiamo ricordato proprio questa cosa. Per noi, che eravamo contrari alle celebrazioni, quella sua presa di posizione è stata importante perché, poiché lui era un personaggio molto conosciuto, il fatto che avesse scelto di non celebrare ci diede un po' più di coraggio. E in effetti, poi, quelli che non hanno celebrato erano tanti, a Genova. Noi ritenemmo giusto che lui non celebrasse, così come non abbiamo celebrato noi. Perché, si può dire quel che si vuole sul presunto scopritore, ma loro, i nativi americani, giustamente non ritengono di essere stati scoperti da nessuno! Erano già lì, questa è una cosa evidente, e sicuramente per loro l'arrivo di Colombo è stato un giorno luttuoso ed era giusto chiedere scusa. Noi l'abbiamo fatto diverse volte, nei rituali, in tutti le celebrazioni, gli appuntamenti, i convegni, gli eventi, le manifestazioni che abbiamo fatto. E devo dire che – Fabrizio sarà stato contento di questo – quel giorno a Genova c'era più gente fuori a non celebrare che personaggi nel palazzo a celebrare, e questo nonostante una mezza alluvione. Con questo non intendo dire che a Genova non ci siano quelle persone, magari legate al business cittadino, che ritengono che sia giusto celebrare. Noi però abbiamo detto che non è giusto, perché si celebra così il più grande massacro della storia e perché Colombo sicuramente non è andato là per fare il bene dei nativi americani. Basti ricordare che i Taino, i primi che Colombo ha incontrato, sono estinti. E non erano una piccola etnia: erano centinaia di migliaia di persone!

Eh, già, Cristoforo Colombo: “chioma fluente, occhio sognante e piede sicuramente fetente”, così lo definiva De André nei concerti di quel tempo. Bruno Lauzi però ha polemizzato con questo atteggiamento di De André che vede Colombo come invasore di terre abitate da altri. Lauzi sosteneva invece che Colombo era un viaggiatore, un sognatore, e che le critiche fatte 500 anni dopo non tengono conto del contesto storico. Che ne pensa di questo “scontro” fra cantautori genovesi?

Io non vorrei polemizzare con Lauzi, ma penso che noi di Hunkapi abbiamo una migliore conoscenza storica. È vero che Colombo era un viaggiatore anche se sulle tre barchette che ha armato c'erano personaggi poco raccomandabili. Comunque non si può dire che sia andato a portare la civiltà. È andato là per prendere possesso di territori, qualunque essi fossero (perché lui pensava di essere arrivato nelle indie, questo lo sanno tutti, ed è per questo che i nativi sono stati chiamati indiani). Lauzi3 comunque non potrà negare che quello che è successo ai nativi americani dopo l'arrivo di Colombo è fondamentale e corrisponde ad avvenimenti storici importanti in Europa: la costituzione del Regno spagnolo, la cacciata dei mori e degli ebrei dalla Spagna. Insomma, bisognerebbe andarsi a rileggere nei documenti storici i veri motivi per cui questo personaggio è partito.

De Andrè: una sensibilità maggiore

Il tema dei selvaggi sanguinari da film di John Wayne nel 1980 era stato già superato da un pezzo. Film come Soldato Blu e Il piccolo grande uomo e libri come Seppellite il mio cuore a Wounded Knee avevano offerto un punto di vista nuovo. Pensa che il lavoro di De André abbia aggiunto qualcosa o tutto sommato questo album è arrivato un po' tardi?

Seppellite il mio cuore a Wounded Knee è stato il libro che ha consentito a una generazione di scoprire cosa è realmente accaduto ad alcune nazioni indigene del Nord America, soprattutto degli Stati Uniti. Quindi certamente rispetto al libro e anche rispetto ai due film Fabrizio De André arriva dopo. Però De André porta su questo tema una maturazione di comunicazione come solo lui sapeva fare. Anche rispetto alle immagini finali di Soldato Blu, orrende ma vere, o rispetto al libro, la poesia in note di De André ha dato un corpo maggiore, una maggiore sensibilità, una maggiore coscienza, maggiore opportunità e anche maggiore immediatezza. E c'è qualcuno, magari appartenente alla generazione successiva alla mia, che ha scoperto la storia dei nativi americani così.

Parlando di questo, Mariano Brustio, della Fondazione De André, ha scritto: “Fabrizio De André ha tentato di aprire la mente a qualcuno, lo ringrazio perché l'ha aperta anche a me”. Una canzone come Fiume Sand Creek potrebbe aver aperto la mente a qualcuno più di quanto poteva fare il libro di Dee Brown?

Qualche beneficio è arrivato anche alla nostra associazione, ma sono sicuro che proprio a livello di massa, come fenomeno generale, questa canzone ha avvicinato molta gente alla causa dei nativi americani. La stessa immagine scelta per la copertina dei disco4, i testi delle canzoni... sono sicuro che molti si sono avvicinati o riavvicinati allo studio delle culture native proprio grazie a questo disco, come per altre cose del lavoro di De André. Pensi al fatto che lui, dopo questo lavoro, ha riscoperto il genovese antico5: in molti qui a Genova, io per primo, abbiamo riscoperto la voglia di parlare nella nostra lingua nativa. Anche dalla nostra volontà di salvaguardare le culture dei nativi americani è nata la voglia di riscoprire le nostre radici e questo penso che sia in sintonia con il messaggio di Fabrizio.

Fiume Sand Creek, pur parlando di un terribile massacro, è delicata nella scelta dei termini, ricca di riferimenti poetici e immagini evocative. Crede che De André abbia volutamente utilizzato un linguaggio evocativo per avvicinarsi alla spiritualità dei nativi americani?

Sicuramente sì. La canzone, nel ritmo e nel testo, è molto evocativa della ritualità e della spiritualità dei nativi americani, basti pensare a quando ricorda il gioco delle frecce: una freccia verso al cielo, una freccia al vento... è molto spirituale.

Parlando di spiritualità, la vostra associazione è anche impegnata a diffondere la conoscenza della spiritualità dei nativi americani. De André affida la chiusura dell'album a una canzone come Verdi pascoli che si ispira a una danza rituale. I verdi pascoli ci appaiono come una sorta di Paradiso, un sogno di futura liberazione dall'oppressione e dall'annientamento.

È una canzone piena di speranza, come sono pieni di speranza anche i nativi americani, pur essendo la minoranza per eccellenza, soprattutto in Nord America (per l'America del Sud l'analisi è diversa). Può sembrare un'immagine un po' stereotipata, questa dei nativi che parlano sempre dei pascoli celesti, dei verdi pascoli, ma è sicuramente un'immagine che rappresenta la speranza, perché i nativi americani alcuni anni fa hanno avuto un rinascimento piuttosto consistente, paragonabile al nostro Rinascimento, e oggi certe cose non si possono più fare in Nord America. Non si può più dire che sono dei selvaggi, non si possono più dire certe cose o usare certe parole offensive.
Allora i verdi pascoli oggi non sono più quelli del nativo americano stereotipato, ma rappresentano una speranza legata a questo rinascimento che chiede il rispetto della cultura, che invoca una sopravvivenza anche fisica, che chiede il rispetto della lingua. Basti pensare che al confine con il Canada c'è una nazione composta oggi solo da 900 individui e una sola persona che ancora parla la lingua indigena di questo gruppo! Quando morirà questa persona, che oggi ha 89 anni, morirà quella lingua e morirà quella cultura.
Oggi allora la speranza dei verdi pascoli è questa: quella di riconquistare un'identità e di avere dei diritti sacrosanti. I nativi americani sanno di essere pochi, numericamente, quindi per esempio il loro peso elettorale è nullo. Però la speranza c'è.

Una spiritualità libertaria

Per completare il quadro spirituale, l'album contiene anche Se ti tagliassero a pezzetti, una canzone che, nelle parole di De André “è ispirata al tema della libertà che, minacciata dalla civiltà, sopravvive sempre nel cuore dell'uomo”. Un tema che era già caro al De André libertario e anarchico. Un indiano si sarebbe ritrovato in queste definizioni?

Ricordo che un paio di mesi dopo la morte di Fabrizio è venuto a Genova Gilbert Douville6, un amico Lakota che doveva tenere delle conferenze nelle scuole. In quella occasione gli abbiamo raccontato di Fabrizio, gli abbiamo fatto vedere le immagini del funerale con quella grande partecipazione di popolo, abbiamo provato a spiegargli chi era, raccontando proprio di questa spiritualità in senso libertario. Lui ha molto apprezzato. Non è stato semplice, perché bisogna tener conto che il nostro concetto di libertà non è facilmente comprensibile per loro. I nativi americani non hanno vissuto le esperienze della nostra società industriale, se non come vittime della conquista. Certo, capiscono la libertà suprema della poesia, ma sicuramente bisogna spiegarglielo cos'è un anarchico! Comunque Gilbert mostrò grande apprezzamento per Fabrizio.

La canzone si apre e si chiude con una strofa molto poetica, di quelle che, come si dice oggi spesso parlando di De André, “reggono il foglio” anche senza bisogno di spartito. Ci troviamo il vento, il regno dei ragni, la luna, i capelli, il viso, il polline di Dio e il suo sorriso. È tutta fantasia degli autori o lei ci riconosce anche uno studio accurato del modo di esprimersi dei nativi americani?

Io riconosco lo studio e so anche, da quello che si racconta nell'ambiente musicale genovese, che lui si era documentato molto, aveva fatto delle ricerche, voleva capire. Col suo spirito di poeta è andato a interpretare dei messaggi, delle parole che sicuramente fanno riferimento ai nativi americani, perché davvero i nativi americani hanno questo modo di esprimersi, spesso anche molto legato a simboli naturali o spirituali. Quindi le immagini della canzone le vedo tutte bene con riferimento ai nativi americani. Basti pensare al ragno: ci sono culture native che hanno proprio delle leggende legate ai ragni.

Queste canzoni potrebbero superare i confini della questione nordamericana e diventare simboli dell'oppressione di tutti i popoli indigeni? Abbiamo già detto che parlando dell'Australia ci viene spontaneo riferirci agli aborigeni.

Sicuramente sono canzoni simbolo, forse non tanto per gli indigeni stessi, quanto per noi europei, per spingerci a ricordare quelle culture, quelle popolazioni e quella volontà di continuare ad esistere nella loro diversità. Fabrizio dava dei messaggi forti, ma questi messaggi soprattutto dobbiamo recepirli noi, perché i popoli indigeni hanno già i loro messaggi. Ma le canzoni di De André possono servire a noi, per farci capire cosa abbiamo sbagliato nei confronti di queste popolazioni.

Ricordo di aver letto, qualche anno fa, su un giornale, che alcuni esponenti dei movimenti dei nativi americani avevano fatto dei complimenti a De André per questo disco. Però poi questo dato è scomparso dalle biografie dedicate al cantautore. Lei che si occupa di queste cose ha qualche elemento? Può confermare questo dato oppure è solo una mia allucinazione?

Posso confermarlo, ma solo a un livello molto generico: so che questa cosa è accaduta però, pur essendo un discreto ricercatore, che accumula molto materiale sui nativi americani, un riferimento scritto su questo non l'ho ancora trovato. Però so che c'erano state queste prese di posizione. Ma soprattutto posso dire che le abbiamo verificate direttamente noi, dopo la morte di De André. Prima ho citato Gilbert Douville, ma noi annoveriamo fra i nostri collaboratori anche altri nativi, di altre nazioni e a tutti abbiamo spiegato chi era Fabrizio De André e gli elogi ci sono stati, veramente, perché capiscono anche la spiritualità del messaggio e la volontà dell'autore. Capiscono che finalmente qualcuno, anche a questi livelli, si è accorto che i nativi americani esistono.

L'ultimo grande capo

Durante questa intervista l'ho sentita riferirsi sempre molto affettuosamente a De André, chiamandolo Fabrizio, quasi fosse un vecchio amico. Se lei avesse avuto la possibilità di conoscerlo, dopo Fiume Sand Creek, da appassionato e studioso dei nativi americani, cosa le sarebbe piaciuto dirgli?

In effetti io Fabrizio l'ho conosciuto, qualche anno prima di quel disco. Ero entrato in contatto con lui tramite il gruppo musicale con cui cantava all'epoca e quando l'ho incontrato era già una persona di grande spiritualità. Se lo avessi incontrato nuovamente dopo la pubblicazione del disco probabilmente gli avrei detto quello che ho scritto sulla nostra rivista, nell'editoriale dedicato al suo ricordo. L'editoriale s'intitolava: Oka Eja, che, in lingua Lakota, è una sorta di invito a continuare, anche se non c'è più. Si trattava di una incitazione per i giovani guerrieri, un invito ad andare avanti, a continuare comunque. Nell'editoriale io avevo citato anche una frase a cui tengo molto, una frase pronunciata da Alce Nero7, cugino di Cavallo Pazzo8 (dico Alce Nero e Cavallo Pazzo per chiarezza, ma in realtà noi ormai tendiamo a utilizzare i nomi veri e non questi nomi strani che hanno inventato i bianchi). Cavallo Pazzo è stato l'ultimo grande leader dei nativi americani, tanto grande che adesso gli stanno facendo il monumento più grande del mondo, una montagna intera! Si tratta di un progetto completamente autofinanziato. Quando Cavallo Pazzo è stato assassinato, Alce Nero ha pronunciato questa frase, che io ho voluto dedicare a Fabrizio: “non importa dove giace il suo corpo, ma dove vola il suo spirito, sarebbe bello stare”. Ecco, questo è proprio quello che pensiamo di Fabrizio.

Vuole concludere con una sua riflessione?

L'anno prossimo sembra che vogliano fare a Genova dei festeggiamenti per l'anniversario della nascita di Colombo. Anche in quella occasione inviteremo a non partecipare e a chiedere scusa ai nativi americani. L'ha fatto anche il Papa, l'ha fatto persino Clinton, potremmo farlo anche noi! Io sono contento di poter riaffermare oggi, da questi microfoni, che io non partecipo alle celebrazioni colombiane. Poi, guardi, sinceramente: c'è questa lotta con gli spagnoli per decidere se Colombo è nostro o è loro... ma se la Spagna lo vuole, che se lo tenga! Che senso ha andare a celebrare l'inizio del più grande massacro della storia? Parliamo piuttosto dei nativi, della loro storia, di quello di cui hanno bisogno oggi.

Renzo Sabatini

Note

  1. Per approfondimenti: www.hunkapi.it.
  2. Il 29 novembre 1864 la cavalleria americana attaccò in forze i cheyenne accampati sul fiume Sand Creek, nel Colorado, massacrando, torturando, e mutilando brutalmente oltre 160 persone inermi. I cheyenne avevano avuto rassicurazioni sulla propria incolumità dal comandante del vicino Fort Lyon, da cui partirono le truppe che compirono il massacro, al comando del colonnello Chivington. I guerrieri erano perciò partiti per la caccia, lasciando nell'accampamento solo vecchi, donne e bambini. Le inchieste che seguirono il brutale massacro, sebbene forti di molte testimonianze, non ebbero alcun esito. L'episodio è riportato ampiamente nella storiografia americana (si veda ad esempio: Dee Brown, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, USA, 1970).
  3. Bruno Lauzi (1937-2006) era vivente all'epoca dell'intervista.
  4. L'album, senza titolo, è stato popolarmente ribattezzato “L'indiano” proprio perché sulla copertina è rappresentato un quadro del pittore statunitense Frederic Remington (1861-1909) raffigurante un indiano a cavallo.
  5. Si riferisce al successivo album di De André, “Creuza de Ma”, scritto con Mauro Pagani, pubblicato nel 1984.
  6. Nato nel 1951, membro dei Lakota. Dopo aver conseguito una laurea in diritto penale ha fatto una scelta “tradizionalista”, dedicandosi all'artigianato, alla poesia e alla conservazione della cultura millenaria del suo popolo. I Lakota, sottogruppo dei Sioux Brulé, sono originari di quello che oggi è lo stato settentrionale USA del South Dakota.
  7. Black Elk o Alce Nero (1863-1950), sciamano della tribù Oglala, della famiglia dei Sioux-Lakota, ha raccontato la sua vita nel libro Black Elk Speaks (pubblicato in Italia con il titolo “Alce Nero parla”), divenuto un autentico caso editoriale, di fondamentale importanza anche per la conoscenza antropologica della cultura dei nativi americani.
  8. Crazy Horse o Cavallo Pazzo (1840-1877), guerriero Oglala, leader nella resistenza contro l'esercito americano, assassinato a Camp Robinson, Nebraska, dopo essersi arreso.

(intervista realizzata via telefono il 30 agosto 2005. Registrata presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: “In Direzione Ostinata e contraria”, dedicata ai personaggi delle canzoni di Fabrizio De André)

In direzione ostinata e contraria

Con questa intervista a Paolo Solari, prosegue la pubblicazione su “A” di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche realizzate da Renzo Sabatini e andate in onda in Australia nel programma “In direzione ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna della durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al cantautore genovese.

Se proponiamo questi testi, è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio e poste alla base di una riflessione critica sul mondo e sulla società, con quello sguardo profondo e illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con una profonda sensibilità libertaria e – scusate la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.

Precedenti interviste pubblicate: a Piero Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo (“A” 374, ottobre 2012), Santino “Alexian” Spinelli (“A” 375, novembre 2012).

la redazione di “A”