Rivista Anarchica Online


La svastica allo stadio 2

Ernest Erbstein, l'uomo che fece grande il Torino

di Giovanni A. Cerutti


Molti ricordano il Grande Torino; pochi la storia del suo allenatore Ernest Erbstein, ebreo ungherese, morto anche lui nel famoso incidente aereo di Superga. Calcio e politica si intrecciano nell'odissea sua e della sua famiglia attraverso l'Europa.

“Ernest” Erbstein
(Nagyvárad,13 maggio 1898 -
Superga,4 maggio 1949)




Bacigalupo; Ballarin, Maroso; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Chi non ha sentito almeno una volta nella vita scandire la formazione della formidabile squadra che aveva fatto sognare l'Italia che provava a lasciarsi alle spalle i disastri della guerra e del ventennio fascista? O narrare le gesta leggendarie di capitan Mazzola, quando rimboccandosi le maniche dava il via al “quarto d'ora granata”, che segnava la fine di ogni velleità di vittoria per qualsiasi avversario? E chi non conosce la vicenda della tragedia del 4 maggio 1949, quando l'aereo che riportava a casa la squadra granata da Lisbona si schiantò sul terrapieno della collina di Superga che sovrasta la città di Torino? Ma è ben difficile che abbiate sentito raccontare la storia dell'uomo che quella squadra guidò, dopo averla costruita pezzo per pezzo. E, soprattutto, che sappiate quanto quella storia si intrecciò
con la pagina più buia del Novecento europeo.
Ernest Erbstein era nato il 13 maggio 1898 a Nagyvárad, una cittadina dell'impero austroungarico che allora contava circa cinquantamila abitanti, e che oggi, con il nome di Oradea, fa parte della Romania, cui fu assegnata dal trattato di Trianon al termine della Prima guerra mondiale.
Quando Ernest aveva due anni, la sua famiglia si trasferì a Budapest, dove completò gli studi diplomandosi al Magyar Testnevelesi Foiskö, l'Accademia ungherese di educazione del corpo.
Nel 1915, all'età di diciassette anni, iniziò la carriera di calciatore nel B.A.K Budapest, dove restò fino al 1924. Per mantenersi, aveva parallelamente iniziato l'attività di agente di borsa. Nel 1924 trovò un ingaggio in Italia, nell'Olympia Fiume, che militava in Seconda divisione - equivalente grosso modo all'attuale Prima divisione della Legapro - e l'anno successivo passò al Vicenza, sempre nella stessa categoria. Quello stesso anno si era sposato con Jolanda Hunterer e nel 1926, a Budapest, nacque la loro prima figlia, Susanna. Nonostante la buona stagione al Vicenza, dove disputò ventotto partite realizzando due gol, la carriera professionistica stentava a decollare, tanto più che la Carta di Viareggio - come viene comunemente chiamato il documento con il quale, nel 1926, la Federazione Italiana Gioco Calcio dettò le linee attorno a cui vennero ristrutturati i campionati - aveva, tra le altre disposizioni, vietato l'ingaggio di calciatori stranieri a partire dal 1928 - dopo due anni di regime transitorio in cui sarebbe stato possibile tesserare due calciatori stranieri, ma farne giocare uno per volta - in ossequio alla politica nazionalista del regime fascista, che aveva appena consolidato il suo potere con le leggi fascistissime del 1925-1926. Il danno per le società fu enorme, considerando che nei campionati italiani militavano più di ottanta calciatori di nazionalità straniera, soprattutto austriaci e ungheresi. Fu allora che improvvisamente alla maggior parte dei campioni argentini e uruguagi - per usare la lezione di Brera - furono avventurosamente scovati nonni, o almeno bisnonni, italiani, dando il via a tortuose pratiche di naturalizzazione che portarono molti di loro a giocare addirittura in Nazionale. Il principio dello ius soli era al di là da venire; non restava, dunque, che darsi da fare sulle linee di successione del sangue. Erbstein fu così costretto a cercarsi un ingaggio negli Stati Uniti, nei Brooklyn Wanderers di proprietà di Nathan Agar, che all'inizio del secolo era stato tra i fondatori della United States Football Association. Dopo poco più di un anno, però, rientrò in Italia e pensò di combinare la sua passione per il calcio con i suoi studi, intraprendendo la carriera di allenatore.

Il calcio diventa un business

L'aspetto principale della Carta di Viareggio era stato quello di introdurre ufficialmente il professionismo, regolamentando una situazione che si era creata di fatto e che, nel vuoto normativo, aveva sollevato più di una polemica. La crescente popolarità del calcio ne stava facendo un centro di interessi economici. Le squadre delle grandi città strappavano i campioni alle squadre di provincia offrendo soldi alle società e stipendi ai calciatori, trasformando definitivamente un hobby in una professione ben remunerata - anche se i campioni di allora impallidirebbero di fronte agli stipendi che percepiscono oggi mediocri brocchetti che passano il tempo tra la panchina e la tribuna - e mettendo fine alla stagione romantica della squadra di calcio espressione della gioventù cittadina, con relativa identificazione. Da allora diventò anche molto difficile, per quelle squadre che sarebbero ben presto state definite “provinciali”, vincere il campionato. Paradigmatico in questo senso il caso di Virginio Rosetta, il terzino vercellese che a diciotto anni trascinò la Pro Vercelli vincitrice dei campionati 1920-21 e 1921-22, che nel 1923 passò alla Juventus di Edoardo Agnelli, per l'allora astronomica cifra di cinquantamila lire e, soprattutto, per il congruo stipendio che gli permetteva di non lavorare, mentre pare che alla Pro non esistessero neppure i premi partita, visto che ciò che contava era l'orgoglio di difendere i colori della squadra della propria città. Furono gli ultimi due scudetti di un club che ne vanta sette nel suo palmarès e che era riuscita, unica squadra dell'epoca, a non perdere contro il Liverpool nel corso della tournée italiana dei maestri inglesi. Era chiaro che gli investimenti massicci dei proprietari delle squadre - in larga parte industriali spinti dai gerarchi cittadini ad acquisire le società calcistiche per sfruttare la popolarità del calcio in termini di consenso al regime e, nel contempo, per costruire le proprie carriere personali - richiedessero di essere tutelati affidandole ad allenatori competenti e preparati. Anzi, anche se gli stipendi degli allenatori erano di molto inferiori a quelli dei grandi campioni, persino le squadre dilettantistiche iniziarono a investire i pochi soldi che avevano nell'ingaggio di allenatori che conoscessero decentemente i rudimenti del gioco.
La carriera di allenatore di Erbstein iniziò nella stagione 1928-29 nel Bari, che allora militava nella Divisione nazionale. Fu quello l'ultimo campionato della massima serie disputato con questa formula, prima dell'introduzione del girone unico. Quell'anno il Bari si piazzò tredicesimo nel girone A. La stagione successiva Erbstein si trasferì a Nocera, dove guidò la squadra locale a ottenere il quinto posto nel girone finale meridionale del campionato di Prima divisione - terzo livello del campionato di calcio dopo la riforma. Un risultato così entusiasmante che, nel dopoguerra, la città campana intitolò a Erbstein il viale attiguo allo stadio.
Nella stagione 1930-31 passò al Cagliari, che militava nello stesso campionato, ottenendo la promozione dopo aver vinto sia il girone F che il successivo girone finale del sud. La stagione seguente arrivò il tredicesimo posto nel campionato di serie B. Intanto, nel 1931, a Budapest, dove era rimasta la famiglia, era nata Martha, la seconda figlia.
La fama di Erbstein cominciò a crescere, tanto che nella stagione 1932-33 venne richiamato a Bari, ma questa volta in serie A, a sostituire Árpád Weisz, ritornato all'Inter. La stagione, però, cominciò male e dopo sette giornate Erbstein venne esonerato; il Bari retrocedette comunque, avendo ottenuto il diciassettesimo posto in classifica. Così, l'anno successivo, Erbstein tornò ad allenare in Prima divisione alla Lucchese, dove restò cinque anni affermandosi definitivamente come uno dei più capaci tecnici del calcio italiano. La Lucchese ottenne subito la promozione in serie B, vincendo sia il girone F che il girone finale C, in cui vinse tutte le partite. Dopo un settimo posto nel girone A nella stagione 1934-35, la stagione successiva Erbstein portò la Lucchese in serie A per la prima volta nella storia della squadra, vincendo davanti al Novara, anch'esso promosso, il primo campionato di serie B a girone unico. L'esordio nella massima divisione si concluse con uno strabiliante settimo posto, a pari merito con l'Ambrosiana, mentre il Novara retrocesse subito, nell'anno del secondo scudetto del Bologna di Weisz. La stagione seguente Erbstein ebbe problemi di salute, tanto che alla diciottesima giornata venne affiancato da Umberto Calligaris, il terzino della Juventus dei cinque scudetti e della Nazionale. La Lucchese concluse la stagione al quattordicesimo posto, l'ultimo utile per la salvezza.
Ma ormai Erbstein era universalmente riconosciuto come uno dei tecnici più preparati del campionato italiano e ricevette dal presidente Cuniberti l'offerta di trasferirsi al Torino. Dopo i secondi posti ottenuti nel 1907 e nel 1915, la squadra granata era emersa tra le protagoniste del calcio nazionale soltanto alla fine degli anni venti, quando era arrivato alla presidenza il conte Marone Cinzano, vincendo due scudetti consecutivi nelle stagioni 1926-27 e 1927-28 - anche se il primo venne revocato per una faccenda di corruzione mai veramente chiarita, che coinvolse il terzino della Juventus e della Nazionale Allemandi - e perdendo soltanto la finale della Divisione nazionale contro il Bologna la stagione successiva, grazie soprattutto al formidabile centravanti argentino - ma con nonni italiani... - Julio Libonatti e alle mezzeali Adolfo Baloncieri e Gino Rossetti. Dopo qualche anno di flessione era tornata a occupare le prime posizioni della classifica alla metà degli anni trenta, ottenendo due terzi posti nel 1935-36 e nel 1936-37. Per Erbstein si trattava, dunque, di un'occasione decisamente interessante per dare una svolta alla sua carriera, tuttavia esitò non poco ad accettare. A Lucca aveva trasferito definitivamente la sua famiglia, che si era ambientata molto bene, e le sue figlie avevano cominciato a frequentare la scuola, stringendo le prime amicizie. Ma l'entità della proposta economica di Cuniberti fu tale che Erbstein decise di firmare il contratto con la società granata.

Bruno Neri, mediano e partigiano

Erbstein si era portato dalla Lucchese il neocampione del mondo Aldo Olivieri, che aveva sostituito tra i pali della Nazionale Giampiero Combi, e aveva fatto debuttare la mezzala dei Balon Boys - come si chiamava allora la squadra cadetta del Torino - Raf Vallone. Aveva anche ritrovato il mediano Bruno Neri, tre presenze in Nazionale, che era passato dalla Lucchese al Torino l'anno prima. Nel 1931, quando militava nella Fiorentina, nel corso dell'inaugurazione dello stadio di Firenze - oggi intitolato ad Artemio Franchi - al “martire fascista” Giovanni Berta, Neri rifiutò, unico calciatore in campo, di fare il saluto romano. Vicino al gruppo popolare di Giovanni Gronchi, dopo l'armistizio Neri interruppe la carriera - dal 1941 era diventato allenatore alla guida del Faenza - per unirsi alle prime bande partigiane, fino a diventare vicecomandante del Battaglione Ravenna. Il 10 luglio del 1944 venne ucciso all'Eremo di Gamogna, sull'Appenino tosco-romagnolo, durante uno scontro a fuoco con reparti tedeschi.
L'inizio di campionato fu spumeggiante. Dopo aver battuto 5 a 1 la Lucchese a Torino, alla quarta giornata il Torino di Erbstein batté a Bologna la squadra di Weisz per 3 a 0, portandosi in testa alla classifica a pari punti con il sorprendente Liguria. Un pareggio in casa con la Lazio e una brutta sconfitta contro la Roma fermarono momentaneamente la corsa dei granata. Ma all'undicesima giornata, sconfiggendo in casa i campioni d'Italia dell'Ambrosiana per due a uno, il Torino tornò in testa alla classifica. È il 18 dicembre del 1938. La sera stessa Erbstein venne convocato in questura. È un cittadino straniero e dal suo nome si evince chiaramente la sua origine ebraica. Poco importa che non pratichi da tempo nessuna religione, pur avendo un profondo rispetto per la dimensione religiosa. E le sue figlie, pur essendo state battezzate, non potranno più frequentare la scuola. In forza delle disposizioni delle leggi razziali, come abbiamo visto (“A” 374), deve lasciare l'Italia e, di conseguenza, la panchina del Torino. Due mesi dopo Weisz, un altro allenatore è costretto ad abbandonare il campionato. Come nel caso di Weisz, nessuna reazione. L'allenatore rivelazione alla guida della capolista e il maestro vincitore di tre scudetti spariscono senza che nessuno senta la necessità di prendere pubblicamente la parola. Nessuna protesta, nessun rilievo, nessuna osservazione. Solo in un articolo di commento al campionato di qualche settimana dopo, Vittorio Pozzo, il commissario tecnico della Nazionale che seguiva le partite del Torino per il quotidiano torinese “La Stampa”, osservò che la squadra granata avrebbe dovuto lavorare ancora molto per tornare al gioco brillante che le aveva dato Erbstein. Certo, nessun riferimento al motivo che l'ha costretto a lasciare la guida della squadra, ma se non altro il nome di Erbstein viene evocato. Più dell'antisemitismo, che pure dimostrò di avere radici nella società italiana, fa riflettere oggi l'indifferenza con cui la maggior parte degli italiani assistette all'applicazione delle leggi razziali. Il regime dittatoriale non spiega tutto: emerge una desuetudine alla dimensione pubblica della vita associata da cui, forse, non ci siamo del tutto affrancati neppure oggi. Non si tratta solo di aver ignorato il destino degli altri, in questo caso chi viene definito ebreo, si tratta dell'assenza della consapevolezza della ferita che l'esclusione immotivata stava infliggendo all'idea stessa di convivenza umana. Vale la pena notare che il campionato 1938-39 si concluderà con la vittoria del Bologna con quarantadue punti e il secondo posto del Torino con trentotto punti. Di Weisz, come abbiamo visto, e di Erbstein, come vedremo, nessuno si ricordava già più.
Al Torino, però, cercarono, per quanto possibile, di restare al fianco di Erbstein e di aiutarlo a trovarsi una sistemazione. Tra i dirigenti della squadra granata, fu soprattutto Ferruccio Novo a comprendere il valore di Erbstein. I due strinsero un intenso rapporto di collaborazione, che si rafforzò dopo che Novo assunse la presidenza del Torino al termine del campionato 1938-39, e che sarà la base sulla quale verrà costruito lo squadrone che dominerà il calcio italiano nell'immediato dopoguerra.

Fermati alla frontiera

Quando Erbstein capì che non c'era alcuna possibilità di sfuggire alle disposizioni previste dalle leggi razziali, prese contatti con un suo vecchio amico, Ferenc Molnar, che già quindici anni prima gli aveva procurato l'ingaggio all'Olympia Fiume, che si trovava a Rotterdam, dove allenava il Feyenoord. Molnar era ben conosciuto nell'ambiente, avendo militato a lungo nel campionato italiano sia come calciatore che come allenatore. Con l'aiuto di Molnar, Erbstein riuscì ad accordarsi con la squadra olandese, proponendo al Torino di ingaggiare al suo posto il collega che gli aveva ceduto il posto. Il Torino accettò, soprattutto per permettergli di trovare una sistemazione.
Molnar venne presentato alla squadra il 4 febbraio del 1939; Erbstein, invece, non arrivò mai a Rotterdam. Partito in treno con la famiglia da Torino, venne fermato in territorio tedesco alla frontiera tra la Germania e l'Olanda, probabilmente a Kleve, dalle autorità naziste. Era in possesso di un visto rilasciato dal consolato olandese e aveva con sé il contratto firmato con il Feyenoord, ma non ci fu nulla da fare. Intervenne il console ungherese in Germania; furono presi contatti con il consolato olandese di Torino, che inviò un nuovo visto, ma alla famiglia Erbstein non fu permesso di entrare in Olanda. Il soggiorno in Germania si protrasse, così, per alcune settimane, ma per l'ebreo Erbstein nessun albergo aveva una stanza. Non riuscì nemmeno ad affittare una casa e dovette cercare una famiglia ebrea disposta a ospitarlo. Del resto nella Germania del 1939 non era difficile capire dove abitavano le famiglie ebree: bastava cercare le stelle gialle sulle porte.
Alla fine Erbstein dovette rinunciare al Feyenoord. L'unica possibilità che gli rimaneva era di tornare a Budapest, dove aveva ancora i genitori e gli zii, ma dove avrebbe dovuto inventarsi un lavoro e fronteggiare l'inasprimento del tradizionale antisemitismo che aveva caratterizzato il regime di Horty, che la contrastata alleanza con la Germania nazista stava scatenando. Il problema del lavoro fu risolto grazie all'aiuto del Torino. Novo gli procurò la rappresentanza di alcune ditte tessili del biellese, attività che gli permise, tra l'altro, di recarsi in Italia più di una volta, verosimilmente fino all'armistizio dell'8 settembre 1943, sottoponendosi a incredibili rischi nell'attraversare l'Europa occupata dall'esercito tedesco. Erbstein divenne il consigliere principale di Novo, che stava costruendo quello che sarebbe presto diventato il Grande Torino. Dopo il secondo posto nel campionato 1941-42 dietro alla Roma, il primo scudetto arrivò nel campionato 1942-43, l'ultimo disputato prima della sospensione bellica, dopo che Erbstein aveva consigliato a Novo l'acquisto delle mezzeali del Venezia Ezio Loik e Valentino Mazzola e del mediano della Triestina Giuseppe Grezar.
Quanto all'antisemitismo, il clima stava diventando così pesante che Erbstein pensò prudentemente di cambiare il suo cognome in Egri, un nome molto diffuso in Ungheria e che non tradiva le sue origini ebraiche. Da qui la confusione che qualche volta si crea sul nome di Erbstein. Ma l'accorgimento servì a poco quando l'Ungheria venne invasa dalle truppe tedesche il 18 marzo del 1944.

Erbstein (il primo a destra) e
il Grande Torino nel 1949

Il regime di Horty e leggi razziali

Gli ebrei ungheresi avevano ottenuto la parità civile e politica fin dal 1867, con la nascita della monarchia austro-ungarica, e la parità religiosa nel 1895. Tuttavia, dopo la disgregazione dell'Impero al termine della Prima guerra mondiale, la questione ebraica divenne uno degli argomenti centrali del dibattito pubblico del nuovo stato e forti correnti antisemite si affermarono all'interno della società ungherese. L'omogeneità etnica che si era determinata all'interno dei nuovi confini rendeva inutile la ricerca dell'alleanza del gruppo ebraico, che invece era risultata strategica nel mantenere la rilevanza dell'elemento ungherese nel mosaico multinazionale dell'Impero. Anzi, dopo il fallimento della rivoluzione democratica del 1918, interrotta dalla dittatura comunista di Bela Kun, e la successiva nomina dell'ammiraglio Horty a reggente dell'Assemblea nazionale dopo il suo ingresso a Budapest alla testa dell'“esercito nazionale”, l'ideologia cristiano-nazionale del nuovo regime - che rimase uno stato parlamentare, anche se non certo liberale, in cui il partito unico di governo era diviso al suo interno tra un'ala ultraconservatrice e un'ala propriamente fascista, che non fu mai maggioritaria - aveva tra i suoi fondamenti un naturale antisemitismo. Tanto che nel 1920 l'Ungheria fu il primo paese europeo nel corso del Novecento a introdurre una legge antiebraica, detta del “numerus clausus”, che limitava l'accesso degli studenti di origine ebraica agli istituti di istruzione superiore.
Dopo l'avvento al potere di Hitler in Germania nel 1933, l'Ungheria entrò nell'orbita di influenza tedesca, non tanto per motivi di affinità ideologica, quanto per logiche di politica estera. Punto centrale della politica del regime di Horty, anzi si può dire motivo principale della sua esistenza, era la revisione dei trattati di Trianon, per recuperare tutti i territori all'interno dei quali vivevano gruppi di etnia ungherese, o supposta tale. È un classico esempio del tarlo che il principio di nazionalità di Wilson, così nobile nelle intenzioni, inserì nella politica europea del primo dopoguerra, rendendo ingovernabile l'area dei Balcani. E sulla scena europea il regime di Hitler si presentò come la giovane potenza decisa a mettere in discussione l'ingiusto dominio delle nazioni decadenti sancito a Versailles e a Trianon da trattati di pace illegittimi. L'alleanza con la Germania venne formalizzata dall'adesione dell'Ungheria al patto anti-comintern il 13 gennaio 1939 e al patto dell'asse il 20 novembre 1940. Ma già prima di allora l'Ungheria aveva beneficiato di ampliamenti territoriali dopo tutte le prove di forza che avevano caratterizzato la politica estera del regime hitleriano sul finire degli anni trenta, a cominciare dal patto di Monaco. Il 27 giugno del 1941, l'Ungheria affiancò le potenze dell'asse, dichiarando guerra all'Unione Sovietica. Ma l'andamento del conflitto bellico indusse Horty a prendere contatti con l'Inghilterra nel settembre del 1943 per trattare un armistizio. Di conseguenza, il 18 marzo 1944 Hitler invase l'Ungheria per dettare a Horty, che restò formalmente al potere, le linee di politica interna da seguire. Tra i primi provvedimenti presi, la deportazione degli ebrei ungheresi. D'altra parte le due leggi antiebraiche approvate dal parlamento ungherese il 29 maggio 1938 e il 5 maggio 1939 avevano già introdotto restrizioni sempre più soffocanti. Avevano anche aperto una linea di conflitto all'interno delle comunità ebraiche. Le due leggi, infatti, definivano l'appartenenza alla comunità ebraica su base religiosa e non razziale, suggerendo, implicitamente, che chi si fosse fatto battezzare non sarebbe incorso nelle disposizioni introdotte. Paradossalmente, questa concezione meno fanatica di quella nazista finiva per porre dilemmi in cui scelte personali e lealtà collettive venivano sollecitate oltre misura. Nel mese di luglio, però, indotto dalle pressioni di Roosevelt, che minacciò di penalizzare duramente l'Ungheria nel trattato di pace, e dal re della neutrale Svezia Gustavo, Horty fermò le deportazioni dei cittadini ebrei, procedendo nel contempo a un rimpasto di governo. E il 15 ottobre 1944 concluse un armistizio con l'Unione Sovietica. A quel punto, Hitler procedette all'occupazione militare anche di Budapest, arrestando Horty e affidando la gestione del governo al leader delle Croci frecciate Ferenc Szálasi. Era la logica fine di una politica velleitaria e presuntuosa, che pensava di utilizzare il revanscismo nazista per i propri fini senza pagare dazio. È anche la dimostrazione di quanto la cifra fondamentale del Novecento sia stata la dismisura: nell'età dei totalitarismi - L'ère des tyrannies di Élie Halévy - non era possibile pensare di intraprendere una politica senza arrivare alle conseguenze finali. La discriminazione portava direttamente all'annientamento; pensare di evitare le deportazioni dopo aver discriminato sulla base degli stessi argomenti si era rivelata una tragica illusione. Se non altro oggi dovrebbe esserci chiaro che certe chine non vanno mai, per nessuna ragione, nemmeno imboccate.
Con l'invasione tedesca di Budapest, il precario equilibrio che Erbstein era riuscito a mantenere per sé e per la sua famiglia venne drammaticamente infranto. La decisione di far battezzare le sue figlie in ossequio alla tradizione del paese che lo ospitava le aveva poste al riparo dalla politica antisemita del regime di Horty e anche lui era riuscito a barcamenarsi tra le misure introdotte dalla legislazione antiebraica. Ma con l'avvento al potere di Szálasi, che il regime di Horty aveva imprigionato più di una volta, si scatenò in Ungheria la caccia all'ebreo, con massacri e uccisioni indiscriminate, che aprirono un conflitto nientemeno che con Himmler, che non gradiva questi atti sconsiderati senza metodo e cercò di riportare l'annientamento degli ebrei all'interno della ordinata logica pianificata insieme a Eichmann. I sovietici erano ormai alle porte, ma riusciranno a prendere il controllo di Budapest soltanto l'11 febbraio 1945.

Fu Susanna a intercettare la notizia...

Furono quattro mesi infernali. Dopo la prima invasione tedesca nel marzo del 1944, Erbstein era stato internato in un campo in territorio ungherese, i cui prigionieri erano utilizzati per la costruzione di strade e ferrovie o per rimuovere macerie e scavare fortificazioni. Sfuggì, così, alla prima ondata di deportazioni, molto probabilmente perché venne giudicato adatto a essere utilizzato per le esigenze belliche del Reich. La figlia Susanna, diciottenne, riuscì invece, grazie ai contatti che aveva mantenuto con gli ambienti cattolici, a riparare in un pensionato per ragazze cattoliche di origine ebraica, che il sacerdote padre Klinda era riuscito a organizzare alla periferia di Budapest, ottenendo l'autorizzazione a produrre divise per l'esercito ungherese e ponendolo, tramite l'intervento del nunzio vaticano a Budapest monsignor Angelo Rotta, sotto la protezione dello Stato Pontificio. Dopo poco tempo, Susanna ottenne che fosse accolta nel pensionato anche la madre, per svolgere le funzioni di cuoca, e con lei la sorella tredicenne. Ma dopo l'invasione nazista di Budapest la situazione precipitò. Una domenica di autunno, il pensionato di padre Klinda venne assaltato da un reparto di Croci frecciate. Le ragazze furono costrette a uscire dalla villa. Ma mentre stavano marciando, la colonna fu intercettata da un reparto dell'esercito regolare che intimò ai miliziani di liberare le ragazze, che furono ricondotte al pensionato. Susanna e la madre decisero di fuggire quella notte stessa, riuscendo a raggiungere Pest, dove abitava la sorella di Jolanda, che riuscì a procurare alle tre donne dei documenti falsi, da cui risultavano sfollate da una città già occupata dalle truppe russe. Poterono, così, essere registrate come regolari inquiline. Con questi documenti, Susanna poté anche presentarsi a un centro di addestramento di primo soccorso, ottenendo il brevetto di crocerossina, in virtù del quale fu dotata di una tessera che la autorizzava a circolare anche dopo il coprifuoco. Anche Erbstein riuscì a fuggire dal campo di lavoro in cui era internato e a raggiungere il resto della famiglia. Ma per lui non fu più possibile ottenere documenti falsi e dovette nascondersi nelle cantine dello stabile in cui abitava la cognata. Il 20 dicembre cominciò l'assedio finale di Budapest da parte delle forze alleate. Ma anche sotto i colpi dell'artiglieria e dell'aviazione sovietica, le Croci frecciate continuarono senza sosta la loro fanatica caccia agli ebrei. Che arrivò fino alle cantine del palazzo dove si era rifugiato Erbstein. Fu Susanna, mentre stava prestando le proprie cure a un'inquilina del palazzo, a intercettare appena in tempo la notizia e a decidere su due piedi di attraversare la città per mettere il padre sotto la protezione di Raul Wallenberg, un funzionario della legazione svedese, incaricato dal War Refugee Board, fondato dal presidente Roosevelt, di impedire per quanto possibile la deportazione degli ebrei ungheresi. Wallenberg venne poi arrestato dai soldati sovietici il 16 gennaio 1945, subito dopo l'ingresso a Budapest, e ancora oggi non si conosce con esattezza la sua sorte. Indossata la divisa della Croce Rossa e munita del suo lasciapassare, Susanna si caricò sulle spalle il padre, che strascicava i piedi fingendosi ferito, riuscendo a giungere a destinazione dopo alcune ore. Quindi tornò a casa, dove il giorno dopo avvenne effettivamente la perquisizione alla ricerca di ebrei nascosti. Ne vennero trovati tre, due anziani coniugi e un uomo, che furono immediatamente uccisi nel cortile.
Liberata Budapest, Erbstein poté lasciare lo stabile posto sotto la protezione svedese dove era stato sistemato da Wallenberg e tornare a casa, riunendo finalmente la sua famiglia. Non appena fu terminata la guerra, si ristabilirono i contatti con Ferruccio Novo, che gli propose subito di tornare a Torino per riprendere la guida della squadra. Dopo due stagioni di interruzione, il 14 ottobre 1945 sarebbe ripreso il campionato di serie A, ripristinando l'antica formula della Divisione nazionale - Campionato Alta Italia e Campionato misto Bassa Italia, più un girone finale nazionale - in un paese ferito dalla guerra, in cui era ancora molto difficile spostarsi. Il Torino si apprestava a partecipare con lo scudetto sulla maglia, avendo vinto l'ultimo campionato disputato nel 1942-43.

Quattro campionati e molti record imbattuti

Cominciò così la straordinaria avventura del Grande Torino. Le leggi razziali erano state abrogate sul territorio italiano dal governo militare alleato il 12 luglio del 1943, due giorni dopo lo sbarco in Sicilia. Il decreto diventò una delle condizioni poste dall'armistizio e venne applicato man mano che procedeva la liberazione delle provincie italiane. Il primo documento del Regno d'Italia che recepisce la condizione armistiziale è datato 12 settembre 1943. Così, l'ebreo ungherese Erbstein può ristabilirsi in Italia; anzi può tornare a essere semplicemente un cittadino straniero che ha scelto di vivere e lavorare in Italia. Anche se nessuno può restituirgli gli anni che ha perso. Come sarebbe stata la sua carriera se non avesse dovuto abbandonare l'Italia nel 1938? Erbstein prova a lasciarsi alle spalle il passato, cominciando da subito a mettere mano alla squadra, che acquistò il suo volto definitivo con l'arrivo di Bacigalupo dal Savona, Ballarin dalla Triestina, Castigliano dallo Spezia e con il rientro dal prestito all'Alessandria del ventenne terzino Virgilio Maroso. Attorno alla straordinaria classe di Valentino Mazzola, l'operaio dell'Alfa Romeo che aveva scovato a Venezia, Erbstein sviluppò un'idea di calcio che avrebbe trovato un erede soltanto trent'anni dopo nell'Ajax di Johan Crujff. La sua versione del sistema WM era spiccatamente offensiva, costruita su una avanzata preparazione fisica, che prevedeva allenamenti differenziati per ogni ruolo e diete specifiche per ogni giocatore, su un costante sviluppo del bagaglio tecnico, che prevedeva raffinati esercizi con il pallone, e su un attento studio dei movimenti in campo dei giocatori, che prevedeva almeno un'ora alla settimana di lezione alla lavagna. Ma tutti quelli che hanno visto giocare quel Torino concordano nel ritenere che il suo vero punto di forza era l'affiatamento che legava i giocatori, anche fuori dal campo di gioco, affiatamento che nasceva intorno alle qualità umane di Erbstein. Tra i suoi libri più cari c'era l'Homo ludens dello storico olandese Johan Huizinga, pubblicato in lingua tedesca ad Amsterdam nel 1939 e tradotto in italiano nel 1946 da Einaudi, in cui l'autore dell'Autunno del Medioevo e della Crisi della civiltà, analizza per la prima volta il gioco come fenomeno culturale. Huizinga era stato poi arrestato nel 1942 dalla Gestapo dopo aver tenuto un discorso all'università di Leiden - dove era titolare del corso di Storia generale - in cui criticava pesantemente il regime di occupazione nazista e recluso nel villaggio di De Steeg, vicino ad Arnhem, dove morì il primo febbraio del 1945.
Nei quattro campionati che disputò, il Torino di Erbstein stabilì ogni tipo di record, alcuni dei quali ancora oggi imbattuti, diventando una delle squadre più famose e più richieste d'Europa. Fino a quel 4 maggio 1949, quando l'aereo che riportava a casa i granata da Lisbona - dove avevano giocato per celebrare l'addio al calcio di Francisco Ferreira, capitano del Benfica e grande amico di Mazzola - si schiantò contro il terrapieno su cui sorge la basilica di Superga. Ernest Erbstein era naturalmente tra i suoi ragazzi. Avrebbe compiuto cinquantuno anni dieci giorni dopo.

Giovanni A. Cerutti

Per saperne di più

Le vicende principali della vita di Ernest Erbstein sono state raccontate da Leoncarlo Settimelli in L'allenatore errante. Storia dell'uomo che fece vincere cinque scudetti al Grande Torino, Zona, Civitella in Val di Chiana 2006. La ricostruzione si basa fondamentalmente sulla testimonianza della figlia di Erbstein, Susanna Egri. Susanna Egri è stata ballerina classica e coreografa di fama internazionale e ancora oggi dirige una rinomata scuola di danza a Torino.
Le caratteristiche del regime di Horty sono state analizzate da J. Erös nel volume Il fascismo in Europa, a cura di S. J. Woolf, Laterza, Roma-Bari 1968.
La posizione degli ebrei ungheresi durante la seconda guerra mondiale è riassunta nella voce Ungheria redatta da Asher Cohen nel Dizionario dell'Olocausto, a cura di Walter Laqueur, Einaudi, Torino 2004.
Per la storia della popolazione ebraica in Ungheria, il riferimento è ai lavori di Claudia Kocsisné Farkas (Senza leggi. La situazione degli ebrei in Ungheria 1922-1944, 2010).
Sul ruolo di Raul Wallenberg nel salvataggio degli ebrei ungheresi e sulla sua misteriosa fine il riferimento è alla voce redatta da Charles Fenyvesi nel Dizionario dell'Olocausto.
Le notizie sulle leggi razziali sono tratte da Michele Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Einaudi, Torino 2002.

La svastica allo stadio

Il precedente contributo di questa serie di articoli di Giovanni A. Cerutti, dedicato all'allenatore Árpád Weisz, è apparso sul numero 374 di “A” (ottobre 2012) con il titolo “Árpárd Weisz, un maestro del calcio europeo inghiottito nel nulla”.