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  Antispecismo/non 
                  ho soluzioni prestabilite 
 Gentile Redazione,
 mi inserisco nel dibattito sollevato dall'intervento 
                  di Andrea Papi sul n° 368 (febbraio 2012), che, prendendo 
                  le mosse dal dossier vegano di Troglodita Tribe, aderisce esplicitamente 
                  a una visione critica circa il modello antropocentrico, critica 
                  che ha tra i suoi corollari il rifiuto di ogni forma di discriminazione, 
                  compresa quella nei confronti delle altre specie animali, nonché 
                  dei vegetali e del cosmo tutto.
 Condivido pienamente l'impostazione del suo ragionamento che 
                  vede l'antispecismo come un elemento essenziale, ovvio del pensiero 
                  anarchico, essendo questo la forma più avanzata e coerente 
                  di riflessione e lotta contro ogni forma di dominio e discriminazione.
 A proposito della questione circa l'atteggiamento verso i comportamenti 
                  specisti, come il mangiare carne, praticare vivisezione, vestirsi 
                  di spoglie di animali, ecc. e il rispetto dei tempi di maturazione 
                  delle singole concrete persone che si riconoscono nel movimento 
                  anarchico, penso che ogni libertario antispecista abbia tutta 
                  la pazienza e la delicatezza del mondo, perché sa che 
                  ogni individuo può cominciare ad ascoltare e vedere la 
                  sofferenza subita dagli altri chiunque essi siano e a comportarsi 
                  in modo da evitare di infliggere questa sofferenza; tuttavia 
                  mi permetto di evidenziare anch'io che il punto non è 
                  questo.
 La questione fondamentale è che, di fatto, mentre noi 
                  dibattiamo e discutiamo, miliardi di persone non umane, oltre 
                  che umane, vengono quotidianamente massacrate o sfruttate dagli 
                  umani. Sono persone che in questo momento storico, a differenza 
                  di altri, non così lontani, non hanno la forza di liberarsi 
                  da soli da questo giogo, non per inferiorità, che non 
                  esiste, essendo solo un portato dell'ideologia verticista del 
                  dominio, ma per una diversità che non conosce le possibilità 
                  di violenza e sopraffazione della nostra specie.
 Pongo la questione in termini problematici, non ho soluzioni 
                  prestabilite, ma mi chiedo quale sia il confine che non è 
                  lecito oltrepassare per non turbare le convinzioni di chi si 
                  muove anche in un'ottica di violenza antropocentrica e specista.
 Penso per esempio alle critiche che ha ricevuto il fumetto 
                  pubblicato sul n° 365 della Rivista, che, come riportato 
                  dalla Redazione, è stato giudicato da molti offensivo 
                  e insolente.
 Ma guarda caso questa insofferenza e disagio sono proprio la 
                  misura dell'arroccamento antropocentrico che non consente di 
                  guardare e riconoscersi nell'occhio o nella presenza dell'altro, 
                  qualunque forma abbia, di riconoscere l'altro da sé, 
                  come essere dotato di dignità propria e unicità 
                  a prescindere dalle classificazioni che possiamo permetterci 
                  di imporre solo grazie alla nostra violenza.
 Come scrive Papi questo sguardo allargato è la strada 
                  per non riproporre nuove forme di dominio e discriminazione 
                  anche intraspecifiche e questo è il grande contributo 
                  teorico che l'antispecismo può portare al pensiero anarchico 
                  e di conseguenza alle prassi del movimento.
 Ancora è da ricordare, benché già scritto 
                  e noto, che, per esempio, la parola capitalismo deriva da capita, 
                  quantità di bestiame posseduto, prima forma storica di 
                  accumulo, primo sfruttamento su larga scala che ha inaugurato 
                  tutti gli altri, anche intraspecifici, oltre alla categoria 
                  mentale dell'organizzazione sociale verticale, all'ideologia 
                  del dominio degli umani su tutto il cosmo, ideologia rilanciata 
                  e amplificata dalle religioni.
 Sono solo accenni rispetto a tematiche allo stesso tempo complesse 
                  e semplici, a dati, riflessioni e istanze che comportano una 
                  profonda rivoluzione antropologica, che scardinano millenni 
                  di cultura e visione di sé, che sgretolano il piedistallo 
                  su cui gli umani si sono collocati e quindi le difficoltà 
                  sono comprensibili perché, come giustamente è 
                  stato detto, salvo eccezioni ora sempre più frequenti, 
                  quasi tutti gli antispecisti “occidentali” sono 
                  nati e cresciuti in ambiente carnivoro e antropocentrico. Tuttavia 
                  individui che nei momenti e modi più diversi hanno cominciato 
                  a portare avanti un cambiamento rivolto in primo luogo verso 
                  se stessi, in una dinamica di liberazione esistenziale e mentale 
                  mai conclusa, per arrivare a percepirsi sempre più in 
                  maniera orizzontale, parti di qualcosa di più ampio, 
                  gruppi viventi accanto ad altri, abitanti tutti dello stesso 
                  pianeta.
 Con questo intervento rivolgo anche un invito alla Redazione, 
                  che ha voluto esplicitamente prendere le distanze dalle riflessioni 
                  che vedono l'antispecismo parte essenziale e ovvia del pensiero 
                  anarchico (“A” 
                  364 e altri), ribadendo che la rivista non è vegana 
                  e che sia coerente essere anarchici e non antispecisti, a esporre 
                  anche le ragioni di questa presa di posizione, nel solco di 
                  quella predisposizione al confronto che è parte essenziale 
                  del movimento.
 Comunque sappiamo tutti che “A” non è una 
                  rivista vegana e inoltre che non esistono patenti per un anarchismo 
                  più coerente. La storia e l'attualità del movimento 
                  parlano di una varietà di posizioni enorme tanto che 
                  spesso si afferma che ci sono tanti anarchismi, quanti sono 
                  gli anarchici, ma questa è, a mio modesto parere, anche 
                  una delle sue forze più rilevanti, perché è 
                  una realtà che rispecchia la stessa multimorfimità 
                  caotica della vita.
 Ma il punto è, lo ribadisco, un altro cioè capire 
                  i motivi per cui si ritiene che l'antispecismo non sia strutturale 
                  al pensiero anarchico. Questa sarebbe la vera apertura verso 
                  un pensiero diverso, la relazione, la dialettica e non solo 
                  la pubblicazione degli interventi da cui poi si prendono le 
                  distanze senza condividere le proprie riflessioni.
 Magari, e l'invito è rivolto a tutte le persone concrete 
                  che fanno parte del movimento, si potrebbe cominciare a dialogare 
                  in merito ai dati circa l'impatto ecologico e sociale del consumo 
                  occidentale di carne, dati che non ripeto, essendo stati già 
                  ampiamente pubblicati, ma che si possono riassumere in gas serra, 
                  deforestazione, inquinamento delle falde, predazione delle terre 
                  alle comunità locali e delle risorse agricole per esempio 
                  africane o brasiliane dirottate nei nostri allevamenti intensivi, 
                  ecc.
 Incominciamo dai dati numerici e poi finalmente leggeremo anche 
                  le riflessioni sulle posizioni politiche ed etiche dell'antispecismo 
                  e la spiegazione per cui questo pensiero non sia strutturale 
                  rispetto a quello anarchico.
 In conclusione mi associo all'invito rivolto da Papi agli antispecisti 
                  a continuare a rivolgere in primo luogo a se stessi la critica 
                  quale segno di “determinazione a oltranza nel combattere 
                  male e ingiustizia” e inoltre, come avevo già scritto, 
                  a essere meno timidi all'interno dei movimenti, a far esplodere 
                  le contraddizioni, a citare i dati, le conseguenze dei comportamenti 
                  di violenza specista, anche se ciò comporta fatica, incomprensioni, 
                  isolamento, un andare controcorrente laddove si è già 
                  controcorrente, lungo i percorsi impervi della lotta e dell'energia 
                  antispecista non violenta.
  Luca BinoMilano
  
 
  Il seme della discordia 
 L'agricoltura, attività primaria, fonte basilare per 
                  l'approvigionamento alimentare dell'uomo, si fonda su alcuni 
                  elementi imprescindibili: la disponibilità di terra, 
                  l'abbondanza d'acqua, la conoscenza di buone tecniche agronomiche.
 
 Veniamo all'ultima di queste condizioni, la conoscenza. Da tempo 
                  immemorabile, da quando il primo uomo o donna ha posto a dimora 
                  un seme ed ha appreso a curarlo, allevarlo, seguirlo fino ad 
                  ottenere la pianta voluta, le sementi sono sempre state riproducibili, 
                  esse sono state selezionate in base alle esigenze umane e, per 
                  fare un esempio, la vite che conosciamo noi, non è certamente 
                  la stessa che allignava, suo areale originario, sui monti del 
                  Caucaso ove si ritiene essa abbia suscitato l'interesse degli 
                  uomini per la prima volta.
 
 È una semplice legge naturale quella della selezione, 
                  prendete, anche oggi, nel duemila, qualunque seme di infestante, 
                  per esempio il comunissimo amaranto, cominciate ad isolarne 
                  i semi, coltivatelo nell'orto, liberatelo dalle altre consorelle, 
                  non ci vorranno molte generazioni e vedrete che questo amaranto 
                  arriverà a produrre chicchi più grossi, diventerà 
                  sempre più imponente, certamente perderà quella 
                  rusticità che aveva l'amaranto selvatico che aveva quello 
                  preso in campagna, spontaneo.
 
 Bene, applicate questo semplice meccanismo su vasta scala, prendete 
                  in considerazione popolazioni di contadini in ogni parte del 
                  mondo, distanti tra loro, operanti in ambienti alquanto differenti: 
                  tutto ciò nel corso di decine di migliaia di anni ha 
                  prodotto la biodiversità rurale.
 
 Per semplificare: esistevano qualcosa come 12.000 varietà 
                  di riso e crescevano ed alimentavano popolazioni dalle sabbie 
                  desertiche alle ricche ed irrigue pianure asiatiche, ovvero 
                  esistevano varietà di riso asciutto, dai colori, fogge, 
                  dimensioni le più incredibilmente diverse.
 
 Certo, se ci si reca in un negozio di prodotti macrobiotici 
                  o biologici si possono trovare rissi a chicco nero, rosso, con 
                  un pò di fortuna anche il cossiddetto “selvatico” 
                  ma dovete immaginare un'abbondanza infinitamente maggiore.
 
 Agli inizi del Novecento, i ricercatori dell'Istituto Vavilov, 
                  San Pietroburgo, poi Leningrado, istituto intitolato giustamente 
                  a quell'insigne botanico che aveva percorso i continenti alla 
                  ricerca, raccolta e catalogazione di tutto il germoplasma esistente, 
                  e fino alla dissoluzione dell'Urss, hanno custodito,
 
 sopravvivendo persino all'assedio nazista, i ricercatori si 
                  lasciarono morire di fame pur di non intaccare quella meraviglia 
                  accumulata nelle loro celle, migliaia e migliaia di varietà 
                  di verse di ogni tipo di orticola, cereale, di ogni pianta utile 
                  per l'umanità, avevano accumulato una quantità 
                  di germoplasma imponente.
 
 Questa biodiversità era dovuta ad una molteplicità 
                  di fattori, dal clima, alle tecniche colturali, alle tradizioni 
                  delle tante popolazioni di agricoltori presenti sul pianeta.
 
 Come mai, oggigiorno, in tutto il pianeta, sempre per attenerci 
                  al riso, di varietà non ne esistono che poche centinaia 
                  e pure esse a rischio di estinzione?
 
 È stata, principalmente, colpa della cossidetta “rivoluzione 
                  verde” ovvero dell'introduzione massiccia, in ogni angolo 
                  del globo, ovunque possibile, di una meccanizzazione totale, 
                  i trattori, le trebbiatrici, dappertutto o quasi hanno sostituito 
                  i buoi, i cavalli, gli asini. L'introduzione massiccia di fertlizzanti 
                  chimici, l'agricoltura è passata in poche decine d'anni 
                  da attività di sussistenza o al più di scambio 
                  su piccola o media scala ad attività industriale. I sostenitori 
                  di questa modernizzazione, mentendo spudoratamente, sostengono 
                  che tutto questo abbia migliorato e aumentato le speranze di 
                  vita dell'umanità: certamente, di quella parte che quegli 
                  strumenti produceva e rivendeva. Consiglio un libro molto interessante, 
                  almeno uno “Olocausti tardo vittoriani” di Mike 
                  Davis e si leggerà, tra le altre cose, che il PIL di 
                  Calcutta, agli inizi del Settecento era superiore a quello di 
                  Londra.
 
 Ovvero, l'imposizione della tecnologia occidentale, della agronomia 
                  europea in tutto il mondo ha provocato la distruzione, l'erosione 
                  dei suoli, l'impoverimento in consistenti parti del mondo. E 
                  questo è avvenuto, prima che vi ponessero rimedio, negli 
                  stessi paesi che questo sconvolgimento avevano causato ed esportato. 
                  Negli anni ‘20, nelle pianure sconfinate dell'ovest americano, 
                  già terreno di pascolo per milioni di bisonti, sterminati 
                  al pari dei nativi americani, grazie all'adozione della coltura 
                  in linea di cereali a pedita d'occhio, le rese celebri dai romanzi 
                  di John Steinbeck, “dust bowls” le tempeste di sabbia 
                  che erosero milioni di ettari rendendoli aridi e desertificando 
                  aree di stati interi, i contadini americani, specie i piccoli 
                  conobbero fame e disperazione. Gli Americani cambiarono sistema 
                  di coltura, capirono che se la prateria era un habitat equilibrato, 
                  le graminacee, nutrimento per i bisonti, sradicate per far posto 
                  alla monocultura cerealicola, dovevano quantomeno praticare 
                  un sistema di rotazione per non impoverire il terreno e ripetere, 
                  alla prima tempesta, i disastri suddetti.
 
 Renè Dumont, agronomo francese ha parlato nelle sue opere 
                  di questi ed altri sconvolgimenti soprattutto egli si è 
                  dedicato ai paesi francofoni, dall'Indocina all'Africa equatoriale: 
                  ovunque la “rivoluzione verde” ha prodotto sconquassi 
                  similari.
 
 Il resto del mondo, politicamente soggetto, a quale dei due 
                  blocchi, capitalista o comunista non ha fatto nessuna differenza, 
                  è stato, ed è in parte ancora, solamente luogo 
                  di produzione massiccia di fibre, legname, cereali destinati 
                  all'alimntazione, all'industria del primo mondo.
 
 È conosciuta abbastanza la distruzione totale delle foreste 
                  equatoriali per far posto alla monocultura della palma da olio 
                  in diverse aree del mondo, Indonesia, in primis.
 
 E già qui saremmo ad un passo dal baratro: paesi che 
                  non hanno avuto autonomia politica hanno subito grazie a classi 
                  dirigenti comprate e corrotte un tanto al chilo, il depauperamento 
                  totale di pari passo con la perdita di ogni libertà anche 
                  della propria biodiversità originaria.
 
 Non è finita qui, con la nascita delle biotecnologie, 
                  con la scoperta degli OGM, il quadro diventa fosco, il futuro 
                  alimentare dell'umanità, già precario, minaccia 
                  di saltare completamente. Multinazionali come Syngenta, Novartis, 
                  Monsanto hanno cominciato a brevettare ed esportare in ogni 
                  parte del mondo, trovando resistenze di qualche peso in Europa, 
                  sementi che di quel processo di selezione naturale di cui parlavamo 
                  all'inizio, non hanno più nulla a che vedere: laddove 
                  per passare dall'uva del Caucaso ci abbiamo impiegato millenni, 
                  questi, in camice bianco, in pochi giorni, agendo sul Dna, combinando 
                  segmenti di organismi viventi anche diversi tra loro, per esempio, 
                  DNA del merluzzo nelle fragole e così bioingegnerizzando, 
                  manipolano tutto il manipolabile e sono arrivati a determinare 
                  in un campo pericoloso come il vivente quello che si fa con 
                  le automobili, per poterne vendere di più, hanno ideato 
                  l'obsolescenza programmata, ovvero, dopo un certo numero di 
                  anni queste, tac! si scassano e tocca comprarne un'altra.
 
 Pazienza, uno può pure andare a piedi, questa tecnica 
                  applicata grazie alle possibiltà della bioingegneria 
                  alle semnti ha portato per dirne una, all'invenzione di cotone, 
                  di riso contenenti un gene, il famigerato “Terminator” 
                  che sterilizza il seme rendendolo irriproducibile.
 
 Ecco, come si può leggere in Monoculture della mente, 
                  Vandana Shiva, che decine di migliaia di contadini indiani, 
                  stato del Karnataka, arrivano a suicidarsi in massa: la carestia, 
                  il mncato arrivo del monsone non avevano permesso a questi contadini 
                  in possesso di questi semi OGM il riacquisto della semente per 
                  l'annata successiva, per evitare che i debiti ricadano sui figli, 
                  il capofamiglia si toglie la vita... o passa alla guerriglia 
                  naxalita assaltando e distruggendo depositi Monsanto.
 
 Il quadro, ancorchè parziale ma credo possa dare le dimensione 
                  planetarie della facenda, è questo.
 
 Consideriamo che si è agito sul seme, fonte primaria 
                  di vita, culla stessa di ogni essere vivente senza nessuna cautela, 
                  prevedendo solamente il guadagno immediato, studiando a tavolino, 
                  seguendo le leggi della domanda e dell'offerta come per qualsiasi 
                  altro bene strategico, il petrolio o il carbone: meno ce n'è 
                  più costa, maggiore sarà il valore aggiunto.
 
 Ora, piccoli Davide contro Golia, ma il paragone non regge, 
                  Davide aveva molte più possibilità e Golia non 
                  controllava, come queste multinazionali, governi interi, catene 
                  editoriali al completo, come i “seedsavers” salvatori 
                  di semi, sono in lotta per preservare, ricercare, riprodurre 
                  quanto più possibile ed in ogni parte del mondo la biodiversità 
                  agricola originaria.
 
 Impresa improba, nonostante i seedsavers negli Usa, pur divisi 
                  in due distinte associazioni, siano circa 50.000, in Europa 
                  molto meno, ciò che è stato salvato è nulla 
                  rispetto a quanto si è estinto per sempre, eppure... 
                  Eppure, è faccenda di questi ultimi tempi, una sentenza 
                  della Corte costituzionale europea, organismo UE, ha dato torto 
                  ad una associazione francese Kokopelli in causa da molti anni 
                  con una ditta sementiera, la Baumax Sas,
 
 L'associazione Kokopelli attiva nella salvaguardia della biodiversità 
                  in vari paesi del mondo organizzando corsi di autoriproduzione 
                  delle sementi, di pratiche agricole sostenibili, che destina 
                  molta parte della vendita di queste sementi rare a queste attività 
                  non profit ed alla fornitura gratuita di semi a contadini in 
                  varie parti del pianeta, si è vista condannata per frode 
                  commerciale sarà costretta a pagare e non è la 
                  prima volta che accade migliaia e migliaia di euro di ammenda, 
                  sempre che la reiterazione del reato non porti il suo presidente, 
                  Dominic Guillet direttamente nelle patrie galere per qualche 
                  annetto.
 
 Davide contro Golia era, in confronto, uno scontro alla pari. 
                  L'implicazione di questa sentenza che sanziona la non commerciabilità 
                  di sementi non inscritte nel catalogo nazionale prevede che 
                  solamente le grosse ditte sementiere, e, dietro di loro, le 
                  multinazionali, potranno vendere sementi, tutto il lavoro di 
                  recupero della memoria storica, gli studi di etnobotanica, le 
                  infinite sfumature di colori, profumi e sapori della biodiversità 
                  originaria sono destinati alla sparizione.
 
 I seedsavers saranno condannati al piccolo scambio, tutt'ora 
                  legale tra di loro: completamente ininfluente rispetto al mercato 
                  nelle mani dei manipolatori. In pratica si potrà ancora 
                  scambiare la semenza del grano Carusieddu del Cilento ma se 
                  un contadino me ne chiede qualche quintale io non posso venderglielo, 
                  è semplicemente pazzesco, cedere ad un amico una bustina 
                  di semi di pomodoro gigante di Lecco è ben altra cosa 
                  dal procurare mais “scaiola” per seminarne ettari, 
                  nessuno è così ricco da poterlo fare.
 
 Questa sentenza mette fine alla biodiversità, certificando 
                  che solamente chi è in grado, pagando, di registrare 
                  le proprie sementi nel catalogo ufficiaile, potrà commercializzarle. 
                  Inoltre una varietà per essere inscritta in questo catalogo 
                  abbisogna di tante di quelle scartoffie e pratiche che, ad oggi, 
                  nessuna associazione di seedsavers è in grado di fare. 
                  gli enti pubblici, con poche eccezioni, latitano.
 
 L'istituto Vavilov di San Pietroburgo è alla sfascio 
                  e da tanto. Restano, baluardi della bioversità, le banche 
                  del seme costruite alle isole Svalbard dalle stesse multinazionali 
                  che hanno rapinato e dilapidato germoplasma in tutto il mondo.
 
 Come per l'acqua, bene primario insostituibile per l'umanità, 
                  così il seme deve restare bene comune, libero e riproducibile, 
                  esso deve essere libero da brevetti, occorre lottare e sancire 
                  l'intangibilità del vivente.
 
 Diversamente saremo ancora più schiavi di quanto già 
                  non lo siamo: se è possibile vivere senza un Cd o senza 
                  un film, sui quali pesano i diritti degli autori, non è 
                  pensabile che sui semi s'impongano diritti e copyright della 
                  stessa natura, ciò equivale a condannare alla fame miliardi 
                  di persone.
 
 Questo mio intervento, non oggettivo, io sono un seedsaver, 
                  un custode dei semi antichi, socio di Civiltà Contadina 
                  da oltre 10 anni e amico personale di Dominic Guillet, presidente 
                  di Kokopelli, intende continuare il dibattito, ho cercato di 
                  chiarire, di spiegare cose che semplici non sono, mi scuserete 
                  eventuali imprecisioni.
  Teodoro Margaritawww.civiltacontadina.it
 Asso (Co)
  
 
  Il razzismo al tempo della crisi  Yassine ha rubato e la deve pagare. Yassine è un ladro 
                  perché non ha voglia di lavorare, è strafottente 
                  e la legge non lo punisce. Tutti noi siamo minacciati, le nostre 
                  case, le nostre famiglie; ci sentiamo sotto pressione, frustrati, 
                  arrabbiati. Yassine non è italiano e non è di 
                  qui, di questo territorio che è solo nostro. È 
                  venuto per rubare, per ubriacarsi, per recar danno. E noi gente 
                  per bene, padri di famiglia, onesti lavoratori ci difendiamo 
                  e lo ammazziamo (almeno tentiamo di farlo) e lo trattiamo peggio 
                  di un animale, di un oggetto.Yassine non è solo un ladro: è straniero, è 
                  africano, un mezzo negro perché non è del tutto 
                  bianco ma nemmeno nero come i centroafricani. E noi quella gente 
                  lì la mal sopportiamo perché ci hanno invaso il 
                  territorio nostro per tradizione. Diciamo che non siamo razzisti 
                  e xenofobi perché gli immigrati li tolleriamo se lavorano 
                  e se stanno per i fatti loro, senza far troppo rumore perché 
                  sono loro che si devono adattare alle nostre leggi e ai nostri 
                  costumi. Noi li rispettiamo nel senso che li ignoriamo: loro 
                  credono in Allah, noi in Cristo. Ma questa civile convivenza 
                  può essere interrotta in alcuni casi: quando qualcuno 
                  di quelli esce fuori dalle righe e si permette di rubare e di 
                  violare la nostra proprietà, la nostra casa immacolata 
                  e di mettere in pericolo con la propria presenza le nostre famiglie 
                  così a modo e per bene.
 Noi non siamo solo razzisti e xenofobi ma pure vigliacchi, e 
                  della peggior specie. Non siamo disposti neanche a difendere 
                  le nostre idee (ma direi meglio pregiudizi) in pubblico o in 
                  tribunale; aggrediamo vilmente nella notte tre contro uno e 
                  pure armati e poi sosteniamo di esserci difesi. Già perché 
                  l'aggressore è diventato lo straniero: prima socialmente 
                  (ruba in casa nostra, invade il territorio dove viviamo, occupa 
                  posti di lavoro, spaccia ecc.) e adesso anche fisicamente. Versione 
                  credibilissima fatta da gente per bene. La stessa gente, nello 
                  stesso territorio, che organizza ronde armate di bastoni e quant'altro, 
                  che segue i rom con le auto piene di mazze quando vanno in cerca 
                  di ferro, per controllare che non vadano invece a rubare.
 Questa è la nostra vallata - spaccato di una parte d'Italia 
                  ma non rappresentativa di tutti - ai tempi della crisi economica. 
                  In questa vallata soffia forte il vento dell'odio e del razzismo 
                  con cui una parte delle forze politiche di questa splendida 
                  democrazia per anni ha intriso le proprie campagne elettorali 
                  e la propria propaganda in cerca di paura e di voti.
 Ed è lo stesso Stato in cui siamo costretti a vivere 
                  che non lascia molte alternative: basti pensare ai respingimenti 
                  in mare al largo di Lampedusa e non solo o ai lager chiamati 
                  CPT o CIE o chissà come altro ancora. E la tolleranza 
                  che si pavoneggia di applicare verso gli immigrati è 
                  solo un falso principio di esclusione e separazione. Perché 
                  al potere dello Stato e del mercato è funzionale questa 
                  separazione, questa guerra tra poveri e tra derubati dove il 
                  nemico è quello che viene da lontano, quello che ha meno 
                  di te, che minaccia la tua proprietà e la tua vita. E 
                  tutto questo ti tiene occupato e non ti fa vedere il macro: 
                  la tua vita confinata ed emarginata in una ristretta cerchia 
                  di persone, luoghi e lavori, incapaci di guardare oltre il proprio 
                  recinto di cogliere le trasformazioni in atto e soprattutto 
                  di non sentire la mano pesante (istituzionale, economica, bancaria) 
                  di chi realmente ti schiaccia e ti deruba.
  Matteo CariaggiLavagna (GE)
  
 
  Botta.../Il 
                  governo libertario non è un ossimoro 
 “Il dispotismo governativo non è mai così 
                  terribile e così forte come quando si sostiene sulla 
                  cosiddetta volontà del popolo”.
 (M. Bakunin)
 
 Forse non tutti ricordano un certo Pardaillan, che spinse Malatesta 
                  a replicare, nel 1932, a una sua proposta di “governo 
                  libertario”.
 Malatesta, come è ovvio, respinse la proposta come una 
                  contraddizione in termini, e tuttavia, a distanza di ottant'anni, 
                  la stessa merita di essere riconsiderata. Come si vede, si tratta 
                  di un triplo salto mortale per la tradizione anarchica, perché 
                  qui non si propone solo di votare o di presentarsi alle elezioni, 
                  ma addirittura di proporsi direttamente come forza di governo.
 Qualcuno dirà che, in tal modo, il movimento libertario, 
                  da soluzione del problema diviene parte del problema. E tuttavia, 
                  la vicenda storica, da quando esiste un movimento anarchico, 
                  ci ha insegnato alcune cose. Ad esempio che lasciare la politica 
                  agli altri non è un buon investimento. Ma chi sono questi 
                  “altri”?
 Io, nel mio ultimo libro (“Il dittatore libertario”), 
                  individuo due categorie psicologiche, che chiamo inclinazioni: 
                  l'inclinazione libertaria, che è di chi non vuole né 
                  comandare né essere comandato, e l'inclinazione autoritaria, 
                  che è di chi vuol comandare, e che se non ci riesce accetta 
                  di essere comandato a sua volta: la morale dello schiavo, direbbe 
                  Nietzsche.
 Gli uomini quindi non sono tutti uguali, come sostiene una certa 
                  vulgata democratica o anche anarchica, sia pure con importanti 
                  eccezioni, come Kropotkin, che riconosceva che esistono uomini 
                  con bisogni più elevati di altri. Il problema è 
                  che gli uomini dotati di inclinazione libertaria sono una minoranza, 
                  o almeno così pare, e le leve della società sono, 
                  agli alti livelli come ai bassi, nelle mani degli individui 
                  dotati di inclinazione autoritaria.
 In effetti, siamo abbastanza grandi per fare un'analisi non 
                  consolatoria dei meccanismi sociali: guardiamoci in giro. Forse 
                  troviamo a ogni angolo di questa società libertari che 
                  non chiedono altro che di essere liberati, o piuttosto tanti 
                  Fantozzi, che “rispettano le regole” in attesa di 
                  andare in pensione (sempre che la situazione economica sarà 
                  tale da poter concedere una pensione)?
 Scusate il riferimento personale, ma io sto scontando anni di 
                  internamento, prima in OPG e poi in comunità, proprio 
                  per non avere rispettato le regole, sia pure da malato, e oggi 
                  mi tocca sentire settimanalmente dalla mia psicologa che le 
                  regole sono necessarie perché danno sicurezza e consentono 
                  a ciascuno di mettersi nei panni degli altri, trovando il paziente, 
                  cioè io, piuttosto recalcitrante, perché io intanto 
                  sto maturando in me, così circondato, sentimenti immoralisti, 
                  dato che, sempre come diceva Nietzsche, non esistono fenomeni 
                  morali, ma solo interpretazioni morali dei fenomeni. E non è 
                  neanche delle peggiori!
 Cosa c'entra allora tutto ciò con il governo libertario? 
                  Come si giustifica il paradosso, la contraddizione in termini? 
                  La risposta è semplice: si tratta di una legittima difesa 
                  rispetto all'ipotesi che il comando resti nelle mani degli autoritari.
 Si pensi alla battaglia antiproibizionista: sono quasi cinquant'anni 
                  che va avanti, se pensiamo ai primi capelloni degli anni '60, 
                  mentre in un governo libertario sarebbe stata una priorità 
                  decisa dalla sera alla mattina.
 Si tratta quindi di raccogliere tutti gli antiproibizionisti 
                  (cartina di tornasole dell'inclinazione libertaria, l'antiproibizionismo 
                  come metodo su tutto, non solo sulle droghe) sotto comuni bandiere 
                  e andare all'assalto. Se c'è accordo su questo, poi si 
                  potrà discutere di quale sia il sistema elettorale più 
                  adeguato al progetto (io penso sia quello proporzionale) e degli 
                  altri dettagli. L'importante è che si sia gettato un 
                  sasso nello stagno per iniziare la discussione.
  Fabio Massimo NicosiaMilano
   
  ...e 
                  risposta/Smettiamola di illuderci sui “poteri buoni” 
 Pare strano che a centoquarant'anni dal congresso di Saint-Imier, 
                  considerato l'atto di fondazione del movimento anarchico, si 
                  debba ancora ribadire l'ABC dell'anarchismo, e per di più 
                  su una rivista anarchica e in risposta a chi parrebbe definirsi 
                  anarchico.
 Tuttavia la lettera del Nicosia è interessante, perché, 
                  nel candore con cui trae le conseguenze delle proprie premesse, 
                  illustra esemplarmente la bancarotta del revisionismo anarchico. 
                  Il Nicosia è chiaramente una persona di buoni sentimenti, 
                  che ha particolarmente subito la repressione degli apparati 
                  autoritari. In questo ha tutta la mia fraterna simpatia umana 
                  e il mio rispetto. Ma il suo argomento ricorda il proverbiale 
                  ubriaco che ha perso le chiavi di casa in un angolo buio della 
                  strada e va a cercarle sotto il lampione. O il tifoso di una 
                  squadra di provincia sempre sconfitta, il quale, per amore della 
                  sua squadra e per vederla finalmente vincere, diventasse juventino.
 Per sua stessa ammissione, l'argomento di Nicosia è una 
                  minestra riscaldata: siccome al mondo sono sempre stati gli 
                  autoritari ad avere la meglio, facciamoci autoritari e imponiamo 
                  “il bene per forza.” Accettiamo per un momento la 
                  premessa, per amore di discussione. Per imporre il bene bisogna 
                  arrivare al potere, cioè convincere la maggioranza di 
                  quella folla di Fantozzi che Nicosia suppone. Con che programma 
                  ci arriveremo? Con un programma schiettamente libertario? Ma 
                  se avremo la maggioranza con noi su quel programma, la rivoluzione 
                  facciamola nelle strade. Oppure, per conquistare la maggioranza, 
                  annacqueremo adeguatamente il nostro programma? E così, 
                  se tutto va bene, potremo alla fine trionfalmente imporre un 
                  programma che non ha più niente di libertario.
 Ma lasciamo perdere le fantasticherie. È il concetto 
                  stesso di “bene per forza” che è la negazione 
                  stessa dell'anarchismo. Come Malatesta scriveva già nel 
                  1894, “quali saranno precisamente le idee che bisognerà 
                  imporre? Le mie, per esempio, o quelle dell'anarchico A o B? 
                  (...) Perché voi converrete che non vi sono quattro anarchici 
                  completamente d'accordo tra di loro, ciò che, insomma, 
                  è ben naturale ed è un segno della vitalità 
                  del partito.”
 Nicosia vuole andare al potere come “legittima difesa” 
                  contro gli autoritari. Purtroppo però - c'è bisogno 
                  di dirlo? - non si può andare al potere e rimanere non-autoritari. 
                  Potremmo solo diventare noi i nuovi autoritari, che toccherà 
                  poi a qualcun altro rovesciare per legittima difesa. Nicosia 
                  vuole l'antiproibizionismo come metodo, ma vuole praticarlo 
                  con l'aiuto della polizia, perché altrimenti non avrebbe 
                  motivo di voler andare al potere. Gli anarchici invece praticano 
                  la libertà come metodo.
 Il principio anarchico fondamentale è la coerenza tra 
                  fini e mezzi: non si può raggiungere una società 
                  anti-autoritaria con mezzi autoritari. Questo principio non 
                  è un lusso che gli anarchici si concedono, per non sporcarsi 
                  le mani, ma è una necessità. I vari revisionismi 
                  sono sempre giustificati da un preteso “pragmatismo,” 
                  messo in contrasto all'utopismo anarchico. Invece il pragmatismo 
                  è proprio dalla parte degli anarchici. Machiavelli sosteneva 
                  che “è necessario ad un Principe, volendosi mantenere, 
                  imparare a potere essere non buono.” Sono gli anarchici, 
                  i quali non credono che possa essere fatto il bene mantenendosi 
                  al potere, ad avere imparato la lezione realista di Machiavelli, 
                  non i vari revisionisti che continuano a illudersi sulla possibilità 
                  dei “poteri buoni.”
 Chi si è stancato o ha cambiato idea dica chiaramente 
                  di non essere più anarchico. Non ci sarebbe niente di 
                  strano e costui sarebbe in (più o meno) buona compagnia. 
                  Ma, per favore, smettiamo di voler convincere gli anarchici 
                  a diventare autoritari per amore dell'anarchismo.
  Davide Turcato(Vancouver, Canada)
  
 
  Ricordando 
                  Carlo Oliva 
 Pubblichiamo alcuni dei messaggi che ci stanno giungendo 
                  in redazione.
 
 Sono una maniaca seguace di Radiopop e ritenevo Carlo Oliva 
                  la voce più seria, colta e interessante della radio. 
                  Purtroppo non lo conoscevo personalmente.
 La sua morte mi ha molto addolorato e stupito, anche perché 
                  nei giorni scorsi lui ha fatto normalmente le sue trasmissioni. 
                  Leggevo anche i suoi pezzi su “A”, sempre con ammirazione 
                  e condivisione.
 Spero che la rivista si ricordi di lui, ampiamente.
 Un abbraccio antifa e A
 Marcella Denegri(Milano)
  
 Volevo anche dirvi che mi sono molto dispiaciuta per la morte 
                  di Carlo Oliva. Non me lo aspettavo e lui sarà un'altra 
                  persona che mi mancherà molto. Lo seguivo da sempre su 
                  Radio Popolare e nei suoi molti interventi, nella sua trasmissione 
                  della domenica La Caccia, nelle recensioni dei gialli e in molte 
                  altre occasioni, e anche su A-Rivista anarchica, o ancora dai 
                  tempi del vecchio Linus. Che peccato, proprio mi dispiace molto. 
                  Immagino che tu lo conoscessi. Io non l'ho mai frequentato, 
                  però ricordo di aver scambiato con lui qualche parola 
                  nella libreria Utopia, dove spesso lo vedevo.
  Viviana De Luca(Granada, Spagna)
 
 Non ho conosciuto Carlo di persona e l'ho apprezzato su “A” 
                  e a Radio popolare. Sono davvero dispiaciuto. Ciao.
  Orazio Gobbi(Piacenza)
 
 Non l'ho conosciuto personalmente, ma l'ho apprezzato nel leggerlo. 
                  Ciao.
  Giacomo Ajmone(Milano)
 
 È un vero grande dolore per noi e per la cultura italiana.
  Alessio Lega(Milano)
 
 Caro Paolo e cara redazione tutta, vi esprimiamo la nostra partecipazione 
                  al dolore per la perdita di Carlo Oliva, che per tanti anni 
                  ha lavorato con voi condividendo il lavoro e spero le soddisfazioni 
                  che la rivista vi dà. Un abbraccio forte.
  Gruppo Anarchico  Germinal(Trieste)
  
 
 
 
  
                  
                     
                      |  I 
                          nostri fondi neri 
                            |   
                      |  
                           Sottoscrizioni. A/m Danilo, Jack Grencharoff 
                            (Quama – Australia) 150,00; Peter Sheldon (Sydney 
                            – Australia) 300,00; Marcello Vescovo (San Michele 
                            – Al) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando 
                            Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Roberto Nanetti (Settimo 
                            Torinese – To) 20,00; Roberto Chiacchiaro (Milano) 
                            20,00; Maria Rosa Orru (Nuoro) 20,00; Giuseppe Anello 
                            (Roma) 20,00; Monica Giorgi (Bellinzona - Svizzera) 
                            80,00; Umberto Lenzi (Roma) 50,00. Totale € 
                            1.180,00. Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Danilo 
                            Sidari (Sydney – Australia); Battista Saiu (Biella); 
                            Roberto Di Giovannantonio (Roseto degli Abruzzi – 
                            Te); Alessandro Cantini (Andora – Sv); Alfredo 
                            Gagliardi (Ferrara) 300,00; Lucia Sacco (Milano); 
                            Marco Galliari (Milano); Luca Denti (Oslo – 
                            Norvegia); Paolo Vedovato (Roma); Verena De Monte 
                            (Bressanone - Bz). Totale € 1.200,00 |  |